Attualità

Siria / Ore cruciali

Si profilano l’inciminazione all’Aja di Assad e una possibile risoluzione Onu, e mentre l’opposizione interna si mostra debole Turchia e occidente iniziano a pensare all’intervento militare.

11 Luglio 2011 - 13:00

di Michele Paris da Altrenotizie
Il ritorno delle forze di sicurezza siriane nella città di Hama ad inizio settimana ha segnato un nuovo intensificarsi della repressione del regime del presidente Bashar al-Assad nei confronti delle proteste in corso da oltre quattro mesi nel paese. Mentre il governo sta per avviare un improbabile progetto di dialogo con l’opposizione, le pressioni esterne su Damasco continuano a crescere, prefigurando uno scenario incerto e destabilizzante non solo per la Siria ma per tutta la regione mediorientale.
Dopo il duro intervento del regime ad inizio giugno, le forze di sicurezza di Assad avevano abbandonato la città di Hama, permettendo una qualche libertà di espressione del dissenso. Come segnale di apertura, il presidente aveva inoltre rimosso dal suo incarico il governatore di Hama, Ahmad Khalid Abdel Aziz, nominato solo lo scorso mese di febbraio.
Meno di un mese più tardi i carri armati sono però tornati nella quarta più grande città della Siria – dove nello scorso fine settimana erano scese in piazza centinaia di migliaia di persone – operando nuovi arresti a tappeto e uccidendo almeno una ventina di manifestanti. Ad aumentare le tensioni é stato anche l’arrivo ad Hama (giovedì scorso) degli ambaaciatori americano Robert Ford e francese Eric Chevallier, le cui presenze hanno suscitato le proteste del governo siriano.
Questa città della Siria centrale a nord di Damasco ha un’importanza simbolica del tutto particolare sia per il regime che per i suoi oppositori. Nel febbraio del 1982 fu infatti teatro del massacro di decine di migliaia di sostenitori dei Fratelli Musulmani in rivolta da parte dell’allora presidente Hafez al-Assad.
L’allargamento delle proteste nel paese sta così moltiplicando le voci di quanti nella comunità internazionale auspicano la fine del regime di Assad. I segnali che preannunciano un’azione diretta – se non addirittura un intervento militare sul modello libico – da parte dell’Occidente o di qualche paese vicino sono ormai molteplici nelle ultime settimane. Oltre alle sanzioni economiche contro i massimi esponenti del governo, già applicate da Stati Uniti e Unione Europea, sono sempre più frequenti le minacce verbali più o meno esplicite.
Il Segretario di Stato americano Hillary Clinton, ad esempio, qualche giorno fa in un’intervista alla CNN ha ribadito che il tempo per Assad sta per scadere. Dalla stessa Turchia, la quale aveva costruito rapporti diplomatici ed economici molto stretti con la Siria negli ultimi anni, si parla poi di un possibile intervento militare in territorio siriano, sia pure circoscritto, per creare una zona cuscinetto di confine, in modo da permettere ai profughi di sfuggire alle violenze.
Dell’altro giorno è infine un rapporto di Amnesty International che accusa Assad e il suo entourage di crimini contro l’umanità. Una denuncia che potrebbe aprire la strada ad una incriminazione presso la Corte Penale Internazionale dell’Aia per il presidente siriano e i suoi più stretti collaboratori, sulla scia di quella istruita recentemente contro Gheddafi e da utilizzare come pretesto dalle potenze occidentali per giustificare un eventuale intervento militare.
Il crollo del regime, in ogni caso, oltre che sotto l’azione di forze esterne, potrebbe avvenire per implosione. La prolungata siccità e la crisi alimentare nelle campagne, già tra le cause scatenanti della rivolta, e un’economia sempre più in affanno sono infatti i più immediati motivi di preoccupazione per la sopravvivenza di Assad. Le difficoltà dei mercanti sunniti – uno dei pilastri del regime alauita di Damasco – in seguito alla crisi interna potrebbe in particolare infliggere un colpo fatale alla tenuta e alla legittimità residua del governo.
