Un’inchiesta sul problema abitativo per gli immigrati nella nostra città

Con la valigia accanto al letto


18 gennaio 2002 - Elisa Coco

“Con la valigia accanto al letto. Immigrati e casa a Bologna”: questo il titolo di un libro, curato da Maria Adriana Bernardotti, che riporta i risultati di un lavoro di ricerca sul campo, svolto a più mani in un’ottica sia macro che micro e mirato ad approfondire la condizione degli immigrati nella nostra città attraverso la chiave di lettura della integrazione abitativa. La questione della casa è una delle dimensioni più illuminanti nell’analisi delle scelte politiche delle amministrazioni bolognesi negli ultimi anni in materia di immigrazione, poichè rappresenta uno dei punti di maggiore problematicità e contraddizione nel rapporto tra la società bolognese e gli individui migranti. Da un lato, infatti, si registrano condizioni positive di inserimento lavorativo e di stabilità occupazionale, che potrebbero favorire un percorso di integrazione dei soggetti immigrati nel tessuto sociale della città, ma, dall’altro lato, si verifica la presenza diffusa di un profondo disagio abitativo, quando non una vera e propria esclusione. I dati ci riportano, accanto a una maggioranza relativa di popolazione immigrata caratterizzata da una sistemazione alloggiativa autonoma o propriamente abitativa, una condizione alloggiativa precaria per circa un terzo degli immigrati presenti a Bologna, che si trovano nell’impossibilità di una gestione autoregolata dello spazio e della vita domestica; un decimo degli immigrati versa infine in condizioni di grave disagio. Ancora più allarmante il fatto che la precarietà non risparmi neanche coloro che hanno già una lunga storia di insediamento nel territorio. La situazione della casa a Bologna, letta anche in relazione ai dati nazionali, si presenta particolarmente critica, anche alla luce del fatto che per molti la scelta migratoria non ha rappresentato un miglioramento, bensì un deterioramento della qualità della vita domestica rispetto alla condizione di partenza Molteplici le cause di questo stato di cose, prime fra tutte le disfunzioni del welfare locale, viziato da una permanente visione emergenziale e di controllo sociale, e le distorsioni e rigidità del mercato abitativo bolognese. Gravi e pervasive le conseguenze, sintetizzabili nel concetto di precarietà, condizione materiale, psicologica, sociale, che coinvolge l’individuo migrante nei suoi persorsi esistenziali e familiari, ma riguarda in generale la società di accoglienza. Il libro ci offre nella prima parte un profilo storico e politico della questione della casa per gli immigrati a Bologna e un inquadramento generale della situazione attuale, mentre, nella seconda parte, focalizza lo sguardo su una serie di realtà particolari legate a specifici gruppi nazionali, dai marocchini alle filippine, dai senegalesi agli albanesi.
Abbiamo incontrato e intervistato Maria Adriana Bernardotti, curatrice del volume, che da anni lavora su questi temi nell’ambito delle attività dell’Osservatorio Comunale delle Immigrazioni, divenuto nel 2001 Osservatorio provinciale.
Innanzitutto, come nasce questo libro?
«Questo libro è il prodotto di un lavoro collettivo dell’Osservatorio Comunale delle Immigrazioni all’interno dell’Istituzione dei Servizi per l’Immigrazione. Io sono la curatrice e ho coordinato la ricerca, in quanto responsabile dell’Osservatorio, ma il lavoro è stato svolto sia dagli operatori stranieri, i mediatori interculturali che lavoravano all’Isi, sia da giovani ricercatori in contatto con l’Osservatorio. La ricerca era finalizzata a individuare e confrontare le strategie di integrazione abitativa di diversi gruppi di appartenenza nazionale. Un’esperienza interessante è stata quella dei focus groups: ci sono modalità culturalmente diverse di rispondere a un questionario, infatti sono subito emerse delle contraddizioni, così abbiamo pensato di fare degli incontri con le diverse comunità per discutere i primi risultati e ottenere una lettura critica dei dati».
Che cosa si intende con il concetto di integrazione abitativa, su cui è incentrato l’intero lavoro?
«È in un certo senso una finzione metodologica. Ci siamo chiesti come misurare l’integrazione abitativa a partire dal passaggio dalle tipologie considerate emergenziali verso le forme abitative normali, standard della popolazione italiana. Da un lato si è visto quanto sia lungo il percorso di integrazione abitativa, dall’altro ci si è resi conto che non si tratta assolutamente di un processo lineare: ci sono moltissimi intoppi, che riguardano a volte anche il problema delle politiche abitative, improntate, nella forma dei centri di accoglienza, a una sorta di paradossale welfare di serie B. Abbiamo scelto il titolo “Con la valigia accanto al letto” per sottolineare il tema della permanente precarietà. La casa è far radici, è la costruzione di una propria identità in un luogo. Qualsiasi soggetto umano può tollerare la fase transitoria, la prima fase di accoglienza per un determinato periodo, ma quando questa fase si protrae a causa del problema abitativo ciò determina conseguenze su tutto il panorama di vita dell’immigrato, sia per quanto riguarda la salute mentale – per esempio si segnalano problemi di alcolismo all’interno dei centri – sia per quanto riguarda la famiglia. Anche nelle ricerche sul rischio di povertà e di esclusione sociale nella popolazione autoctona la casa appare come uno dei fattori fondamentali e genera un effetto moltiplicatore, determinando conseguenze deleterie su tutti gli ambiti della vita».
