Culture

Aldro, oltre la zona del Silenzio [racconto+tavole+audio]

A Vag61 ospiti Checchino Antonini, uno dei primi giornalisti a occuparsi del caso Aldrovandi, e Alessio Spataro. Hanno presentato “Zona del Silenzio”, graphic novel di cui pubblichiamo alcune tavole e il racconto da cui è tratto

17 Ottobre 2009 - 21:01

> Ascolta gli audio della serata di mercoledì a Vag:
presentazione di “Zona del Silenzio” di Checchino Antonini e Alessio Spataro
dibattito con gli autori

Interventi di Checchino Antonini – #1#2#3
Intervento di Alessio Spataro

Presentato anche lo speciale Zero in Condotta n.188 sul caso Aldrovandi e sulla vicenda processuale

> Alcune tavole tratte dal fumetto:

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> Durante l’iniziativa è stato presentato anche
Zero in Condotta n.188
il nostro speciale su carta sul caso Aldrovandi

> Leggi il racconto di Checchino Antonini da cui è tratto il fumetto, pubblicato originariamente a puntate sul quotidiano Liberazione nell’agosto 2009

Prima parte: “Una sera un ragazzo” – Liberazione, 9 agosto 2009

Roma, gennaio 2006
– Ciao, buon anno iniziato… Sì sono tornato ora al lavoro… Niente di speciale, due giorni in Val d’Orcia, bagno alle Terme e un altro paio di giorni a Genova… Certo che l’ho vista quella storia. Ti resta impressa, vero?… Voi che avete pensato?

Dall’altro capo del filo la redattrice di una radio bresciana, una radio di movimento. Dopo veloci scambi d’auguri s’era detto subito di quella notizia postata su Indymedia: una madre che racconta della morte di suo figlio dopo un controllo di polizia. Pestato, dice. Ma lo dice da mamma, senza il linguaggio smaliziato di attivisti specializzati in denunce di repressione: «Scrivo la storia di quel che è successo a mio figlio… È morto il 25 settembre, il giorno di natale sono stati tre mesi. Una parte di me non ha più respiro. Non ha più luce, futuro… Perché il respiro, la luce e il futuro sono stati tolti a lui».

Squilla un’altra volta il telefono. Stavolta è una giovane creativa precaria milanese, giro San Precario. E giro Supporto legale, quelli che aiutano gli avvocati dei processi scaturiti dalle violenze e dagli abusi delle polizie al G8 di cinque anni prima.

– Ciao, hai visto la storia di quella madre?
– Anche tu… Quella di Ferrara, dici… Certo, viene da piangere a leggere quella lettera.
– Ho visto il blog…
– Pure io.
– Sentiamoci tra un po’ che mi faccio un giro di verifiche…

Tutto stava accadendo in poche ore. Rientravo al giornale dopo la pausa di capodanno e avevo trovato in rete la storia di un ragazzino, diciotto anni da due mesi, che è stato riconsegnato morto alla famiglia, una domenica mattina, cento e passa giorni prima. Era il 25 settembre 2005. La questura ha detto subito che è stato uno “schioppone”, overdose. Un «malore fatale». Era quasi mezzogiorno quando un poliziotto ha bussato alla porta dei genitori. Il padre ne conosce parecchi di poliziotti, perché fa l’ispettore dei vigili. Ma questo, ispettore della digos, lo conosce perché le famiglie si frequentano, i bambini sono stati a scuola insieme. I colleghi del digossino, invece, lo hanno chiamato perché il govanotto non aveva documenti ma era vestito come «uno dei centri sociali». Felpa e jeans. Come fossero un’ammissione di colpa. E al poliziotto s’era gelato il sangue a riconoscere il bambino che giocava con i suoi figli.
Quel ragazzino, a casa, lo cercavano dall’alba, da quando s’erano accorti che non era rientrato. Sembrava un sabato sera come altri quando era uscito salutando la madre ripetutamente. Ciao, ciao. Ciao mamma.
«Sabato 24 settembre è stato un giorno sereno, allegro – ricorda la madre sul blog – dopo la scuola il pranzo insieme, chiacchiere, risate. Era ancora estate, faceva caldo. Ha portato a spasso il suo amico cane. Non lo faceva spesso. Tutto in quel giorno aveva un’aura speciale.
Pensandoci ora è come se avesse voluto salutare tutti noi. Ha incontrato la compagnia, ha fatto il suo lavoretto di consegna pizza. Il programma della sera prevedeva un concerto a Bologna.
Prima di partire è passato da casa per cambiarsi le scarpe. È stata l’ultima volta che l’ho visto vivo.
Ha salutato tutti, compreso il fratello che dormiva già».

