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Contestarono il rettore, tutti condannati

L’episodio risale al 2012, quando fu interrotta una seduta del Cda dell’Ateneo: pene da dieci a 18 mesi. Cua: senza queste lotte “le nostre condizioni di vita quotidiane sarebbero ben peggiori”.

26 Aprile 2018 - 17:46

Tutti condannati nel processo di primo grado i tredici attivisti del Cua che nel novembre del 2012, mentre era in corso il Cda di Ateneo, interruppero la seduta e contestarono l’allora rettore Ivano Dionigi (alcuni di loro sono stati accusati di aver tentato di appendere al collo del rettore un cartello con la scritta “Ivano Dionigi non vuole mettere i soldi”). Per i tredici studenti le accuse erano: violenza privata, oltraggio, interruzione di pubblico servizio, imbrattamento e manifestazione non autorizzata. Il giudice ha accolto, per tre di loro, le richieste del pm Gustapane, condannandoli a un anno e sei mesi, per altri 10 attivisti la condanna è stata di 10 mesi anzichè un anno e due mesi come chiedeva la Procura. Per otto di loro è stata stabilita la sospensione condizionale della pena, mentre le motivazioni della sentenza dovrebbero essere depositate nel giro di 90 giorni.

Dal collettivo la risposta non tarda ad arrivare. Questo il comunicato, dal titolo “Ci dovete ancora pagare le tasse”, diffuso nel pomeriggio sulla pagina Facebook dal collettivo: “Condanne a un anno e mezzo e a dieci mesi per 13 compagni del nostro collettivo. Nel 2012 interrompemmo assieme ad altri giovani studenti e studentesse un Consiglio d’amministrazione d’Ateneo per contestare la solerzia dell’allora cda nell’applicare senza batter ciglio la riforma Gelmini. Poche parole e chiare: pagateci le tasse, studiare stava ed è diventato impossibile. Chiedevamo una giusta distribuzione delle risorse, contestavamo gli interessi delle aziende, degli imprenditori, dei finanziatori privati nella gestione dell’Alma Mater, dei corsi di studio, dei progetti di ricerca. Sì, dal basso salimmo in cima alla Torre D’avorio con negli occhi i cortei oceanici che per due anni avevano riempito le strade di Bologna e di tutto il paese. E gli anni successivi, i recenti e recentissimi giorni non hanno in alcun modo smentito le paure, le previsioni di allora: l’Università fa marketing, business a tutto discapito delle condizioni di vita, dei bisogni dei suoi studenti. Un piccolo cartello come una cartolina dal futuro: ci servono ancora soldi, non vogliamo lavorare a 3,50 euro l’ora per pagarci tasse e libri, affitti e servizi, vogliamo fare quello che ci piace e che ci ha portato in queste mura: studiare senza lo strazio della precarietà, dello sfruttamento, della competizione, della meritocrazia, delle guerre ‘per un posto di lavoro disponibile’ tra amici e colleghi. Un giorno un cartello, l’altro un tornello, un giorno un dito l’altro un pasto in mensa: gli studenti e le studentesse di Bologna sanno che succede, chi è colpevole, dove si deve cambiare”.

E infatti “i 6 anni che sono seguiti a quell’iniziativa hanno dimostrato non solo che avevamo ragione ma hanno anche confermato che c’è una sola strada se si vuole percorrere la direzione del futuro e di un tempo davvero differente da quello che oggi viviamo: la lotta, l’antagonismo, il collettivo autonomo come spazio e progetto di sovversione della fabbrica del sapere e degli uomini e donne usa e getta per il trita carne capitalistico. Lontano chilometri e chilometri dalla politica praticata come opinionisti o intellettuali senza arte né parte, o come dalla così detta alternativa imbelle, c’è l’autonomia dei comportamenti e l’antagonismo del sapere, la conflittualità delle pratiche di riappropriazione, e c’è l’entusiasmo di vivere un’esperienza collettiva capace di variare le dimensioni del ‘noi’ lotta su lotta, assemblea dopo assemblea,festival, scontri e vertenze. Senza duri mesi di lotta, ne siamo convinti, le nostre condizioni di vita quotidiane sarebbero ben peggiori, e di tutta un’altra storia parleremmo mettendo il naso fuori di casa: polizia in piazza Verdi, biblioteche blindate, muri silenziosi, zona universitaria senza spazi di aggregazione e controculturali, caro vita alle stelle. E invece dopo aver lottato contro l’approvazione della riforma Gelmini, abbiamo portato la battaglia contro la stessa riforma nelle aule, nei corridoi dell’ateneo, nelle mense e nel territorio partecipando a importanti lotte insieme ad altre figure dello sfruttamento e della rivolta di oggi nella nostra città: occupanti di case, studenti medi, operai e operaie, migranti e giovani precari. Al posto di dare indicazioni con le parole, noi le diamo con i fatti confrontandoci insieme a quanti con noi condividono la direzione del futuro antagonista e delle possibilità. Noi non diciamo ad altri di andare, noi andiamo ed è questa la ricchezza con cui rilanciamo di volta in volta i percorsi dei conflitti sociali nella zona universitaria e all’Alma Mater senza mai conoscere la solitudine perfino quando finiamo dietro alle sbarre, come nel caso del nostro compagno Lorenzo, che anche in carcere a modo suo è riuscito a mettere a servizio della comunità carcerata il bagaglio di esperienza collettiva accumulato negli anni di lotta. Anche per questo commentiamo oggi le condanne applicate dal tribunale di Bologna con il sorriso di chi sa di essere nel giusto e che le lotte non finiscono mai. Noi continueremo ad indicare la luna, voi a fissare ossessionati il dito. A buon rendere!