Verso Porto Alegre

Bilancio partecipativo e democrazia nelle città
21 dicembre 2001 - Simona Urso

«Pensare significa oltrepassare», scriveva Ernst Bloch, non a caso un riferimento fondamentale per la costruzione di varie esperienze di rinnovamento della politica municipale nel recente panorama latinoamerica. Prima di tutte, quella ormai diventata mito (ma va bene, i miti ci servono), di Porto Alegre, e della sua esperienza di Bilancio Partecipativo (BP). Il bp è una forma trasparente di potere. Ascoltare il cittadino, e fare della spesa pubblica uno strumento della maggioranza della popolazione è la sfida che l’amministrazione comunale di Porto Alegre ha intrapreso dal 1989. E’ una forma pubblica di gestione del potere, con cui i cittadini decidono come sarà utilizzato il bilancio pubblico. E’ un modo di controllare da dove viene il denaro e dove va, una maniera con cui tutti partecipano a decidere come le risorse saranno spese.
E forse non sarebbe male provarci noi, ad ‘oltrepassare’. Il gruppo di lavoro sulla cittadinanza di ATTAC ci ha provato, martedì 11 dicembre, mettendo a confronto Franco di Giangirolamo, della CGIL, Paolo Tamburini, responsabile regionale dell’Associazione agenda 21, e Raffaele Laudani, di ATTAC stesso.
Il nostro piccolo trespassing lo abbiamo tentato sezionando nei dettagli l’esperienza di Porto Alegre per utilizzarne, se non la forma, lo spirito, nell’intento di democratizzare dal basso le nostre realtà urbane. Dati tecnici a parte, che vi risparmio, il senso politico della serata è stato tutto nella convinzione, forse ovvia, ma bella da condividere, che la capacità di incidere, come universo sociale, sulla possibilità pratica decisionale, non può essere legata ad un modello, ma che da quel modello può ricevere alcune importanti lezioni: dietro l’esperienza brasiliana, tanto per cominciare, c’è un percorso di almeno un decennio di lotte sociali che sono riuscite a diventare politiche cominciando a darsi e dare delle regole; dietro Porto Alegre c’è quindi il conflitto, un duro conflitto, che proprio grazie alla sua natura conflittuale ha saputo diventare modello.
Ma soprattutto, quell’esperienza ha insegnato faticosamente, e sempre grazie al conflitto, che di fronte all’universalità dei diritti non ci sono lobbysmi che tengano: sì, perché i criteri con cui vengono stabilite le priorità di spesa, nelle fasi intermedie del processo decisionale, sono legate soprattutto al riconoscimento che non conta la volontà della maggioranza, ma conta solo ciò che viene ritenuto veramente urgente, e come tale deve essere sentito da tutti: urgente per 100 persone significa urgente per la comunità tutta.
Ciò significa banalmente che in un orizzonte culturale in cui il singolo individuo riconosce come proprio anche il bisogno dell’altro individuo non si creano gruppi di pressione, ma si difendono bisogni condivisi. Se io accetto di comprendere che ci sono bisogni più pressanti del mio, purché mi venga mostrato tramite la totalità dei dati a mia disposizione (altro messaggio che la città brasiliana ci invia: la totale, controllata dal basso e pienamente realizzata trasparenza dell’apparato amministrativo), solo allora io potrò considerare mia una decisione non partita da me. Solo in quel caso io, girando per la città, posso dire mia un’opera pubblica che forse inizialmente non avevo proposto, ma di cui ho capito la necessità.
E solo in questo contesto l’idea di cosa pubblica viene salvata. Solo in una realtà così autoeducatasi in modo popolare all’azione si può realizzare un’esperienza come Porto Alegre, constringendo (anche questo frutto di battaglie) la pubblica amministrazione prima di tutto alla trasparenza, intendendo la politica come una lotta per le cose di tutti i giorni.
A questo punto però la risposta la dobbiamo dare noi, aprendo continuamente vertenze forti e conflittuali, in città, soprattutto nei quartieri, soprattutto ora che grazie (!) alla vigente legislazione la riforma dei quartieri è nelle mani dello statuto comunale: ora, allo stato attuale delle cose, i quartieri possono essere azzerati, ma anche valorizzati... basta combattere per farlo. Ma lo stesso conflitto va attivato per le grandi questioni cittadine, inchiesta, intervento, informazione, conflitto agito. Questo ritengo sia il solo modo per candidarsi a guidare dal basso una città riprendendosi ciò che è proprio. Questo credo debbano fare ATTAC, tutto il mondo dell’associazionismo diffuso ma soprattutto il Bologna Social Forum, sempre di più: studiare i problemi, imparare a leggere anche i bilanci comunali, intervenire sui bilanci dei quartieri prima sapendoli leggere, poi aprire vertenze forti, ma soprattutto visibili...
Ci resta però un’altra cosa da fare, e se non lo fa questo movimento, che sta recuperando la memoria storica della sociabilità politica bolognese non vedo chi altri possa farlo: dobbiamo tornare alle radici dello sfascio di questa città, per capire chi ce l’ha svenduta, ricordando che proprio questa città in passato aveva agito una forma di partecipazione pubblica alle scelte di politica locale, del Comune e dei Quartieri, che ora si è persa. Non una storia dei pci pds ds, ma raccontare la storia di un cittadino bolognese che c’era e a cui si è sostituito il consumatore bolognese, cui possono privatizzare anche il marciapiede, perché, lui, tanto... compra. E occorre creare presto, magari subito dopo Porto Alegre, un’occasione pubblica in cui raccontarlo. Ma per fare questo abbiamo bisogno di aiuto. Il gruppo di lavoro cittadinanza di ATTAC lo propone e chiediamo fin d’ora al BSF e a ZIC di sostenere questo viaggio nella macchina nel tempo.