La serata trascorre al Link di Bologna dove qualcuno gli ha venduto una pasticca o un francobollo di acido. «È sbagliato, sì – scrive ancora la madre, Patrizia – ma non si muore di questo».
Federico lo sapeva bene. Era stato partecipe di un progetto scolastico di ricerca e informazione promosso dalla provincia. Era a suo modo un igienista, uno sportivo, stava attento a quello che mangiava.

Il suo cellulare squillava quella domenica ma nessuno rispondeva. Il display si illuminava con la parola “mamma”. Più tardi prova il padre e sul telefonino compare la scritta “Lino”. Vallo a capire perché non lo avesse memorizzato alla voce “papà”. Però stavolta qualcuno risponde e lo fa bruscamente.
– Chi è?
– Chi è lei, perché chiama?
– Come chi sono?! Sto cercando mio figlio…
– Sono della polizia, abbiamo trovato questo telefonino, stiamo facendo accertamenti.

Stavolta chiamo io. Mi ricordo di un informatore emiliano. Si sente rispondere che non sa nulla del caso però spiega che la questura di Ferrara, “storicamente”, è in mano ai “destri” anche se il questore è uno che faceva riunioni semi-clandestine – trent’anni prima – per il sindacato di polizia. «Un democratico, insomma». Un democratico? Allora lo chiamo direttamente.

– Pronto la questura di Ferrara? Sono un giornalista da Roma, vorrei il questore… Grazie… Sì aspetto.

«Guardi che la polizia non c’entra niente – spiega cortese ma deciso – è una calunnia inopportuna e gratuita: quando è successo il fatto ci fu chi sospettò (un giornale locale, in effetti, alluse a possibili percosse), dovetti esprimere le mie rimostranze al capopagina (gergo da caserma!), non è neppure ipotizzabile che sia morto per le percosse… E’ stata una vera e propria disgrazia… una vicenda penosissima… i nostri cercavano di fermarlo… sono intervenute due volanti e una macchina dei carabinieri, ci sono tanto di testimoni e i genitori sono consapevoli. E’ morto, ritengo, per effetto delle sostanze».

Prendo appunti veloce mentre il questore parla. Cazzo, non conosco nessuno a Ferrara! Chissà se c’è qualche compagno sveglio. O dormono tutti da piedi, oppure ha ragione ‘sto questore.

Delle botte s’è accorto per primo lo zio del ragazzino. Fa l’infermiere e andrà lui all’obitorio per il riconoscimento. Non gli ci vuole una laurea in anatomia per capire che è sfigurato. Per questo hanno fatto di tutto per convincere la madre a non andare lei. Se quei segni in faccia sono botte, la storia del malore non sta in piedi. Un cronista “indigeno” prova a scriverlo, un paio di giorni dopo, con delicatezza. Il suo è il tipico giornale di provincia per bene. Che non graffia, a meno che non siano migranti, zingari, froci o studenti. Se no, non graffia mai. Quel cronista se lo inculeranno. Come si è permesso? Per un po’ la questura ripeterà che il ragazzo s’era accasciato di fronte agli agenti che cercavano di soccorrerlo.

Rileggo il blog. Cazzo, fa piangere. E se fosse una bufala? Possibile che nessuno si sia accorto di nulla? Mi ricordo di un altro “professionista”, conosciuto qualche tempo prima a Bologna. Avevano messo un pacco-bomba un po’ farlocco nel cortile del Palazzo di Cofferati. Lo chiamo.
– Hai sentito di questa storia?
– Sì, da un po’ di giorni c’è preoccupazione nell’ambiente… Fai una cosa, richiamami tra un quarto d’ora…

Ferrara m’è sempre piaciuta. L’avevo sbirciata in un film – “La lunga notte del ’43”, con Enrico Maria Salerno, Gino Cervi, Andrea Checchi – e m’era piaciuta a pelle. Così, tornando da una manifestazione contro un Cpt italiano ai confini con Austria e Slovenia, ero saltato giù dal treno al volo e m’ero fatto un giro. Tanto a Roma non m’aspettava nessuno. Il ragazzino era morto da un mese ma non c’era traccia di questa storia né sui giornali, né sui muri. Un volantino anarchico lo trovi sempre, stropicciato, sotto un portico o in un vicolo. E a Ferrara non mancano ma del fatto nessuna traccia. Ero risalito al volo sull’ultimo treno disponibile. Stremato da tre ore di passeggiare frenetico. Chissà se ci tornerò, m’ero detto. Nemmeno tre mesi dopo scendevo dall’Eurostar per Venezia. Era notte e la nebbia mi avvolgeva, umida e fredda. Avevo in tasca l’indirizzo di un albergo e il telefono della mamma del ragazzino. Me li aveva scovati uno scrittore compagno.