La politica italiana in campo abitativo è sempre stata impostata sull’idea di un welfare abitativo identificato nella promozione della proprietà. Questo orientamento ha provocato conseguenze negative sul mercato degli affitti. In particolare a Bologna, in relazione anche alla presenza degli studenti univeritari, sono praticamente indisponibili abitazioni in affitto a canoni medi. Che conseguenze ha determinato questo stato di cose?
«Su tutto questo si innesta una politica dell’emergenza: dal momento che è così complesso e difficile toccare il tema abitativo vero, quello strutturale, si crea un canale speciale per gli immigrati, quello che nel libro chiamiamo un welfare di seconda classe o di serie B. Ci sono alcuni gruppi di immigrati che riescono a far sentire il loro bisogno come un bisogno politico, per esempio attraverso le occupazioni, e costoro entrano in quel canale speciale di cui parlavamo, rimanendo per anni annodati nel meccanismo dei centri, con tutte le conseguenze che questo comporta soprattutto a livello di precarizzazione».
Spesso rimanere nei centri di prima accoglienza è, in assenza di alternative, una scelta deliberata.
«È proprio questo il problema. Infatti uno degli aspetti dell’integrazione abitativa è la disponibilità a spendere per la casa. Il progetto migratorio è sempre un contratto che si rinnova con la società di accoglienza e spesso la casa è uno degli elementi che portano a modificare il proprio progetto e a protrarre lo stato di incertezza. Le difficoltà e i disagi a livello abitativo hanno profonde ripercussioni a livello psicologico, per questo abbiamo usato l’immagine della valigia accanto al letto; ci si autopercepisce in una condizione di marginalità, non si è mai pieni cittadini e questo rende anche più facile delinquere».
Come si colloca la questione della integrazione abitativa rispetto al quadro disegnato dal ddl Bossi-Fini, cioè rispetto a un’impostazione che considera l’individuo migrante solo come prestatore di forza lavoro?
«La legge propone un modello che, basandosi sul presupposto del contratto di soggiorno legato al contratto di lavoro, chiaramente non tiene in considerazione l’esigenza dell’integrazione. Il problema è che l’immigrazione viene giocata come merce di scambio: poichè l’immigrato non vota e non ha pressione reale nell’arena politica, quindi è un soggetto debole, il tema dell’immigrazione è terreno di gioco all’interno delle forze politiche. Per gli immigrati questi sono tempi duri, e non solo per le prospettive aperte dalla legge: dopo l’11 settembre ci sono segnali che indicano che la vita dell’immigrato, soprattutto quello di religione musulmana, si fa sempre più difficile, e il problema più grande riguarda le seconde generazioni».
La ricerca è stata svolta nell’ambito dell’Istituzione dei Servizi per l’Immigrazione, attiva a Bologna tra il 96 e il 99. può farci un bilancio di quella esperienza?
«Tutti quelli che vi hanno partecipato la ricordano come un’esperienza altamente creativa, che ha convogliato molta energia e creato una convivenza paritaria tra professionisti provenienti da diverse culture. In questo senso mi piace utilizzare la parola laboratorio. Questa situazione ha fatto sì che fosse anche un’esperienza caotica sotto molti punti di vista. L’aspetto principale di cui si occupava era proprio la casa, in particolare la gestione dei centri di accoglienza. L’Isi, però, è nata con diversi vizi di fondo, tra cui in particolare la relazione con l’Assessorato alle Politiche Sociali: un’istituzione che si doveva dedicare a cambiare la cultura di tutti i servizi, che doveva essere un ente di promozione della trasformazione della città è stata invece appiattita sul sociale, in tempi storici dove i finanziamenti al sociale sono sempre più ridotti. L’immigrazione viene sempre marginalizzata come problema sociale, è un problema ricorrente che va al di là dell’Isi: se si organizza un’iniziativa culturale sull’immigrazione il patrocinio viene dato dall’Assessorato alle Politiche Sociali e non da quello alla ultura, chi si occupa della casa degli immigrati sono i servizi sociali e non l’edilizia, e via dicendo. Tornando all’Istituzione, vorrei sottolineare che tuttora è congelata, la giunta non ha ancora preso una decisione in merito, forse potrebbe essere riattivata. In realtà la soluzione non passa per il modello, per il contenitore, il problema riguarda quali risorse vengono date, quale possilbilità reale di agire, quale contenuto».