Il Salento è la vera bazza


21 dicembre 2001 - Cesare Cappello

Il fatto che il Salento sia soltanto sole, caldo, pizzica e vacanze estive è teorema strampalato e indecente che andrebbe confutato attraverrrso una miriade di argomentazioni concrete. Chi l’ha detto che un bolognese debba “scendere” a sud soltanto in agosto? Quale pazzo o sprovveduto sarebbe pronto a giurare che valga la pena di vivere quella piccola penisola di sud-est per un unico mese all’anno?
E già, l’inverno é altra cosa, il capodanno è una cosa seria, una cosa che vale il milonenovecentonovantanovemilalire per Londra, Praga o Parigi, o il milionequattrocentonovantanovemilalire per Montecarlo (tanto poi il resto lo si lascia al casinò).
E no, così non va bene. La redazione di questo giornale ha scelto, un po’ per principio, un po’ per frustrazione, di dedicare due pagine ad una proposta da agenzia di viaggi (o se preferite, ad una proposta contro le agenzie di viaggi), senza tornaconto e senza una precisa ragione: un capodanno di sinistra, un capodanno nel Salento. Non a Lecce, ma più in là, più in periferia, nelle provincia di una provincia d’Europa. Lecce città, Lecce Lecce, per dirla come si usa, ha il difetto di voler somigliare a Bologna, a Firenze, ma anche a Roma e Milano. Ha il narcisismo della provincia senza rinunciare al pretenzioso avanguardismo delle mode metropolitane, che là giù si fa goffo, adirittura un po’ patetico. Invece andando oltre, superando la città nella notte di San Silvestro, possono accadere delle cose straordinarie delle quali vorremmo darvi null’altro che un piccolo accenno. Se per esempio al quarantottesimo chilometro della Lecce-Leuca vi capitasse di svoltare a sinistra, dopo una decina di minuti potreste inbattervi, sin dalla prima serata, in una festa all’aperto nella piazza di Tricase. Le mura cinquecentesche e i corpi frenetici dei vecchi del paese, rispettivamente trattengono e moltiplicano il calore di un grande falò al centro dello zoccolo. Le donne sfilano in corteo per una strada in discesa che scivola verso il mare. Si dirigono alla secolare quercia Vallonea, alcune ne abbracceranno il tronco per misurarne la crescita, le più anziane diranno che c’è un quarto di mignolo in più dall’anno prima, e che altre storie dei nuovi nati e dei morti sono iscritte nei cerchi del fusto. Al ritorno, troveranno a danzare bambini di nove anni e ragazzine di quindici, senza che intorno vi siano, a battergli le mani, uno svizzero con il naso incremato ed una milanese con la gonna larga accuistata per l’occasione che saltellano in modo scomposto. Voi, se vi riesce, non seguite le donne, lasciatele sul fianco sinistro e, con alle spalle le danze, prendete la stradina di destra, quella con un vecchio cartello che indica Marina Serra. Ci sarete in pochi minuti e risalendo per un paio di chilometri la litoranea verso Leuca potrete sporgervi da un belvedere. Verso Nord la costa si snoda a serpentina fino a Castro, la marina della grotta Zinzulusa. Anche là c’è una festa, è un cenone di speleologi che passeranno la notte ad osservare la roccia, a contare le gocce che scivolano giù dalle stalattiti, per studiarne la tenuta e confrontarla con quella degli anni passati, ma è roba per addetti ai lavori, è umido e fa un po’ troppo freddo. Guardando in basso invece, verso la Serra, c’è una torre imponente, quasi poggiata sul mare e con le luci alle finestre. Maria è la migliore cuoca del basso Adriatico, sta cucinando le “pittule” e la porta è sempre aperta. Suo marito è un medico. Di lui si dice che curi i clandestini che si feriscono sugli scogli durante gli sbarchi, e quando guariscono si fa ripagare con una partita a carte. Conosce i giochi di molti mondi, perché se li è fatti insegnare dai pazienti che vengono da più lontano.Se scegliete di proseguire verso Sud