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Opinioni / Le sfide oltre il #14N

Dall’imminente mobilitazione contro il jobs act, agli appunti transnazionali, alla necessità di costruire dal basso un reale sciopero generale. Raccogliamo quattro contribuiti diffusi negli ultimi giorni da realtà nazionali di movimento.

30 Novembre 2014 - 14:44

Sommario

Lo sciopero che ancora non c’è stato. Di ∫connessioni Precarie
Lo sciopero sociale va in Europa. Di Dinamopress e ∫connessioni Precarie
Movimenti e autunno di lotta. Verso il 12 dicembre. Di InfoAut
Forme di vita come mezzi di produzione. Viva lo sciopero sociale. Di Euronomade

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Lo sciopero che ancora non c’è stato
di ∫connessioni Precarie

Sciopero sociale (repertorio Zic.it)Il 14 novembre è stato una novità. In primo luogo, quella giornata ha avuto la capacità di riportare il lavoro al centro del discorso politico dei movimenti. Non si è trattato soltanto dell’ennesima denuncia delle condizioni oggettive di precarietà e impoverimento, ma anche e soprattutto del punto di partenza di un processo di organizzazione che guarda allo sciopero come pratica e progetto per accumulare forza. In secondo luogo, il 14 novembre stabilisce l’apertura di uno spazio politico le cui potenzialità non stanno tanto nella capacità di mediare tra diverse realtà in vista di un singolo momento di protesta, ma nella pretesa di definire un percorso politico autonomo, credibile ed espansivo, affrontando in comune un problema, un discorso e le corrispondenti pratiche. Tra questi due piani c’è un legame necessario. Quest’apertura è stata possibile proprio perché è stata riconosciuta la necessità di produrre una rottura politica sul terreno del lavoro.

Il radicamento sociale del percorso che ha portato al 14 novembre non si misura perciò sulla sua capacità di dare risposte immediate o rappresentazione a un insieme di «bisogni» altrimenti inespressi, o di unire lotte e vertenze frammentate e sconnesse, ma su quella di stabilire un piano di iniziativa comune per tutti coloro che ogni giorno, in modi diversi, fanno esperienza della precarietà e vogliono liberarsene. Per questo, il successo del 14 novembre non sta esclusivamente nei numeri che abbiamo visto nelle piazze, che pure sono stati rilevanti e hanno permesso di ottenere una visibilità finalmente liberata dalla retorica dell’assedio e dal protagonismo dei militanti. Il successo del 14 novembre si deve misurare sulla capacità di mantenere aperto lo spazio politico che lo ha prodotto e sulla coerenza nell’organizzare lo sciopero come pratica politica in grado di interrompere in maniera significativa il dominio del capitale. Al centro non c’è dunque la pretesa di liberare spazi in cui poter organizzare la propria socialità e la propria vita al di fuori dei vincoli sociali del capitale. Si tratta piuttosto di produrre livelli organizzativi in grado di interrompere con continuità un dominio altrimenti incontrastato. Lo sciopero, cioè, stabilisce una pratica di potere e non si limita a indicare il polo di una negazione. Per questo rivendica una priorità esclusiva, che si impone nel momento in cui supera gli steccati della mediazione e mostra possibilità impensate. In questi termini, lo sciopero è decisivo perfino prima di portare a termine la sua parabola sociale e generale.

Nonostante la novità del 14 novembre, infatti, lo sciopero sociale generale non c’è ancora stato. Siamo riusciti a costruire un’anteprima di quello che vorremmo che fosse, individuando con una certa approssimazione le condizioni grazie alle quali esso potrebbe davvero esserci. L’anteprima è stata così convincente da spingere il più grande sindacato confederale a dichiarare lo sciopero generale. Ora che persino la Cgil ha registrato la fine della concertazione, si tratta di stabilire le pratiche comuni che possono adottare operai, migranti e precarie, contrapponendole al Jobs Act e alle politiche europee sul lavoro. Opporsi al regime del salario e al governo della mobilità significa porsi il problema di una rottura politica sul lavoro, ovvero di farla finita con quelle politiche che attraverso il lavoro stabiliscono la subalternità di milioni di persone. È giunto il tempo di abbandonare le rappresentazioni rassicuranti e minoritarie delle piazze separate che pretendono di parlare ad altre piazze più o meno lontane, che non sono in realtà mai state raggiunte. Allo stesso tempo dobbiamo sapere che non sarà la dichiarazione dello sciopero generale a riportare indietro l’orologio del sindacato confederale. La questione da porsi è come rivolgersi direttamente ai lavoratori in sciopero, sapendo che il 14 novembre parlava anche a loro. La scommessa è quella di fare dello sciopero della Cgil un momento del processo che rende lo sciopero sociale un reale sciopero generale.