Allo stato attuale delle cose, appare invece improbabile che un’opposizione debole e divisa possa provocare da sola la caduta del regime, tanto più che l’esercito e le forze di sicurezza appaiono ancora sostanzialmente fedeli alla cerchia di potere di Damasco, nonostante le notizie di massicce diserzioni circolate nei giorni scorsi.
Il raduno concesso eccezionalmente da Assad la settimana scorsa a circa 150 tra intellettuali e dissidenti di varia provenienza ha confermato le divisioni che attraversano la multiforme opposizione siriana. Il gruppo che si è riunito a Damasco ha invocato riforme ed ha lanciato un appello al dialogo, senza chiedere però la fine del regime. Una posizione fortemente criticata dai gruppi che stanno animando le proteste di piazze, i quali hanno infatti disertato l’inconsueta assemblea andata in scena in un hotel della capitale.
Mentre una certa opposizione, nonché verosimilmente una buona parte della popolazione siriana, sembra valutare con qualche interesse le concessioni fatte finora dal governo, come l’aumento degli stipendi dei dipendenti pubblici o la soppressione della legge sullo stato di emergenza, le formazioni più o meno spontanee che continuano a manifestare chiedono con forza la partenza di Assad e una transizione democratica immediata.
In questa incertezza, domenica prossima dovrebbe scattare il “summit per il dialogo” che il presidente promette sarà un’occasione per discutere con l’opposizione delle riforme proposte dal regime. Tra le iniziative di cui si parlerà c’è la legge sui partiti politici, che dovrebbe porre fine allo status privilegiato del partito Ba’ath, ma anche la legge elettorale e possibili elezioni ad agosto, la legge sui media e il cambiamento della Costituzione. Resta da capire quale opposizione parteciperà al dialogo e di chi sarà voce, dal momento che in molti tra i militanti anti-regime hanno già annunciato di non voler discutere con il governo mentre è in corso la repressione nelle città siriane.
Con un’opposizione disunita e senza guida né obiettivi precisi, si aprono allora ampi spazi per le manovre dei paesi occidentali. L’obiettivo principale di Stati Uniti e Israele è innanzitutto quello di sganciare la Siria dall’alleanza con l’Iran e, di conseguenza, di spezzare il cordone che unisce questi due paesi ad Hamas a Gaza ed Hezbollah in Libano. Dopo il deterioramento già avvenuto delle relazioni tra Turchia e Siria, questo sviluppo contribuirebbe a rompere il fronte anti-americano e anti-israeliano in Medio Oriente. Allo stesso scopo lavorano anche i sauditi, il cui silenzioso intervento in Siria sta inoltre fomentando conflitti settari in uno dei paesi più secolari del mondo arabo.
I timori di una destabilizzazione incontrollata della Siria e dell’intera regione sembrano scemare a poco a poco di fronte alla possibilità di assistere alla prossima fine di Assad. Che nel mirino dell’Occidente ci sia poi, oltre al regime di Damasco, anche l’Iran appare chiaro. A confermarlo ci sono tra l’altro le nuove sanzioni decise settimana scorsa dall’amministrazione Obama contro la Repubblica Islamica, accusata pur senza prove sostanziali di aver fornito appoggio alla repressione condotta dal maggiore alleato di Teheran in Medio Oriente.
Da parte loro, Francia e Gran Bretagna stanno cercando di far votare al Consiglio di Sicurezza dell’ONU una risoluzione contro il governo siriano. A questa iniziativa si oppongono tuttavia Cina e, soprattutto, Russia, la quale conserva in Siria la sua unica base navale nel Mediterraneo. Già critica nei confronti della NATO per le operazioni in Libia, Mosca comprende perfettamente che la rimozione di Assad per mezzo di un intervento occidentale rappresenterebbe un colpo mortale per i propri interessi in Medio Oriente.
La prospettiva di un’azione occidentale simile a quella in corso in Libia implicherebbe anche un probabile coinvolgimento dell’Iran, preoccupato per l’isolamento a cui andrebbe incontro con la caduta del regime alauita di Damasco. L’aggravarsi della situazione in un paese strategicamente fondamentale per gli equilibri mediorientali come la Siria minaccia insomma di innescare pericolosi conflitti che andrebbero ben al di là dei suoi confini.