Da Bologna a Lecce nella notte di capodanno


21 dicembre 2001 - Cesare Cappello

La vecchia Fiesta viaggiava a bassa velocità sulla corsia di destra dell’autostrada adriatica. Il grande cartello comparve immediatamente dopo la curva, le lettere luminose annunciavano una temperatura di un grado ed una buona viabilità. Sul sedile posteriore dell’utilitaria, la ragazza magra dai capelli neri trattenne a stento un’imprecazione: «Fabrizio, sarebbe il caso di muoverci, aumenta la velocità di questo rottame». L’uomo al volante, avvolto in un cappotto scuro, da cui spuntava il cappuccio di una felpa bordò, non rispose. Accanto a lui, un tipo alto, baffetti alla francese, completo impeccabile, sfogliava lento Il manifesto, l’intestazione in alto a destra della pagina recitava: Domenica 31 dicembre 2000. Il guidatore piantò gli occhi nello specchietto retrovisore e cercò di intercettare lo sguardo della ragazza: «Viaggiare verso il Salento significa guadagnare un tempo lento e questo è il passo giusto. Giulia, tu non hai ancora capito». Una risata collettiva esplose nell’abitacolo.
«Adesso non attaccare con le menate meridiane, per carità. Io sto già pensando al vino di una putea e ad un buon capodanno. È chiaro? E se continuiamo con questa andatura, a Lecce arriviamo tra tre giorni».
«Dagli con la velocità. Ma lo vuoi capire che quello che conta non è la meta, ma l’attraversamento? Questo è il sud, ha ragione Fabrizio». La frase, pronunciata con ironia, proveniva da dietro il giornale.
«Guglielmo, passami il caffè ed il ginseng, che mentre guido penso più in fretta e quasi non sto dietro a quello che penso». L’uomo con i baffi chiuse il giornale, aprì il cruscotto ed estrasse un termos ed una scatola.
«Fate come volete, ma non coprite nevrosi e paranoie con la storia della lentezza, perché così non va bene. E poi il Salento neanche lo conoscete». Giulia sbuffò, mise un finto broncio e guardò fuori dalla macchina. C’era stata diverse volte in quella penisola che si protende verso i Balcani, «terra di sud, terra di confine, terra di dove finisce la terra» dice Capossella, terra di tamburi e pizzicate, come nel cinema di Winspeare. C’era stata tante volte e sempre d’estate, ma di lento, nell’agosto salentino, c’era ben poco: si correva da una parte all’altra, locali, dance hall al chiaro di luna, feste in belle masserie, questo lo sapevano bene anche Fabrizio e Guglielmo, che di salentini a Bologna ne conoscevano tanti, eppure molta gente credeva ancora alla balla di una terra che chissà per quale motivo doveva essere diversa dalle altre regioni di Italia. Non si lavorava nel Salento? Non si andava in macchina nel Salento? Antonio Verri, il poeta di Lecce, non c’era rimasto in un incidente automobilistico? Un aperitivo al Blu Bar di Otranto, un concerto reggae vicino Gallipoli, una sagra sulla costa opposta, poi i cornetti all’alba. Dove stava la lentezza? Le venne in mente un brano che aveva letto da qualche parte.
«Ehi Fabrizio, guarda che anche Tondelli parla di continue corse in macchina tra Lecce e la provincia». La risposta fu brutale, in tipico stile emiliano: «Primo: mi sono rotto le palle di Tondelli e di quella letteratura, secondo: non me ne frega un cazzo delle notti salentine di Tondelli, terzo: stiamo in macchina e secondo me porta pure sfiga. Sono partito da Bologna per farmi il capodanno quasi nel far-west e tu mi parli dello scrittore più bolognese che sia mai esistito?».
Questa volta Giulia si incazzò davvero. Troppe persone che stavano a Bologna se ne andavano nel Salento cercando qualcosa e non facevano altro che rendere una terra lontana, ma da sempre vicina all’Emilia, la versione agostana di una certa bohème invernale ed universitaria, con la sola differenza dei quaranta gradi e del mare incantevole. Poi pensò che non era proprio il caso dei suoi compagni di viaggio e decise di lasciar perdere.
Chi torna a casa prova una certa emozione nel vedere il cartello che annuncia l’arrivo nella regione natale. I salentini fanno eccezione. La Puglia del Salento non dice proprio niente, se non che ci vogliono ancora tre ore e i campi bassi della provincia di Foggia non c’entrano niente con la vegetazione del Salento. Guglielmo aspirò la sigaretta e guardò il cartello: Lecce 150 Km. Si erano dati il cambio all’ultima stazione di servizio prima della fine dell’autostrada e ora, sulla tangenziale di Bari, a sole tre ore dall’anno nuovo, guidava lui, mentre Fabrizio dormiva sul sedile accanto. L’uomo con i baffi aveva sempre amato il Centro America, conosceva molto bene Cuba, gli venne in mente il Messico, un lungo e laborioso viaggio fino alla capitale, il sole dei Caraibi e la pioggia cattiva che avevano preso, lui e i suoi compagni, in un posto dove non pioveva mai. Che c’era venuto a fare nella regione più caraibica d’Italia, in pieno inverno? Grosse gocce d’acqua, tirate dallo scirocco, cominciarono a picchiare insistentemente sul parabrezza.
«Dove siamo?». Fabrizio si era svegliato bruscamente.
«Siamo quasi arrivati» rispose Giulia «dopo solo undici ore di viaggio».
Guglielmo guardò l’orologio, le lancette indicavano tre minuti dopo la mezzanotte. I tre scoppiarono a ridere. L’insegna del Bar Commercio, il primo posto per il viandante che entra a Lecce, era accesa quando Giulia, Fabrizio e Guglielmo scesero dalla macchina. Improvvisamente una Bmw di grossa cilindrata si fermò sgommando e ne uscirono due uomini che ridevano forte e parlavano a voce alta.
«Stanotte da Igor c’è un tavolo serio, giocano alto, ci facciamo due belle vodke, poi andiamo ad imbucarci».
«Certo, un posto più trendy di casa di Igor a Lecce proprio non c’è».
All’alba del primo gennaio 2001, una Ford Fiesta era parcheggiata sulla scogliera di Torre S. Andrea. Sul cofano della macchina due uomini e una donna fissavano le montagne albanesi, come si vedono solo in certe giornate salentine, sulla costa adriatica. Poco più in là, nello spazio del Babilonia, sempre pieno di gente nelle notti d’estate, un vecchio stava preparando una canna da pesca. Guglielmo accese la radio: ottoni d’oltre adriatico suonavano una marcia. Giulia scese al mare, si sciacquò il viso. Nel guardare un’alba mai vista prima, non potè fare a meno di sorridere.