Speciale 35 ore

La storia della riduzione degli orari di lavoro

Quando gli autori stati interpellati per preparare una ricerca sulle vicende dell'orario di lavoro nel ventesimo secolo hanno subito avvertito tutte le difficoltà: archivi impoveriti nel tempo; vuoti per interi periodi; informazioni parziali e segmentate. Gli archivi di fonte sindacale hanno subito moltissime vicende, talune devastanti e soffrono poi dei limiti conosciuti; soprattutto quando sarebbe necessario scendere nei particolari delle contrattazioni aziendali o di quelle nazionali con risvolti locali.
Ma avendo avviato il lavoro ci è parso comunque utile presentare la parziale documentazione raccolta che potrebbe favorire in un secondo tempo un più completo lavoro offrendo intanto elementi di conoscenza.
28 marzo 1998 - Gianni Alasia e Vittorio Rieser

Fine secolo '800
"nelle filande torinesi le operaie lavorano in media 16 ore al giorno, sedute davanti ad una bacinella d'acqua bollente, con le dita là dentro a scuotere i bozzoli e a tirarne il filo" .
A Torino, questo lavoro delle ragazzine operaie, sarà tramandato alla storia con la frase ripetuta per generazioni: " a sbubinè i bigat" (a sbobinare i bachi).
Ci vorrà una legge del 1899 per fissare un maximum di 12 ore e per l'interdizione dal lavoro notturno per le donne e i ragazzi dai 13 ai 15 anni.

Inizio '900
Il 5 maggio 1906 16.000 operai del settore meccanico (di cui 12.000 donne) invadono il centro di Torino (v. Garibaldi) per rivendicare le 10 ore giornaliere.
A Torino intento il 2 marzo 1906 alla FIAT s'era stipulato un accordo che all'art. 2 recitava: "l'orario normale di lavoro è di 10 ore. Le prime due ore straordinarie, oltre le dieci, verranno retribuite col salario maggiorato del 25 %. Al di là delle 12 ore l'operaio non è più obbligato a prestare la sua opera. Se lo farà verrà retribuito col 50% in più del salario normale".
Fra i tessili vi saranno lotte durissime con scioperi e serrate: Con vicende alterne e rotture nello stesso fronte padronale. Manifestazioni di piazza. Feriti. I deputati socialisti presentano una mozione che afferma: "la Camera riconosce la necessità di discutere prontamente la legge per prevenire gli eccidi proletari", la quale sarà respinta, ragion per cui i deputati socialisti rassegneranno le dimissioni.
Vanno fino in fondo e i loro seggi saranno dichiarati vacanti e indette le elezioni suppletive.
Alla testa dei reazionari vi sono gli industriali tessili. Il presidente dei cotonieri Costanzo Cantoni scrive: "dobbiamo sottolineare gli effetti negativi sui costi di produzione della riduzione di orario" e preoccupato dalle ripercussioni in sede politica e parlamentare, anche a fronte dell?accordo raggiunto dai metalmeccanici, scrive ancora: "le autorità governative e comunali si intromettono apertamente... e danno spesso appoggio... alle più esagerate pretese".
Come si vede sull'orario le discrepanze fra politici e padroni non sono affatto nuove.

Le 48 ore contrattuali
Se otto ore vi sembran poche provate voi a lavorar e proverete la differenza di lavorare e di comandar.
L'accordo per le 48 ore viene stipulato il 20 febbraio 1919.
"con la fine della guerra, le relazioni industriali in Italia entrano in una fase completamente nuova. Il conflitto mondiale aveva dilatato sia l'occupazione industriale sia la sfera stessa della regolazione delle condizioni di lavoro, accentuando le attese dei lavoratori per un miglioramento sostanziale della loro posizione economica e sociale.
E' in questa prospettiva che va collocato l'accordo pilota siglato nel febbraio del 1919 fra la Federazione degli industriali metallurgici e la FIOM in cui venne accolta la storica rivendicazione del movimento operaio della giornata lavorativa di otto ore."
L'accordo fra l'altro recita:
"con l'approvazione avvenuta del Regolamento unico per tutte le Officine meccaniche, navali e affini, l'orario di lavoro viene ridotto rispettivamente da 55, 60 a 48 settimanali come indicato dall'art. 6 del Regolamento stesso.
Per gli stabilimenti siderurgici tale orario viene ridotto da 72 a 48 ore, con l'adozione dei tre turni, come stabilito dall'art. 6 del Regolamento unico per gli stabilimenti stessi. Tali orari dovranno essere attuati non oltre il 1° maggio per le officine meccaniche, navali ed affini e non oltre il 1° luglio per gli stabilimenti siderurgici."