Lo sciopero generale, com’è evidente, non è per noi l’anticamera della rivoluzione, ma nemmeno il presupposto per aprire chissà quali mediazioni con il sistema politico. Fuori da ogni mitologia, rendere generale lo sciopero sociale significa rivelarne il carattere pienamente politico, ovvero farne un momento di rottura del comando capitalistico sul lavoro. Lo sciopero generale non può essere l’unione di mille debolezze e non può nemmeno confederare condizioni lavorative che hanno spesso pochissimo in comune. Queste differenze – che vanno dalle condizioni contrattuali a quelle imposte dalle specifiche modalità di erogazione del lavoro (a casa, alla catena di montaggio, dietro una cattedra, davanti a un pc, accanto al letto di un anziano), dalla differenza sessuale a quella imposta dal permesso di soggiorno – devono piuttosto essere messe in comunicazione e organizzate a partire dalla loro specificità. La posta in gioco è quindi quella di «organizzare l’inorganizzabile» e di creare le condizioni affinché la pratica dello sciopero non sia più, e non possa essere, una prerogativa dei lavoratori dipendenti o dei sindacati, ma diventi una pratica politica possibile per quanti sono stati sistematicamente isolati e subordinati anche attraverso la moltiplicazione dei limiti, formali e informali, alla loro possibilità di alzare la testa e incrociare le braccia. Significa riconquistare un terreno di scontro quotidiano così come quotidiano è lo sfruttamento globale del lavoro precarizzato. Quindi uno sciopero generale oggi non può non porsi il problema della dimensione transnazionale che deve progressivamente assumere. Non c’è sciopero sociale generale che possa limitarsi al cortile di casa sua, che non debba porsi il problema dei collegamenti transnazionali che ogni subordinazione rivela. Ogni sciopero che si voglia sociale e generale deve rivolgersi allo stesso tempo contro il regime del salario e contro il governo della mobilità. Il problema non è tanto di esportare sul piano europeo un percorso che in Italia sta avendo una certa rilevanza. Si tratta piuttosto di stabilire un piano di comunicazione e continuità con i movimenti europei, sapendo che il mutamento di dimensione serve anche calibrare in maniera più precisa ciò che stiamo facendo in Italia. Il governo della mobilità funziona secondo regole che divengono pienamente visibili solo allargando lo sguardo fuori dai confini nazionali.

Realizzare appieno ciò che abbiamo intravisto il 14 novembre, a partire dalla sua capacità di scoperchiare tanto la condizione quanto le pretese di organizzazione e di lotta di un corpo del lavoro frammentato e composito, significa pensare un discorso e delle pratiche all’altezza di una dimensione industriale diffusa e mobile, cioè di un comando sul lavoro che travalica tutti i confini un tempo stabili – quelli nazionali e quelli del luogo di lavoro, quelli tra la fabbrica e la metropoli, quelli tra lavoro manuale e intellettuale, quelli tra lavoro e non lavoro, quelli tra le diverse ‘categorie’ – per diventare la vera cifra della società globale. Parlare di «sciopero sociale», soprattutto dopo il 14 novembre, non significa inventarsi forme ‘nuove’ di sciopero che rischiano, malgrado ogni intenzione in senso contrario, tanto di eludere il problema dello sciopero quanto di oscurare le diverse figure della «fabbrica della precarietà». Parlare di «sciopero sociale generale» significa interrogarsi, da qui in avanti, su come creare le condizioni per mettere in comunicazione e organizzare quanti sono ogni giorno soggetti – in modi anche radicalmente diversi – al regime del salario. Per diventare davvero generale lo sciopero sociale può solo riconoscere le differenze che segnano l’esistenza di milioni di operai, migranti, precarie. Nel momento in cui la precarietà diviene la condizione globale del lavoro, solo la costruzione dello sciopero come pratica comune ma differenziata può rendere generale lo sciopero sociale.

Di fronte a queste sfide, definire il ruolo dei laboratori per lo sciopero sociale è tanto difficile quanto cruciale. Lo rende difficile, in primo luogo, la loro composizione, non tanto perché si pone e si porrà il problema di conciliare realtà con discorsi e percorsi differenti, ma perché lì il rapporto tra sindacato e movimenti non può che determinare una tensione che deve essere resa produttiva. La lezione fondamentale della logistica è che i movimenti non possono sostituirsi al sindacato. Come dimostra il fallimento di ogni tentativo che negli ultimi anni sia andato in questa direzione, e come dimostrano le diverse esperienze di «organizzazione dell’inorganizzabile» portate avanti non solo in Italia (dai cleaners londinesi ai fast food workers di New York alle lavoratrici a domicilio in Pakistan, ma prima ancora a Oakland), almeno in un primo momento il sindacato è una struttura insostituibile per queste lotte impossibili. Non si tratta di negare i limiti della forma sindacale, ma di riconoscere che il sindacato è per i lavoratori una tattica fondamentale di conflitto. Si tratta però di una tattica che non esaurisce la sfida dell’organizzazione: essa è possibile all’interno di segmenti omogenei, proprio perché il lavoro è settorializzato, proprio perché è governato da un sistema di leggi – civili e di mercato – ben specifico, e può quindi essere parte di una battaglia di posizione per scompaginare i rapporti di forza all’interno dei luoghi di lavoro. D’altra parte, l’organizzazione non può esaurirsi nel supporto esterno dei «solidali» ai lavoratori in lotta né può significare diventare i nuovi sindacati per realizzare le forme «altre» di (non)sciopero. Si tratta piuttosto di allargare lo spazio dello sciopero, inteso come espressione collettiva di indisponibilità alla subordinazione. I laboratori dello sciopero sociale non dovrebbero essere i luoghi dove si costruisce la mediazione tra i diversi modelli di vertenze, ma dove si sperimenta l’organizzazione di specifiche lotte sul lavoro pensando al contempo un piano organizzativo che non sia confinato solo al lavoro. Già ora essi non sono i «parlamentini» dove si raggiunge la mediazione tra gruppi diversi o tra movimenti e sindacati. I laboratori per lo sciopero sociale sono lo spazio dove la rottura politica sul lavoro viene resa praticabile. Si tratta di costruire al loro interno la fine di una subordinazione quotidiana e opprimente che tutti coloro che sono costretti a lavorare riconoscono senza alcuna difficoltà. Ciò non significa che il lavoro possa tornare ad avere la centralità politica che aveva un tempo. Non stiamo sostenendo alcun neolavorismo. Pensiamo solamente che la precarietà globale ha reso evidente che il rifiuto del lavoro non libera dallo sfruttamento.