Il tipo di Bologna non so neppure che faccia abbia. Lo potremmo definire “un addetto ai lavori”. Quando l’ho richiamato m’ha spiegato: «Guarda che il ragazzo era in condizioni indecenti. I quattro poliziotti sono ragazzi per bene, tutti tranne uno. Tre bravi ragazzi e una bestia. I genitori del ragazzo sono due insegnanti…». Ok, si parte. Ce n’è abbastanza per partire. «Guarda che spesso si innesca un malinteso senso di cameratismo in casi del genere – è l’ultima sua avvertenza – come per la Uno Bianca». Che sfrecciava, tanto per dire, a pochi chilometri da Ferrara.
Chissà dove ha preso informazioni l’addetto ai lavori. Perché mica è tutto vero quello che m’ha detto. Tanto per dire, i due insegnanti sono, rispettivamente, un agente di polizia municipale e un’impiegata comunale.
Mi viene in mente che Stefano Tassinari, scrittore e compagno, sta a Bologna ma è di Ferrara. «Trovami una “guida indiana” – gli chiedo – qualcuno di cui fidarsi che mi mostri la città». Una manciata di minuti e arrivano il numero di telefono di Elisa, giovane comunista, e un altro po’ di informazioni: «La famiglia del ragazzo, come dire, è “problematica” e la segue un prete di frontiera, una specie di don Ciotti, prete dei poveri e degli immigrati».
Dodici ore dopo sono in un bar di Ferrara con la madre del ragazzino. Ha l’età mia. Mi racconta le ripetute rettifiche della questura nei primi giorni del caso. Poi i cento giorni di silenzio assoluto. La decisione di aprire un blog per denunciare il caso. Il tempo di un caffè ed è evidente che non è una madre “problematica”. La famiglia del ragazzino sembra uscita da un telefilm americano: villetta a schiera, i trofei sportivi esposti in salotto, il cane, le biciclette, due figli splendidi che vanno bene a scuola e hanno un sacco di amici.

Elisa è una militante scrupolosa. Quasi laureata in legge. Ha 27 anni, alta, capelli alla maschietta e occhiali. Mi accompagna al parchetto che sfiora l’ippodromo. E’ lì che, all’alba del 25 settembre 2005, Federico Aldrovandi incappa in due pattuglie della squadra mobile locale, il cui capo si vanta del crescente numero di arresti proprio mentre il comandante dei carabinieri annuncia alla città la diminuzione dei crimini. Chi ha ragione?
Ma soprattutto che è successo al parchetto quella mattina? Perché una donna chiamò il 112? E perché da quella volta non parlerà mai più. Un amico di sempre del ragazzino, solo un po’ meno ragazzino, indica col dito dov’era la pozza di sangue, dov’era il corpo dell’amico. Intorno solo finestre serrate sulle facciate di casette perlopiù a un piano solo. Finestre serrate anche se sono le due del pomeriggio. C’è chi ci sta osservando. C’è chi ha visto tutto anche allora. Ma chi?

Il cartello dietro il recinto dice “Zona del silenzio”. C’è che lì ci dormono e ci “lavorano” gli stalloni designati per la monta. Il chiasso potrebbe deconcentrarli dall’assalto a sagome di cavalle di plastica adoperate per raccogliere il loro prezioso sperma. Ma quel cartello, più di cento giorni dopo il misterioso e violento fermo, sembra un monito ai testimoni. Sembra il nome di questa città solo in superficie perfetta.

Seconda parte: “Cento giorni di silenzio assordante” – Liberazione, 11 agosto 2009

