Speciale 35 ore

35, 34, 33, 32, 31, 30, 29, 24, 20 (ore)...

Libri sugli orari di lavoro nel corso del tempo
28 marzo 1998 - Daniele Barbieri

"Supponiamo che una certa quantità di persone sia impegnata nella produzione di spilli: producono tanti spilli quanti sono necessari per il fabbisogno mondiale lavorando 8 ore al giorno. Qualcuno inventa una macchina grazie alla quale lo stesso numero di persone nello stesso numero di ore può produrre una quantità doppia di spilli. Il mondo non ha bisogno di tanti spilli e il loro prezzo è così basso che non si può ridurlo di più. Seguendo un ragionamento sensato, basterebbe portare a 4 ore lavorative la fabbricazione degli spilli e tutto andrebbe avanti come prima. Ma oggi giorno una proposta del genere sarebbe giudicata immorale. Gli operai continuano a lavorare 8 ore, si producono troppi spilli, molte fabbriche falliscono e metà degli uomini che lavoravano in questo ramo si trovano disoccupati.
Insomma, alla fine il totale delle ore lavorative è ugualmente ridotto, con la differenza che metà degli operai restano tutto il giorno in ozio mentre metà lavorano troppo. In questo modo la possibilità di usufruire di più tempo libero, che era il risultato di quell'invenzione, diventa un'universale fonte di guai anziché di gioia. Si può immaginare nulla di più insensato?".
L'"oggi giorno" non è il 1998 ma il 1935. E dunque l'autore di questa provocazione non può essere Fausto Bertinotti; ancora un po' di suspence, prima di svelarne il nome. Il ragionamento prosegue così: "se il salariato lavorasse 4 ore al giorno ci sarebbe una produzione sufficiente per tutti e la disoccupazione finirebbe, sempre che si ricorra a un minimo di organizzazione. Ma questa idea scandalizza la gente per bene". Che il "minimo di organizzazione" fosse già possibile all'epoca (si badi bene: 1935) appare ovvio all'autore: "ciò fu dimostrato in modo chiarissimo durante la guerra, tanti uomini arruolati nelle forze armate (...) e uomini e donne distolti dal loro lavoro abituale. Ciò nonostante il livello generale del benessere materiale fra i salariati, almeno dalla parte degli Alleati, fu più alto che in qualsiasi altro periodo (...). La guerra dimostrò in modo incontrovertibile che, grazie all'organizzazione scientifica della produzione, è possibile assicurare alla popolazione del mondo moderno un discreto tenore di vita sfruttando solo una piccola parte delle capacità di lavoro generali". L'orribile guerra dunque svela l'imbroglio della pace (sociale).
"Ma noi (in Occidente) non abbiamo mai tentato di instaurare la giustizia economica". Il signore che così provocava nel quasi preistorico 1935 era l'ormai quasi dimenticato inglese Bertrand Russell (1872-1970). Che qualche "medaglietta" può vantarla: come matematico soprattutto, come filosofo (e autore di una bella Storia della filosofia), pacifista militante anche in tempi di guerra (e per questo spesso incarcerato), gran divulgatore e polemista nonché premio Nobel (nel 1950) per la letteratura. Ma anche, per completare il pur sintetico ritratto, sostenitore del socialismo (ma feroce critico della sua versione sovietica) e del primo femminismo. Le frasi citate sono tratte dal breve quanto affascinante Elogio dell'ozio che si trova in un'antologia (sia nelle edizioni Longanesi che negli Oscar Mondadori) con lo stesso titolo.
Peccato che la memoria (come la matematica) sia appannaggio dei vincitori (ovvero di chi controlla i massmedia) altrimenti qualche illustre opinionista avrebbe potuto ricordare a Bertinotti e Jospin (stavolta davvero gettando nel panico il Fossa-dei-leoni e i nove decimi del nostro sindacato) che 4 per 6 è uguale 24; e addirittura, se ben intendiamo il ragionamento di Russell, che 4 per 5 fa 20. E rispetto al 1935 "l'organizzazione scientifica della produzione" ha fatto molti passi avanti. Con 20 ore al giorno la disoccupazione sparirebbe. Possibile. Giusto. Naturalmente se noi cercassimo "la giustizia economica".
Ma questa è solo una bella utopia (strillerà qualcuno), i tempi sono cambiati (aggiungerà qualche nostrano mister Jones, scrutando il Rolex d'oro) e comunque bisogna tener conto della globalizzazione (che poi significherebbe i rapporti di forza, ma volete mettere come suona meglio un termine neutrale?). Ai malati di "estremismo realista" e/o miopia prepotenti cioè pro-prepotenti è inutile consigliare Russell o qualsivoglia libro; meglio un vaffanculo. Però esistono moltissimi disinformati, confusi, perplessi in buona fede. A tutti costoro il consiglio è: oltre al vecchio Elogio dell'ozio regalatevi l'ottimo libretto di Carla Ravaioli e Mario Agostinelli. S'intitola appunto Le 35 ore (Editori Riuniti), costa 15 mila lire, che per 92 pagine è un prezzo quasi - e sottolineo il quasi - onesto.
Le 35 ore va letto (e subito!) perché con un linguaggio chiaro e con informazioni di prima mano (perlopiù disponibili ma misteriosamente scomparse dai mass-media importanti) smonta tutti gli argomenti dei pochi Fossa e dei loro tanti reggi-coda. Non è un libro apologetico: dunque non ci racconta nè la leggenda che le 35 ore (all'interno del capitalismo "reale") risolveranno tutti i problemi e neppure la favoletta che la vittoria è certa, che i padroni (ai più noti sotto l'elegante nome di imprenditori) sono ormai alle corde. Il libro è costruito in forma di dialogo: con Carla Ravaioli a interrogare Agostinelli, uno dei rari dirigenti sindacali fuori dal coro. Ma uno dei pregi di Le 35 ore è anche nel rovesciamento dei ruoli; così spesso è Agostinelli che chiede a lei cosa dovrebbe fare (rispetto alle donne ma anche all'iper-produzione) il sindacato, mentre la sua interlocutrice lo incalza e lo contesta sulle questioni della libertà, del senso da dare al vivere, del benessere collettivo contrapposto agli egoismi, dei ruoli sessuali/sociali (tema su cui il sindacato continua a essere attento a parole e distratto nei fatti), della supposta crescita illimitata e dei suoi ineluttabili, permanenti guasti.
Insomma, un libretto straordinario. Perché esce al momento giusto, dentro uno scontro duro/durissimo e che pure si può vincere. Ma anche perché, pur nella fretta con cui è stato redatto (e dunque i pignolissimi troveranno qualche carenza su questioni economiche o politiche) non è una polemica d'occasione: il suo orizzonte teorico e pratico è quello di almeno un decennio, il suo retroterra culturale e politico è saldamente piantato nelle vere questioni che spingono il nostro mondo verso una maggiore libertà per tutti o verso il crescente dispotismo (ma "democraticamente" mascherato) di pochissimi. E questi due pregi spiegano perché praticamente nessun giornalista lo abbia recensito. Come ironizzava una vecchia canzone "la democrazia borghese è un vecchio trucco che consiste essenzialmente/nel far credere democratiche solo le cose che non cambian niente".