Liberarsi dallo sfruttamento impone di non chiudere gli occhi sui luoghi dove esso matura. Per affinare lo sguardo su questi luoghi sono necessari laboratori dove assieme all’iniziativa venga prodotto anche il discorso che la deve sostenere. Se riconosciamo che il 14 novembre è stato una novità, dobbiamo anche ammettere che non sarà più tale se si ripeterà uguale a se stesso. La necessità di individuare ulteriori momenti di piazza – più o meno legati alle agende parlamentari e agli iter di approvazione delle riforme sul lavoro – è per molti versi necessaria, nella prospettiva di mantenere viva l’attenzione sul progetto e non disperdere le forze che il 14 abbiamo portato in piazza, ma rischia anche di essere una trappola che ci condanna all’inseguimento di scadenze che non siamo ancora nella condizione di determinare. Affermare che è tempo di sciopero sociale significa anche registrare che lo sciopero sociale ha bisogno del suo tempo. Bisogna avere il coraggio di fare due passi indietro rispetto alle pratiche usuali di movimento per poterne poi fare uno in avanti verso lo sciopero sociale generale.

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Lo sciopero sociale va in Europa

di Dinamopress e ∫connessioni Precarie

Dopo l’assedio alla BCE della scorsa settimana, una riflessione sul Blockupy Festival e sulla prospettiva dello sciopero sociale europeo. Leggi anche Blockupy festival: assemblee e corteo, violata la sede BCE

Blockupy è un’esperienza nata dalla spinta dei movimenti contro l’austerity dopo il 2011, con l’idea di «portare la crisi nel cuore della bestia», avendo come obiettivo dichiarato l’organizzazione di una manifestazione internazionale contro l’apertura della nuova sede della BCE a Francoforte. Dopo mesi di attesa è uscita venerdì scorso la data di apertura del nuovo palazzo della Banca Centrale, che sarà il 18 marzo: 1.3 milioni di euro spesi per un nuovo enorme grattacielo per una istituzione che è tra i propulsori delle politiche di austerità e competitività europee (Qui trovate l’appello per la manifestazione del 18 marzo a Francoforte contro l’inaugurazione della BCE – Let’s Take Over The Party!).

Insieme alle manifestazioni è stato anche costruito uno spazio di discussione – il festival – per riuscire a far incontrare le lotte contro il regime delle politiche di austerità dell’Unione Europea e contro ogni nazionalismo e discutere anche oltre la preparazione di scadenze. Abbiamo portato in questa 3 giorni di festival il tema dello sciopero sociale, non solo raccontando il 14 novembre italiano, ma presentando l’esperienza dello sciopero come possibilità di organizzazione a livello transnazionale. Il tema è stato discusso nei diversi working group mattutini così come nella plenaria finale. Inoltre, come Dinamo Press e ∫connessioni precarie abbiamo promosso un workshop su «precarietà, governo della mobilità e sciopero transnazionale» con questa presentazione:

Dopo la discussione dell’alleanza di Blockupy a Bruxelles, lo sciopero sociale del 14 novembre in Italia e la giornata transnazionale di mobilitazione contro la precarietà, il workshop vuole discutere le sfide politiche poste dai regimi contemporanei di precarietà, sfruttamento e mobilità del lavoro. Discuteremo delle parole d’ordine legate alle lotte dei disoccupati, delle precarie, di migranti e studenti, come quelle che reclamano un welfare e un reddito europei e un salario minimo europeo, focalizzandoci sull’organizzazione delle lotte contro il workfare e il lavoro spazzatura e su come queste mobilitazioni possono assumere l’Europa come comune campo di battaglia, discutendo la prospettiva di uno sciopero sociale transnazionale.

