Un week end di musica con riflessione finale

Se permettete parliamo di musica

Un ragionamento in quattro episodi su musica e territorio, tra un capannone in aperta campagna e un'aula magna universitaria
15 ottobre 2007 - Carlo Loiodice

In un solo week end ho assistito, per pura coincidenza, a quattro eventi musicali che più diversi fra loro non avrebbero potuto essere.
Sabato pomeriggio
Mi trovo in una villa nobiliare a Manzano (Ud), noleggiata con soldi pubblici da enti locali di una Regione a statuto speciale per la cerimonia conclusiva di un premio letterario. Introduce il pomeriggio un duo flauto/chitarra con musica classica, in seguito un duo voce/chitarra con canzoni a cavallo della frontiera; e ancora un bravo fisarmonicista sloveno che supporta la recita di poesia. Esecuzioni corrette e applaudite, anche se le motivazioni del pubblico presente erano più concentrate sui contenuti letterari del premio.
Sabato sera.
Tornando in macchina verso l’agriturismo dov’eravamo alloggiati, ci siamo un po’ persi, in una campagna non proprio deserta ma nemmeno popolata come quella intorno alla via Emilia. Non facile quindi ottenere informazioni da un passante che, quando se ne trova uno, non è mai del posto. A un certo punto, là in mezzo a niente, c’è un capannone con della gente. L’informazione giusta ce la danno; ma dall’interno del capannone proviene il suono di una banda di ottoni. Ci si ferma un attimo? Sì, dai!. Ed entriamo. Chi sta a Bologna pensi alla “Banda Roncati”. Ma questi sono più snelli nell’organico e mediamente più versatili nel maneggiare lo strumento. Sei ottoni (dalla tromba al basso tuba), due fisarmoniche e percussioni a spalla. I due cantanti usano il megafono. All’inizio suonano da una posizione che convenzionalmente chiamerò palco. Ma si tratta soltanto del lato corto del rettangolo opposto a quello del bancone da cui vengono serviti birra e qualche piatto semplice a base di wurstel e patate, giusto per farti lo stomaco. Chi sta a Bologna s’immagini i prezzi. Sbagliato per eccesso! i ragazzi della banda, che per età sembrano stare più verso i 20 che verso i 30, si muovono poi suonando e dislocandosi in modo da creare effetti stereo sempre diversi. Si chiamano “Furlàn a manette”, tradotto per noi da uno di loro come “Friulano ad alto volume”. “A manetta!” Rispondiamo noi, dando vita per un paio di secondi ad un’intensa esperienza di glocalismo. Cosa suonano? Beh, è pur sempre una banda di ottoni: quindi marcette, vecchie canzoni, strofe da osteria sul modello paraponzi. Ma con un tiro che, pur alla lontana, richiama Bregovic e Kusturica. E allora ti ricordi che il confine passa non lontano di lì, e che questo confine oggi non è più sprangato. Del resto anche nel pomeriggio avevamo sentito la stessa persona cantare prima in friulano e poi in sloveno, entrambi parimenti incomprensibili per noi…
Domenica mattina.
Cividale. In piazza la targa ufficiale ci ricorda che i trattati internazionali postrisorgimentali fissarono lì i confini della patria. A un tiro di schioppo c’è oggi la Slovenia. A Cividale c’è un famoso duomo romanico e si va a visitarlo. All’uscita sentiamo un applauso, come se fuori ci fosse la sposa. Aspettandoci qualche tiro di riso, troviamo invece sul sagrato un coro austriaco che esegue canti religiosi in tedesco, per noi terza lingua incomprensibile in pochi chilometri e nemmeno ventiquattro ore… Ma i pezzi sono belli, i coristi bravi e il luogo sembra proprio quello giusto. Applausi sinceri, convinti ed emotivamente carichi, come quelli che avevamo fatto anche noi assieme agli altri la sera prima ai friulani a manetta. Il che suggerisce un’ipotesi, tutta da verificare ma da non scartare, che non è la birra a produrre emotività, ma quest’ultima a richiamare la prima, se c’è, e a manifestarsi ugualmente anche se non ce n’è lì pronta.
Domenica sera
Bologna. Ho l’invito per andare a sentire Stefano Bollani all’aula magna di S. Lucia. Si tratta di un evento organizzato dalla Provincia di Bologna nell’ambito di una rassegna sui “superluoghi”. Ovviamente qui da noi le cose le si fa in grande, in modo che tutto il mondo deve sapere cosa si fa a Bologna, amareggiandosi perché in altri “normal-luoghi” non accade mai niente, come abbiamo appena visto. E allora, a costo di essere impopolari e contemporaneamente di adirare qualcuno in alto loco, perché non provare a guardarci dentro in questo concerto di Bollani?
1. Chi s’intende di musica sa di cosa parla quando pronuncia la parola acustica. E tutti sappiamo che l’acustica della ex chiesa di S. Lucia è pessima. La soluzione, limitata e insufficiente, viene sempre ricercata negli impianti di amplificazione, i quali certamente raggiungono di potenza o di prepotenza anche le orecchie di chi è seduto in fondo, ma a costo di aumentare anche la riverberazione. Trattandosi di una mega aula riservata ad eventi a forte contenutoaudio, stupirebbe chiunque il vedere che da anni non è mai stato approntato un intervento per il trattamento acustico dell’ambiente. Chiunque tranne i responsabili dell’Alma Mater e gli organizzatori bolognesi di concerti.
2. Bollani suona il pianoforte, strumento che nei teatri deputati non ha mai avuto bisogno di sostegno microfonico, nella forma di piano a coda. Intenditori e semplici amatori restano puntualmente affascinati, quando a suonare è uno bravo, dalla varietà timbrica, armonica e dinamica di un piano a coda. Ma mentre questo può funzionare al teatro comunale o all’auditorium grande del Palazzo dei congressi, a S. Lucia, come in ogni chiesa, non funziona. Si chiamano onde stazionarie quelle che hanno l’effetto di aggrovigliare tutti i suoni riverberati in un magma indistinguibile e irritante, diminuendo la funzionalità percettiva dell’orecchio. E allora, per far sì che un pianista suoni il suo piano a coda in S. Lucia, si usa un impianto di amplificazione. E addio a tutte le dinamiche di cui quello strumento è capace.
3. Non so cosa gli organizzatori abbiano detto o chiesto a Bollani. Sta di fatto che il suo programma, buono per un club con servizio al tavolo, è del tutto privo di agganci contestuali con il tema della rassegna. Anzi, a causa delle osservazioni acustiche appena fatte, direi che sia antitetico. Più adeguata sarebbe stata la performance al tema dei “non luoghi”, visto che un non concerto si svolgeva in un non teatro con uno strumento il cui suono si percepiva in modo non diretto.
Alla fine di un week end musicalmente bello e ricco per me – perché poi Bollani suona bene e persino spreca e svilisce il suo talento – una cosa devo sottolineare: ed è che l’unico fatto musicale organizzato per comunicare qualcosa sul territorio è stato quello più extraterritoriale, mentre gli altri tre, ciascuno a modo suo, si nutrivano della loro territorialità, vitalizzando e valorizzando un luogo del quale non teorizzavano ma che in qualche modo connotavano