Le 48 ore come orario legale
Con il Regio Decreto 692 del 1923 (convertito in legge 473 il 17/4/1925) si estende a tutte le categorie l'orario di lavoro massimo di 8 ore giornaliere o 48 settimanali.
In questo lungo periodo l'orario contrattuale subirà periodiche riduzioni nelle varie tornate contrattuali.

1933

Dibattito Giovanni Agnelli - Luigi Einaudi
La riduzione proporzionale e generale delle ore di lavoro risolve il problema di distribuire il lavoro equamente fra tutti gli uomini.
Nel giugno del 1932 il presidente della FIAT Giovanni Agnelli in un'intervista all'United Press sosteneva la necessità della riduzione dell'orario di lavoro.
Ci fu un intenso scambio di vedute col senatore Luigi Einaudi (futuro Presidente della Repubblica) che allora era direttore di "Riforma sociale" rivista di ispirazione liberale e fino ad allora tollerata dal fascismo.
Il 5 gennaio del 1933 Agnelli, in una lettera ad Einaudi, insiste sulla proposta di riduzione. Ricorda che disoccupazione è calo della domanda. Definisce la stessa disoccupazione: "una catena paurosa". Attribuisce la disoccupazione alla "incapacità dell'ordinamento del lavoro di trasformarsi con capacità eguale alla velocità di trasformazione dell'ordinamento tecnico."
Cioè quello che avremmo detto quando affermiamo che "progresso tecnico non si traduce in automatico progresso sociale" se non vi è l'intervento contrattuale e legislativo.
Agnelli parlava esplicitamente di due velocità, quella del progresso tecnico e quella del progresso dell'organizzazione del lavoro (condizione del lavoro che definisce anche umano).
La risposta di Einaudi è molto teorica, come riferirà anni dopo Alfredo Frassati. Einaudi rinvia il problema. Egli pur ammettendo che "alla lunga la disoccupazione deve essere eliminata" nel gennaio del 1933 afferma "il dissenso colle Sue (di Agnelli) vedute non riguarda dunque la meta finale", e a conclusione di una lunga dissertazione significativamente afferma: "la disoccupazione tecnica non è una malattia. È un fattore di crescenza, un frutto di vigoria e sanità. È una malattia della quale non occorre che i medici si preoccupino gran fatto chè essa si cura da sé".
Sembra quasi di leggere talune polemiche attuali coll'intervento pubblico, colla contrattazione e sul ruolo del mercato.
Il giornale "La Repubblica" del 7 gennaio 1998 ricorda la polemica Agnelli-Einaudi in un articolo dal titolo " Orario ridotto vecchia idea di casa Agnelli" in cui vengono riportati ampi stralci della polemica del '33 e fra questi uno tratto da una lettera del presidente della Fiat. "onorevole collega, partiamo dalla premessa che in un dato Paese vi siano cento milioni di operai occupati, con un salario medio di un dollaro al giorno per 800 milioni di ore di lavoro al giorno - non esistono disoccupati, non si parla di crisi, gli affari vanno - ad un tratto uomini di genio inventano un qualcosa che permette, con 75 milioni di uomini, di compiere il lavoro che prima ne richiedeva cento. Ci saranno 25 milioni di disoccupati, la domanda e i consumi si ridurranno e dopo un po' grazie ad una "catena paurosa" basteranno 60 milioni di operai a produrre quanto chiesto dal mercato. Che fare per uscire dal collasso spaventevole?". Agnelli suggerisce: "ridurre le ore lavorate da 800 a 600 mantenendo invariate le paghe". L'articolo si conclude con questa riflessione del giornalista: "più o meno quanto chiesto, 56 anni dopo, da Bertinotti."