Nonostante si sia tenuto la sera dopo la manifestazione e quasi in contemporanea con la prima assemblea verso il 18 marzo, il workshop ha riscosso un’attenzione che ci ha positivamente sorpreso, è stato tra i più partecipati di tutto il festival e in tanti si sono confrontati sulla possibilità e sulle difficoltà di pensare l’organizzazione di uno sciopero a livello transnazionale. Questo ci ha permesso di avviare una discussione che ci pare molto produttiva. Ciò che constatiamo è l’interesse diffuso nel riportare il lavoro all’interno della discussione e a considerare lo sciopero tanto come strumento di lotta in quanto tale, quanto come possibilità di organizzazione e comunicazione. Ciò ha fatto emergere domande ed esperienze concrete. Come si possono connettere le tante lotte sul lavoro, contro la precarietà, contro il workfare che avvengono in tutta Europa in una prospettiva espansiva e di allargamento, capace di parlare oltre i circuiti militanti? La domanda rimane aperta ma abbiamo iniziato a discuterne. Sia tramite lo scambio di esperienze locali – come ad esempio la lotta contro il Jobbridge e la precarizzazione delle fasce giovanili in Irlanda e le vertenze delle lavoratrici e dei lavoratori negli ospedali berlinesi contro la rinazionalizzazione e i tagli del welfare – sia affrontando il problema di che cosa sia concretamente lo sciopero sociale, che cosa si possa chiamare o non chiamare sciopero.

Con questa discussione si è aperto un processo di confronto e scommessa politica che speriamo possa continuare. Certo è stato un primo passaggio, non sufficiente, ma sicuramente è stato un ottimo primo passaggio, che ci fa comprendere ancora una volta quanto l’organizzazione delle lotte (almeno) a livello europeo non sia una questione secondaria, nel momento in cui la catena del valore si sviluppa sicuramente a livello globale ed esiste una dimensione compiutamente europea del regime del salario. L’indicazione che portiamo a casa è che parlare di lavoro e di sciopero, individuando rivendicazioni che possano unire, come quelle per un salario minimo, reddito e welfare europei riecheggiate anche nello sciopero sociale, può essere lo strumento per superare i limiti delle attuali forme di immaginare le lotte anche sul piano transnazionale.

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Movimenti e autunno di lotta. Verso il 12 dicembre
di Infoaut

Le mobilitazioni di quest’autunno hanno portato in piazza una soggettività diversificata e ampia, che ha voluto e saputo esprimersi in forma plurale, e che non ha, per adesso, permesso al governo Renzi di attraversare le pieghe della società italiana come fossero un mare privo di increspature. Lo sciopero sociale del 14 novembre ha mobilitato, in alcune città, fino a diecimila persone (Roma, Napoli) e ha saputo calibrare, in altre, le direttrici della mobilitazione a partire da mondi tra loro diversi, che venerdì scorso si sono incontrati in modo conflittuale (si pensi ai lavoratori dell’aeroporto con agli studenti a Pisa). Non si è trattato di una giornata isolata nel panorama dell’autunno. Abbiamo visto un’intera città, Terni, scendere in strada contro la devastazione sociale prodotta dalle trasformazioni capitalistiche; abbiamo visto altri luoghi, anche diversi tra loro – Livorno, Carrara, Bagnoli – esprimere livelli significativi di mobilitazione e scontro; e lo sciopero sociale antecedente, quello del 16 ottobre, aveva visto analogamente migliaia di studenti in piazza (Bologna) e il rifiuto dispiegato in uno dei settori fondamentali per i flussi contemporanei, quello logistico (Bologna, Roma, Vicenza, Torino).

Di cosa ci parla tutto questo? Di una forza sociale e di un radicamento ancora insufficienti, ma vivi e reali, che dobbiamo convogliare sullo sciopero generale del 12 dicembre. In quella data, la CGIL ha proclamato l’astensione generale dal lavoro contro la trasformazione del mercato del plusvalore operata da Renzi con il Job Act. Il mondo precario e ipersfruttato che tra il 16 ottobre e il 14 novembre ha ripreso (dove più, dove meno) le strade e le piazze, talvolta i palazzi civici, spesso gli autoporti, o le tangenziali e gli aeroporti, ha tutto l’interesse materiale a far sentire la propria voce: tanto più quando il mondo mainstream lo attacca da un lato sul tema della casa (vedi le recenti puntate di Piazza Pulita e Quinta Colonna, che sono apparse quasi coordinate con l’operato della polizia a Milano), dall’altro cerca in ogni modo di lisciare il blocco di potere al governo gridando alla contrapposizione storica “oggettiva” tra forza lavoro “garantita” e “non garantita”.

Le manifestazioni di queste settimane hanno anche riportato al centro un dibattito che da tempo ci mette a confronto con il blocco metalmeccanico e operaio, in primis organizzato nella Fiom. Indubbiamente lo sciopero sociale degli studenti e dei facchini, o di altre figure un tempo atipiche, oggi tipiche, del moderno mercato della schiavitù, ha poco a che spartire con l’idea disciplinata (tanto fisicamente quanto culturalmente e politicamente) che figure come la Camusso hanno dell’astensione lavorativa e dell’attraversamento degli spazi urbani. Proprio per questo, però, occorre smarcarsi con decisione dalle manovre ideologiche dei media e cercare i nostri compagni di classe ovunque si trovino, per una mobilitazione che sia ove possibile comune e – dove impossibile – trovi forme di confronto politico serrato, a viso aperto. Dalla Legge Treu alla Legge 30, al Job Act, se senz’altro nostro nemico è stato, giorno per giorno, il lavoro, mai è stato questa o quella figura sociale di esso. L’ultimo mese ha mostrato che ovunque può sorgere il conflitto, sedimentato o estemporaneo, non di rado massificato, in città come in provincia. Dobbiamo continuare a cercare i nodi reali della rabbia sorda (e troppo spesso muta) che attraversa ampi settori sociali.