per la strada che costeggia il mare a un certo punto trovate un ponte sull’acqua: lo chiamano il Ciolo. Qualcuno racconta di aver visto da lì, nel capodanno del 2000, l’alba più bella della propria vita. Quell’anno in Salento, si era diffusa l’idea malsana e triviale di andar tutti a Otranto, la punta più ad Est d’Italia, per vedere per primi il nuovo sole del millennio. Così accadde che, sui bastioni, c’era talmente tanta gente da dover fare la fila per guardare l’orizzonte, come una coda di migranti alla frontiera che aspettano venga eseguito il decreto d’espulsione. Il caso, o chi per lui, volle che quella mattina piovesse lungo tutta la costa adriatica, e che il sole non apparisse prima delle tre e un quarto del pomeriggio. Al Ciolo invece chi c’era é pronto a giurare che il cielo era limpido come mai, che oltre ai monti dell’Albania si distingueva perfettamente l’isola di Fanò Alcuni sostengono addirittura di aver visto tonni giganti che si inseguivano come impazziti sul cono dorato che il primo sole lasciava sull’acqua ma non erano del posto e solo in pochi gli hanno dato credito. Poco più avanti il faro, Leuca “la bianca”, i mille capodanni dei trulli a pietra viva che si inerpicano sulla scarpata. Di quel che é accaduto in quelle case durante le notti di San Silvestro gli uomini hanno dimenticato tutto a causa del vino e le donne non sono disposte a parlare. Se le fermi per chiederne conto arrossiscono e tirano avanti seguitando a raccogliere fiori di finocchio selvatico. Però, per quest’anno, “Pistolero”, uno di quei pescatori che piangevano dall’emozione durante la storica nevicata dell’’85, sostiene che a capodanno nevicherà ancora. A riprova della previsione giura d’aver visto uno strano giro d’aguglie al largo della Ristola, la punta che si frammenta nei piccoli scogli affioranti che la leggenda vuole fossero i pezzi dei figli di Medea sparsi dalla madre nelle acque di Leuca in quel punto preciso.
Sui capodanni leucani anche i miei ricordi sono piuttosto sfumati. Uno, più chiaro di altri, racconta di una traversata sino a Gallipoli a bordo di un piccolo catch a vela, con Piero Fumarola e George Lapassade, il primo mezzo tarantino e mezzo salentino, il secondo almeno per metà francese. Piero si era messo in testa che bisognava fare il pranzo del I° a Gallipoli da “Scapricciatiello” dove si mangiava da dio. Mi ricordai che poco tempo prima Massimo D’Alema aveva detto che quello dei “Mani muzzi” (pescatori di frodo padre e figlio che si erano fatti saltare entrambe la mano destra a suon di bombe) era “il miglior fritto dello Ionio”. Ci avevo creduto perché i vecchi compagni del PCI di Martignano, - per capirci quelli della cartolina - sostenevano che D’Alema fosse un compagno sincero e siccome i compagni di quella sezione “hanno sempre ragione” e D’Alema aveva detto un sacco di cazzate gigantesche sulla guerra del Kossovo pensai che, statisticamente, doveva aver ragione sulla storia del fritto. Mi imbarcai quasi da sobrio, al contrario del resto dell’equipaggio, e a stordirmi ci pensò quel mare d’inverno, la tramontana dritta e la vibrazione delle vele durante le virate, insieme all’inarrestabile logorrea di quei due matti, sovreccitati come bambini. La notte del 31 può ancora capitare di incontrarli sul molo, a bere rum e fumare marijuana, mentre tentano di convincere due ragazzotti con la cinepresa ad imbarcarsi con loro per qualche pizzo di mondo in cui riprendere momenti di trance collettiva o improbabili stati di coscienza alterata.
Ci sono mille altre cose dei capodanni nel basso Salento che andrebbero raccontate. Alcune sono vere da principio a fine, altre forse sono solo possibili, altre ancora semplicemente desiderabili. Se esiste una differenza tra il possibile e il desiderabile come misurarla se non percorrendone la distanza..?