Orario e legge

La Costituzione della Repubblica italiana al Titolo terzo (Rapporti economici) art. 36 afferma: "la durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge." E ancora "il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunciarvi."

1954
Il dibattito sulle 36 ore
Il 21 maggio compare un articolo sulla Stampa a firma del senatore Frassati che ripropone la questione orario. L'Unità apre il dibattito. Celeste Negarville nel trarre, su Rinascita, il bilancio della discussione rileva che: "fra i compagni c'è chi sostiene "i compagni sono favorevoli" ma si respinge l'idea di una simultaneità di applicazione negli altri Paesi (si fa dove si riesce ad imporla) - P. Mollo - Lancia. C'è chi richiama le difficoltà delle piccole imprese - Bono - Verbano. C'è chi sottolinea la contraddizione fra occupazione e straordinario - Pacifico - Fiat. C'è chi considera questa rivendicazione incompatibile con la legge del massimo profitto - Di Gioia - sindacalista. C'è chi considera preliminare le riforme di struttura - Giolitti. C'è chi è perplesso ritenendo il compito del momento la riconquista delle libertà in fabbrica - Santhià. C'è chi critica il pessimismo che non tiene conto che agente principale della trasformazione è l'avanzata della classe operaia e che non c'è contraddizione fra la riduzione e le riforme di struttura e richiama come fondamentale il "controllo democratico sul monopolio" - Minucci.

1 dicembre 1966
Lo studio ESI sull'organizzazione del lavoro della CGIL rileva: "l'orario massimo è in Italia attualmente di 8 ore al giorno o di 48 ore settimanali (art. 1 RDL 15 marzo 1923)." La legge afferma la CGIL stabilisce un vincolo elastico che ha dato luogo a non pochi effetti negativi, infatti secondo interpretazioni aziendali, essa consentirebbe di superare nei vari giorni il limite di 8 ore, purché nella settimana non si oltrepassino le 48 ore. Ciò porta spesso le aziende a sostenere una loro assoluta libertà nella distribuzione dell'orario, mentre ciò contrasta con altre disposizioni legislative. Tuttavia la formula è certamente inadeguata: dovrebbe essere 8 e 48.

Dalle 48 ore alle 40 ore
La questione della settimana corta
I rinnovi contrattuali del '62-'63 che segnano il culmine della grande ripresa di lotte operaie negli anni del "miracolo economico", sono caratterizzati - oltre che da altre importanti conquiste - da una rilevante riduzione dell'orario di lavoro settimanale, che nell'arco di alcuni anni porta la maggior parte delle categorie ad un orario medio di 44 ore settimanali come si può vedere dalle tabelle che seguono.
All'inizio degli anni '60, le modalità della futura riduzione dell'orario di lavoro sono oggetto di un intenso dibattito nel movimento operaio e in particolar modo nella CGIL.
Molte voci, in particolare da sinistra, sostengono la "giornata corta" piuttosto che la "settimana corta": la prima soluzione sarebbe più coerente con l'obiettivo di ridurre la fatica e difendere la salute (e in effetti questa posizione va giudicata col forte impegno di allora di modificare il "lavoro", la "prestazione lavorativa" la sua natura e i suoi caratteri) e si saldava quindi con la ricerca di impostare una nuova pratica contrattuale, non era solo un dibattito teorico, mentre la seconda rischierebbe di essere funzionale al modello consumistico proposto dall'impetuoso sviluppo di quegli anni.
Nei fatti, i lavoratori spingono massicciamente per la seconda soluzione, cioè per la settimana corta, di cui già le 44 ore sono un primo anticipo: infatti si lavora un sabato sì e uno no, se si fanno i turni si lavora la settimana del sabato mattina e non quella del pomeriggio.
Al di là delle dispute politico-ideologiche sul consumismo, questo tipo di riduzione segna un mutamento più evidente e visibile nel "tempo di vita" dei lavoratori.
Diamo la tabella degli orari contrattuali del 1 dicembre 1966. A quella data la CGIL rileva: "deve considerarsi matura la possibilità di realizzare passi decisivi verso la prospettiva di un orario generale di 40 ore".