Su questo terreno, il bicchiere è lungi dall’essere tutto pieno. La penetrazione dei movimenti nel tessuto sociale è ancora debole. I risultati raggiunti non possono bastarci, la conquista di un potere sociale in grado di impensierire il blocco di interessi al potere è ancora lontana; e, come se non bastasse, si aggiunge l’azione di un ceto politico “di movimento” che continua imperterrito la sua lotta per la cannibalizzazione delle energie espresse da migliaia di ragazze e ragazzi in tutta Italia, che lavora ogni volta per ritagliarsi spazi di riproducibilità separata, dividendo con ciò le forze esistenti secondo separazioni vecchie e nuove, più o meno profonde, ambendo poi all’investitura a lavorare per ricucirle. È prioritario contrapporsi a questo modello stesso di attività sui territori, anzi al “parlamentino di movimento” (con i suoi cangianti schieramenti astratti) in quanto tale. Smettere di tagliare e ricucire il nulla pensando di dividere e ricucire l’Italia, il precariato o la società (vedi uno dei commenti seguiti alla giornata del 14), questa è l’unica strada per far uscire i movimenti dall’angolo. Qualsiasi discorso contro l’orientamento xenofobo che pare assumere parte della rabbia sociale è stucchevole senza la posizione radicale di questo problema: perché è essere percepiti dai soggetti reali come imitazioni “alternative” di una forma politica fin troppo familiare, che ci impedisce di essere percepiti come radicalmente antagonisti a questi rapporti.

Non ci consideriamo, si badi, estranei a questi problemi, che possono riproporsi ovunque, dentro e attorno qualsiasi tentativo politico organizzato; né intendiamo auto-assolverci, criticando dall’alto. Crediamo però che questi temi vadano continuamente posti al dibattito di medio periodo, perché molto più grande della nostra attuale visione è il mondo che ci attende e pretende di essere attraversato. Costruire, difendere o ricostruire piccoli feudi politici (magari per narrazioni puramente ideologiche) non aiuterà mai l’espressione o l’esplosione di un movimento reale, anzi: in innumerevoli situazioni i centri sociali, e spesso i sindacati di base, fungono da freno e forza inibitrice per i soggetti sul territorio. Esageriamo? Può darsi. Eppure, ciascuno potrà pensare a quanto frequenti sono le difficoltà, anche nelle principali metropoli italiane, a costruire una mobilitazione perché il quadro di “movimento” si presenta frammentato, immobilizzato da contrapposizioni che spesso giungono, miserevolmente, ad avere addirittura nomi e cognomi (tanto sono socialmente rilevanti!). O potremmo pensare a quante discussioni siamo costretti a seguire che – anziché avere come oggetto l’invenzione di un metodo per distruggere l’esistente – si concentrano sulla spartizione di un’influenza fine a sé stessa (si spera… e spesso, addirittura, ci si sbaglia).

Dunque? Mobilitiamoci, pur nel clima tiepido di un autunno dove, nel paese, una diffusa tendenza alla passività sembra prevalere sulla voglia di lottare. Riflettiamo inoltre su quanto, sovente, siamo noi, e non il paese a restare immobili anche quando ci mobilitiamo; perché le contrapposizioni non sono mai – se rilevanti – “nel” movimento, ma tra i nostri limiti d’analisi e le mutazioni rapide del quadro socio-politico, e a ben vedere tra due diverse idee di movimento. Nel primo caso, si tratta dell’eco semantica di un’espressione che si è cristallizzata nei decenni, proprietà gergale del micro-ceto sfigato dell’antidiluviano lascito delle “sinistre extraparlamentari” (anche quando fa proprio il richiamo a forme apparentemente diverse). Questa nozione di movimento sarà sempre cara a quelli che devono riprodursi in termini di esistenza politica, anche a costo di cambiare casacca retorica ogni due o tre anni. Nel secondo caso, invece, il movimento è ciò che si muove, che noi lo vediamo o no, che noi ci siamo o no. La sua direzione è l’oceano travagliato di chi appartiene alla nostra classe, sua meta è la cessazione della sua esistenza storica; e ciò, a ben vedere, non è compatibile con qualunque concezione veda i passaggi che attraversiamo come atti di una scena (Szene a Berlino, movimento a Roma, milieu a Parigi, ecc.) già pensata come elemento separato e politicamente autoreferenziale.

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Forme di vita come mezzi di produzione. Viva lo sciopero sociale!
di Euronomade

L’intuizione, a suo modo paradossale, dello «Sciopero Sociale» ha funzionato. Ha prodotto i suoi primi frutti. Ed ha fatto correttamente di una giornata di lotta, l’occasione della verifica sulle condizioni di un nuovo percorso politico – collettivo, eterogeneo, a suo modo anomalo. Così, adesso – nella cupezza dei tempi dell’austerity – il paradosso, approfondendosi, sembra esserne subito diventato un altro: un nuovo ciclo di lotte pare volersi fare strada.

Ma cominciamo dal principio. Dall’inizio della crisi. Quindi, inevitabilmente, dallo spazio europeo. Perché è da qui, dalle lotte che hanno attraversato l’Europa, principalmente nel suo bordo meridionale, che è possibile imparare qualcosa in più sulla rilevanza del #14N. E l’angolazione con cui conviene osservare queste lotte, allo scopo di comprenderne la logica interna dello sviluppo, non è solo quella della geografia. C’è un’altra questione, che attende di essere compresa teoricamente, per essere afferrata politicamente: la temporalità a-sincrona delle lotte nello spazio europeo, come motore di accumulazione di sapere, come forma di apprendimento reciproco delle «coalizioni sociali» in lotta.

Dall’inizio della crisi, dicevamo, i paesi dell’Europa del sud sono stati attraversati da numerose lotte sociali. I sindacati tradizionali in più occasioni hanno ricorso allo sciopero generale in Grecia, in Spagna, in Portogallo, nel tentativo di fermare le violenze generate dalle politiche ordoliberali. Le coalizioni sociali di precari, lavoratori dei servizi immateriali, partite iva, disoccupati, studenti, hanno esteso, complessificandola, la portata di questi strumenti di lotta. Modificando, oltre ogni minima capacità delle organizzazioni tradizionali stesse, la composizione sociale delle lotte. Dentro questo ciclo di scioperi, ma in modo radicalmente autonomo, questi movimenti sociali sono stati in grado di sperimentare nuove forme di istituzionalità del comune. E’ accaduto così in Grecia, come in Spagna soprattutto. L’esperienze di nuovo mutualismo, le occupazioni delle case, il recupero e l’autogestione di produzioni dismesse, hanno rappresentato un terreno su cui estendere la lotta sociale. Farla durare, per poi spostarla anche su terreni diversi.

Nel quadro delle lotte sociali nell’Europa meridionale, fino ad allargare lo sguardo a tutto il mediterraneo, l’Italia ha rappresentato in questi ultimi anni un’anomalia. Da qui, quello che è prevalso è stato soprattutto l’impasse dei movimenti. Sia chiaro, questa figura, non corrisponde ad un vuoto di lotte.  Quello che si è potuto rilevare in questi ultimi anni, piuttosto che l’assenza, è stata l’incapacità soggettiva di produrre formule espansive di conflitto, dotate di una generale possibilità di attraversamento, di un potenziale di riproducibilità – persino di una radicalità concreta di obiettivi politici e non solo di linguaggio. Mentre accadeva, invece, che nelle metropoli e nei territori della provincia continuavano a diffondersi esperienze di riappropriazione, di sperimentazione neo-istituzionale, di autogoverno. E nei luoghi del lavoro, seppur nella forme problematiche della scomposizione micro-conflittuale, le lotte non sono mai sparite. L’anomalia è poi doppia, se si considera che proprio qui, in questo paese, in anticipo rispetto alle dinamiche europee, si era sviluppato – con l’Onda – il primo movimento di critica alla crisi del capitalismo neoliberale. Non è questa l’occasione per interrogarci sul perché di questo blocco. Conviene, tuttavia, rilevare che soprattutto in questo paese, le centrali sindacali dopo aver operato ordinariamente in funzione del contenimento della mobilitazione studentesca dell’Onda, hanno forzatamente evitato il ricorso allo sciopero generale. Da qui, la gestione manageriale della crisi da parte dei sindacati tradizionali è stata più evidente che altrove. Il loro orizzonte strategico aveva permesso di trasformare l’antica ipotesi della «cinghia di trasmissione» tra sindacato e partito (socialdemocratico o comunista che sia), in una relazione di potere interna alla governance neoliberale. Fatto sta, che questo equilibrio interno ai soggetti della governance è attualmente entrato in crisi. Non sappiamo se momentaneamente o meno, ma di certo, al momento, non è questo che ci interessa. Il sindacato tradizionale – e benché con modi e tempi diversi, la stessa Fiom – arriva tardivamente, con le sue parole d’ordine, allo sciopero generale, mentre silenziosamente, nella pieghe della cooperazione sociale, questo annuncio è stato anticipato dal capillare lavoro di organizzazione dello Sciopero Sociale.

Così, il #14N torna ad essere l’occasione per i soggetti sociali di svolgere quella fondamentale funzione anticipatrice, riconfigurando un nuovo campo di conflitto. E non lo fa inserendosi semplicemente nel ciclo di lotte europeo, né tanto meno limitandosi a riempire un vuoto nel nostro paese.  Lo compie, con la forza di operare un salto in avanti. Si presenta come una soggettività politica potenzialmente in grado di  incarnare il superamento oramai maturo, nei linguaggi, nei metodi e nei programmi, del corporativismo sindacale, anche quando questo si presenta con iniziative «generali». Lo fa esprimendo la forza della «coalizione sociale», come forma organizzativa aperta, irriducibile sia alla somma delle componenti politiche che, al contempo, alle reti di scopo. In secondo luogo, ma non meno rilevante, lo fa aprendosi consustanzialmente ad una dinamica in grado di divenire transnazionale. D’altro canto, le politiche lavorative nello spazio europeo, dove il comando finanziario si traduce in irrigidimento della governance neoliberale, costringono i movimenti a dotarsi di un dispositivo politico de-territorializzante. Lo Strike meeting, prima ancora dello Sciopero Sociale, ha dato vita a un processo virale ripreso da altri gruppi in Europa (Francia, Grecia, Germania, Inghilterra), che sembra voler assumere una dimensione costituente a patto che riesca ad attivare una politica della traduzione delle campagne di opposizione alle politiche di workfare in ambito transnazionale, così come delle reti di forza lavoro migrante all’interna dell’Ue. L’ultimo meeting di Blockupy a Francoforte, ha iniziato una discussione produttiva proprio sull’estensione europea della sperimentazione dello Sciopero Sociale.