Contratti '69-'70: le 40 ore
Le 40 ore vengono raggiunte nell'arco di due soli ulteriori rinnovi contrattuali, e cioè nei contratti del '69-'70: tenendo conto della loro attuazione scaglionata nel tempo, ad esse si giungerà nel '72-'73.
Sono quindi passati solo dieci anni da quando l'orario era ancora di 48 ore settimanali. Il "sabato libero" diviene così una conquista generalizzata - salvo, naturalmente, per certi tipi di servizi pubblici e di produzioni a ciclo continuo.
Ma c'è un altro elemento che va sottolineato, e che riguarda l'intreccio orario/organizzazione del lavoro/occupazione.
La prima tappa della riduzione d'orario era stata realizzata quando il sindacato non era ancora riuscito realmente a "entrare in fabbrica" e ad esercitare un controllo sull'organizzazione del lavoro: essa era stata rapidamente "recuperata" dai padroni attraverso l'intensificazione del lavoro e i conseguenti aumenti di produttività, e non aveva quindi avuto rilevanti conseguenze occupazionali (l'occupazione, anzi, era diminuita a causa della manovra recessiva avviata a fine '63). Al contrario, negli anni '70 la forza del sindacato in fabbrica impedisce (in larga misura) gli aumenti di produttività derivanti dalla pura intensificazione del lavoro (non, ovviamente, quelli derivanti dall'innovazione tecnologica), e quindi la riduzione di orario si traduce almeno in parte in un aumento di occupazione (come mostrano varie analisi fatte da economisti sull'andamento occupazionale di quegli anni). È un elemento concreto che mostra come lotta sull'orario e controllo sulle condizioni di lavoro e sull'organizzazione del lavoro siano due aspetti collegati: senza il secondo, i vantaggi della riduzione d'orario possono essere vanificati, sia dal punto di vista occupazionale che da quello della qualità della vita di lavoro.

Contratti nazionali dell'industria 1976-'77
In un'analisi comparata dei contratti nazionali dell'industria 1976-'77 viene ricordato che:
sull'orario di lavoro-durata dell'orario: tutti i contratti fanno richiamo alla legge dello Stato Usando formulazioni quali:
- ai soli fini legali i limiti del lavoro ordinario rimangono quelli fissati dalle vigenti disposizioni di legge
- la durata massima dell'orario è disciplinata dalle norme di legge
- i contratti stabiliscono che la durata massima settimanale (effettiva) di lavoro ordinario è di 40 ore settimanali
o a seconda dei contratti
- 40 ore di norma in cinque giorni lavorativi; 8 ore al giorno dal lunedì al venerdì; per alcune aziende l'orario può essere suddiviso in 6 giorni
o ancora
- 40 ore normalmente in 5 giorni
- 40 ore settimanali di media annua in cinque giorni
- per quanto riguarda la ripartizione giornaliera dell'orario di lavoro, tutti i contratti che ne trattano prevedono l'esame preventivo con le rappresentanze sindacali. (RSA aziendali).