Il principio della risonanza delle lotte

La metropoli ha affermato politicamente la sua esistenza. Lo sciopero del #14N, secondo modalità molecolari ed eterogenee di conflitto, ha mostrato la sua dimensione moltitudinaria, come forma della classe che nella metropoli vive e produce. E con essa intrattiene un rapporto di sfruttamento, mentre l’eterogeneità del lavoro vivo viene ricondotta all’unificazione del “meccanismo estrattivo”, trattenuta nel dispositivo di comando culturale e di dominio lavorativo. In oltre 40 città, picchetti, cortei, blocchi della circolazione e molto altro, nell’arco di 24 ore, hanno fornito l’occasione per la presa di parola di decine di migliaia di giovani e meno giovani, studenti e disoccupati, lavoratori autonomi di nuova generazione e Neet. Una classe in sé che va riconoscendosi. Nello spazio della città, lo «sciopero sociale», più che concretizzarsi come una mera evocazione, ha funzionato come dispositivo di moltiplicazione delle pratiche e di implicazione delle soggettività. Questo modello organizzativo molteplice, in grado di mostrare, più di ogni altra cosa, i dispositivi di contropotere che possono essere agiti dal pluri-verso del lavoro precario, è stato la causa principale delle reazioni preoccupate alla diffusione dello sciopero da parte del governo (ministero degli interni, in modo più esplicito), del garante per gli scioperi e persino del Vaticano. Ad impensierire l’establishment politico, sembrano essere stati soprattutto due aspetti. Da un lato, la forma molecolare stessa delle pratiche, che non si presta ad essere controllata dai dispositivi organizzativi –ordinati e rigidi – delle centrali sindacali, sfuggendo quindi ad una loro possibile cattura. Dall’altro, l’invenzione di uno sciopero che si è prodotto, senza mostrare in modo riconoscibile e convenzionale il soggetto stesso dell’organizzazione. Ri-significando, in termini di contropotere, le movenze dello «sciame» di investitori che opera nel mercato finanziario.  Ri-contestualizzando anche le antiche pratiche più tradizionali del blocco operaio, ma ricollocandole all’interno di uno schema organizzativo, che punta alla moltiplicazione delle forme di lotta. Questa importante innovazione delle pratiche conflittuali, è il caso di dirlo, mostra al contempo tutti i limiti della cultura dell’«antagonismo identitario», che nel riprodurre costantemente la retorica dello «scontro finale», si mostra paradossalmente come il soggetto più rassicurante per l’establishment, perché più facilmente reprimibile.

Al contrario, le pratiche di sciopero diversificate nell’arco di 24 ore si sono manifestate nel blocco degli ingressi dei luoghi della produzione, nella comunicazione delle strade dello shopping, dinanzi alle catene commerciali, agli snodi aeroportuali e autostradali, presso le istituzioni erogatrici di welfare, nelle scuole e nelle università. Così lo Sciopero Sociale è divenuto il tentativo, ben riuscito, di dotarsi di metodi e di pratiche per porre freno al «bio-potere» della vita, dei corpi, delle forze, muovendosi lungo i punti di intersezione tra la sfera della produzione e quella riproduttiva.

Ma ancora, ciò che ha segnato un elemento notevole di forza, ha riguardato quella specifica possibilità di aprire un terreno in cui le lotte hanno avuto la capacità di «risuonare» tra loro. E’ accaduto che in alcune città, anche in assenza di un Laboratorio dello Sciopero Sociale che ne coordinava le azioni, si sono prodotte ugualmente forme di conflitto, includendo nello spazio dello Sciopero Sociale, soggetti e organizzazioni che non avevano seguito tutto il percorso di mobilitazione. In altre realtà, la costruzione di questo spazio, ha offerto la possibilità anche ad organizzazioni sindacali tradizionali, di operare autonomamente dagli (e in contrasto con) indirizzi delle  Camere del Lavoro territoriali. E’ il caso di Genova, ad esempio, dove il porto è stato bloccato per diverse ore, oltre che dai sindacati di base, anche dalla categoria di settore della Cgil.

Il «Bildungsroman» del precariato metropolitano

A Londra, il 28 settembre 1864, duemila uomini e donne di umili condizioni, inglesi, ma anche tedeschi, francesi, spagnoli, russi, polacchi, italiani, diedero vita alla Prima Internazionale, inventando la prima organizzazione proletaria, espressone autonoma degli interessi della classe lavoratrice.