La definizione legislativa dell'orario di lavoro prima della futura legge sulle 35 ore
. orario legale e orario contrattuale
Indipendentemente dalla futura legge sulle 35 ore, nel nostro Paese, come negli altri Paesi europei, esiste una duplice definizione dell'orario, legislativa e contrattuale.
Schematicamente:
- orario legale: la legge stabilisce la durata massima della prestazione lavorativa. Questa durata massima può avere diversi gradi/livelli di specificazione relativi all'ambito temporale (giornaliero, settimanale, annuo) e relativi al rapporto tra "orario normale" e ore straordinarie.
- Orario contrattuale: gli accordi contrattuali, frutto della negoziazione tra le parti a livello di categoria e/o aziendale, non possono in ogni caso superare i limiti di durata stabiliti dalla legge, ma possono introdurre ulteriori riduzioni, secondo modalità stabilite dalla negoziazione.
. il ritardo della legislazione italiana e l'"avviso comune" del novembre 1997
In Italia, l'adeguamento legislativo ha seguito con enorme ritardo l'evoluzione contrattuale. A 18 anni dai primi accordi contrattuali sulle 40 ore, e a 15 anni dalla loro attuazione piena, la norma legislativa sulla durata dell'orario è ancora la legge del 1923 relativa al "recepimento legislativo" delle 48 ore.
E ciò malgrado il fatto che nel '93 fosse stata emanata una direttiva europea sulla definizione per legge di un orario non superiore alle 40 ore settimanali.
Non è un caso che l'accordo ("avviso comune") tra CGIL-CISL-UIL e Confindustria, che doveva essere la base per la traduzione legislativa della direttiva europea sulle 40 ore, sia del 12 novembre 1997, cioè sia stato siglato dopo che l'accordo tra governo e Rifondazione Comunista aveva posto all'ordine del giorno la legge sulla riduzione dell'orario a 35 ore settimanali.
Ci si trova così di fronte a una situazione per certi versi paradossale: da un lato, si prospetta una legge che, anziché limitarsi a "recepire" e generalizzare le riduzioni contrattuali dell'orario, vuole "anticiparle" e stimolarle; dall'altro, la situazione legislativa esistente non ha, a tutt'oggi, ancora recepito le conquiste contrattuali di quasi 20 anni fa.
. le vicissitudini dell'"avviso comune" e le sue linee direttrici
Anche per questo "intreccio paradossale", si è arrivati alla decisione che l'"avviso comune" non sia tradotto immediatamente in una proposta di legge, e ce le norme di realizzazione della direttiva europea vengano emanate contestualmente alla nuova legge sulle 35 ore per la quale il governo si è impegnato.
Non è quindi il caso di analizzare dettagliatamente l'avviso comune in tutti i suoi aspetti. Tuttavia, esso è certamente indicativo di un orientamento - concordato tra confederazioni e padronato - che peserà anche di fronte alla nuova legge. È quindi utile un cenno sintetico alla sua impostazione.
Da un lato, l'avviso comune contiene una serie di elementi - propri di ogni corretta legislazione in materia - che estendono alcuni "diritti elementari" relativi all'orario a tutti i lavoratori, anche quelli non direttamente tutelati da un contratto o il cui contratto non prevede certe norme: diritto ad almeno una pausa di 10 minuti dopo 6 ore di lavoro, diritto a 4 settimane di ferie retribuite non monetizzabili (cioè non sostituibili da un compenso monetario aggiuntivo), inoltre, alcune norme di esenzione dal lavoro notturno (anche se qui la situazione è più problematica, dal momento che in Italia esisteva una normativa più avanzata, dichiarata però illegittima dall'Unione europea).
Fin qui siamo nell'ambito normale di una tutela legislativa . Ma, accanto a questo, vi è una serie di norme dell'accordo che, se tradotte in legge, farebbero della flessibilità il principio dominatore incontrastato della regolazione degli orari: si tende cioè a ragionare in termini di "orario medio", sull'anno o su sottoperiodi di esso, eliminando ogni tetto rigido dell'orario settimanale e - quel che è più grave - allo stesso orario giornaliero (salvo quello derivante dalla necessità di avere comunque un certo numero di ore di riposo): al limite, sarebbe possibile che un orario di 39 ore venga effettuato su 3 giornate di 13 ore ciascuna!
Al di là dei contenuti specifici della varie norme, emerge una volontà di precostituire un terreno di flessibilità che condizioni la stessa applicazione della futura legge sulle 35 ore. La flessibilità, anziché essere un'"eccezione" da "pagare" con una più consistente riduzione d?orario, diventerebbe così una sorta di "condizione di partenza", nella quale "incanalare" forzosamente le riduzioni d'orario previste dalla legge.
È importante, dunque, tener presente questi aspetti: essi mostrano come la battaglia (legislativa e contrattuale) per le 35 ore non può essere ridotta o semplificata alla pura quantità delle ore, ma deve investire le modalità della loro erogazione