Quest’anno ricorrono i 150 anni dalla sua fondazione. Ciò che quella storia ci consegna, e che qui vogliamo mettere in risalto, è quel lungo processo di apprendimento collettivo, fatto di tentativi organizzativi, forme di lotte ed elaborazioni teoriche, attraverso cui la classe operaia industriale è dovuta passare prima di scoprire le proprie forme, i propri metodi e le sue proprie istituzioni in grado di agire con efficacia un rapporto di forza con il capitale industriale. Di fronte al radicale mutamento della natura del capitalismo, altri processi di apprendimento sembrano disporsi verso una nuova sedimentazione.

In questo senso, la centralità che ha assunto all’interno della preparazione del Social Strike la problematica organizzativa, il questionamento attorno ai modi più adeguati di intercettare e trasformare politicamente la rinnovata composizione di classe, di ricomporre conflittualmente la dispersione della giornata lavorativa e del Welfare State nella sua estensione metropolitana, più che indicare una qualche soluzione al dilemma, mostra tuttavia la maturità di un accumulo di sapere e di memoria che si è sedimentato negli anni.

Seppure questo processo si sia presentato come una discontinuità nello scenario politico del nostro paese, non va dimenticato quanto esso si sia nutrito di una sotterranea continuità nell’elaborazione dei movimenti sociali italiani. Questa linea di sviluppo è quella che ha nel tempo maggiormente insistito sul superamento della forma-centro-sociale come base dell’identità politica (sia nelle versioni antagoniste che in quelle aperte alla cosiddetta «società civile») puntando invece alle connessioni con le esperienze e i primi tentativi di auto-organizzazione sociale dei precari e dei lavoratori cognitivi. Questo processo è passato per il mayday process, così come per gli esperimenti di guerrilla comunicativa e l’internità ai movimenti studenteschi degli ultimi 15 anni.

Il collettivo Euronomade aveva proposto mesi fa proprio su queste tematiche la discussione attorno al tema del «sindacalismo sociale»: il problema che ci eravamo posti era come ripensare, nella situazione attuale e in relazione alle esperienze di conflitto che si sono dispiegate in Europa durante la crisi, la forma-movimento dal punto di vista dell’organizzazione e delle pratiche di negoziazione. Il problema è stato, attraverso una sorta di astrazione teorica, provare a pensare la proliferazione dei dispositivi di conflitto e di messa in tensione dei rapporti di potere nell’epoca della finanziarizzazione dei diritti sociali e dell’austerità permanente, come delle forme organizzative «emergenti». In questo quadro, l’esperienza del #14N e il lavoro di costruzione del Social Strike, per quanto ancora molto embrionali, ci pare che si intersechino e rilancino in avanti quello stesso cantiere di ricerca, il quale conta oggi però su una serie di nuovi punti di aggancio e un insieme di nuove questioni da rimettere al centro della discussione collettiva. I laboratori dello sciopero sociale, i loro possibili sviluppi e connessioni, possono forse proporsi come luoghi privilegiati di questa sperimentazione in corso.

Oltre il 14N, le sfide sul tappeto

Nonostante l’inaspettato successo del 14N, lo sciopero sociale lascia sul tappeto alcune rilevanti sfide. La prima, ovviamente, è quella di tenere aperta la contesa sull’approvazione del Jobs Act ed in generale sui provvedimenti che il governo intende approvare nei prossimi mesi. Tuttavia, crediamo che il processo di elaborazione e sperimentazione avviato in questi mesi apra ad una discussione più ampia sulla capacità dei movimenti sociali di innescare dei processi di trasformazione. Con tutta evidenza, ci troviamo in Europa di fronte ad una conclamata crisi della democrazia rappresentativa. In particolare è la dialettica tra lotte, movimenti sociali e mutamento istituzionale ad essersi interrotta. Il blocco delle pratiche negoziali agite dai movimenti europei pone questo problema in tutta la sua urgenza. Riteniamo tuttavia che sia proprio questo il luogo in cui è corretto porre la questione. Non è infatti né attraverso la pura evocazione della rottura né pensando al «momento politico» come un momento separato, per così dire in seconda battuta, che si possa risolvere il dilemma. Il problema della democrazia deve esser posto all’interno dei e a partire dai processi di organizzazione della composizione di classe, dai tentativi di modificazione dei rapporti sociali e in coincidenza con il lavoro di organizzazione delle soggettività. È qui che la dimensione politica e costituente dello sciopero e delle coalizioni sociali deve essere interrogata.

Questo salto in avanti della riflessione, su cui si era concentrato il seminario di Passignano, si nutre di solide basi che affondano nella nuova composizione sociale del lavoro.

La distanza che la tradizione del movimento operaio ha pensato tra le lotte economiche e le lotte politiche, in questo contesto mutato, qui si riduce drasticamente. Come ha avuto modo di sottolineare Michael Hardt su questo sito, questo rapporto da «esterno» può divenire «interno», nel momento in cui i «mezzi di produzione» si confondono con le stesse «forme di vita». Quando si assume lo spazio metropolitano come lo spazio di organizzazione della composizione di classe, noi possiamo vedere che le lotte per migliori condizioni di lavoro, per il salario e per il reddito, per la riappropriazione democratica del welfare, puntano immediatamente alla rivendicazione di un’organizzazione comune delle nostre esistenze. L’invenzione di nuove istituzioni non può essere che la base per immaginare una nuova democrazia del comune.

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