Chi porta via i fiori dal parchetto e strappa i biglietti lasciati a Federico sullo spigolo dell’ippodromo? Chi c’è dietro le tapparelle abbassate di questa sfilza di casette a uno-due piani a due passi, dico due, dal luogo del “controllo” di polizia (guai a chiamarlo fermo, fa sapere il Viminale)? Il parchetto è un prato spelacchiato con neanche una cinquantina tra pioppi, platani e tigli, qualche panchina e uno scivolo per i bambini. E’ più lungo che largo, incastrato tra il muro di cinta dell’ippodromo e una fila di case basse, una decina di portoncini, per le quali funziona come giardino di casa. D’estate gli abitanti lasciano impilate dietro un cespuglio le sedie di plastica che servono la sera per due chiacchiere al fresco. Il giovedì pomeriggio ci fanno il picnic le badanti dell’Est Europa. Di notte ci si infrattano le coppie clandestine. Il parchetto confina a nord con una strada che va verso il centro, a sud con un pratone su cui s’affacciano la caserma dei carabinieri e il cimitero di S.Luca. Federico adesso sta lì. Sul cancello dell’Ippodromo sventolano le bandiere rosse e verdi della contrada di S.Luca, appunto, e adesso sul muro c’è una targa di marmo, con una rosa stilizzata incisa, a ricordare l’Aldro.
Possibile che ora non ci sia qualcuno a spiarmi nel pellegrinaggio sul posto dov’è stato ammazzato Federico. Sì, ammazzato. Ho deciso di vedere il mondo con gli occhi della madre e di Lino. Non so cosa vedano quelli di Stefano. Lui non parla mai. Cresce. Ha gli occhi di famiglia, intensi, dolci, lunghe ciglia. Ma non parla se non coi suoi amici e io mi sento scemo come uno zio scemo. Di quelli che domandano: ce l’hai una fidanzatina? Come vai a scuola? Per che squadra tieni?
Beh, come va’ a scuola ogni tanto glielo chiedo. «Ma della fidanzata mai, giuro – penso ad voce alta visto che nel parchetto sono solo – e neppure agli amici di Federico. Che mica gli puoi domandare “cosa si prova se ti fanno fuori il migliore amico?”».
Che poi una risposta la so, almeno una parte. Che tutto va avanti come prima, solo che nulla ha lo stesso sapore. Nulla è come prima. Così si cercano le parole per dirlo. Faccio la lista dei “miei” morti – se li sono portati via l’eroina, la depressione, l’Aids, la sfortuna, la pistola di qualche guardia: Simone, Massimo, Marco che venivano agli scout con me, Andreina la più brava della classe, Susi che chissà cosa sarebbe successo tra noi – mentre mi allontano dalla zona. La zona del silenzio. L’adrenalina per il mio mestiere si mescola al dolore che c’è qui intorno. Un dolore già visto e sentito a Genova, negli occhi di Haidi, la mamma di Carlo. Un dolore inarrivabile. Lo stesso che da trent’anni accompagna Lucia, la sorella di Piero, ammazzato dalla polizia mentre manifestava per l’Angola. Un dolore che ho attraversato parlando con i parenti delle vittime di Ustica, Brescia, Bologna. Squilla il telefono. E’ la redazione. – E’ una storiòna , dico alla collega caposervizio, dammi un sacco di righe. Ma non mi sento a posto.
Il primo giorno ci siamo visti tutti intorno al tavolo di casa Aldrovandi: genitori, amici, Elisa, la guida indiana. M’hanno raccontato tutto, per filo e per segno. Della notte al centro sociale e del ritorno a Ferrara. Del risveglio con il letto di Federico ancora vuoto. Del cellulare che squillava a vuoto. Di un collega di Lino, uno sbirro. Si chiamano tutti colleghi, vigili, poliziotti, carabinieri, immagino anche i secondini. Comunque è lui che comunica con frasi di rito e gesti di comprensione del ritrovamento dell’Aldro, così lo chiamavano i suoi amici. E’ lui che convince madre e padre della vittima a non andare all’obitorio. Meglio ci vada Franco al posto loro, fratello di Lino, infermiere. Ma proprio per questo suo mestiere, al S.Anna, Franco s’accorge subito che qualcosa non va. Federico è sfigurato. Il martedì uno dei due giornali del posto s’azzarda a riportare il suo stupore di fronte ai segni di botte sul viso del nipote. Il questore alzerà il telefono per fare le sue rimostranze al capocronista. La famiglia, da parte sua, rinnova la fiducia nell’operato delle forze dell’ordine. Da allora scatterà il silenzio sulla vicenda. Cento giorni di silenzio assordante. Nessuno si cura di Lino, Patrizia, Stefano.
Lontano da questa città, intanto, le reti di familiari di vittime delle stragi e i comitati di memoria fanno grandi progetti. Questo è il «paese dei comitati» m’ha insegnato Manlio Milani, il presidente dell’associazione delle vitime di Brescia. Il governo Berlusconi – a primavera si voterà – ha i giorni contati e i cittadini del “paese dei comitati” sperano sia arrivato il momento per una nuova stagione di verità e giustizia. Pensano a una legge per rimuovere i segreti di Stato, a una commissione d’inchiesta sui misfatti delle polizie al G8 di Genova, a una legge per rendere identificabili i robocop travisati in servizio di ordine pubblico, non so, una sigla sul casco, ad esempio. Pensano a una giornata della memoria. Ferrara, al contrario, sembra non essersi accorta di nulla. E saranno proprio i ragazzi che sono stati a Genova nel luglio di cinque anni prima a mettersi in azione non appena esce il blog e dopo quello la prima pagina del mio giornale. Elisa, quasi avvocata, militante comunista e attivista per i diritti civili. Pietro, giovane ricercatore di Storia delle migrazioni e dirigente dell’Arci. Stefania, la videomaker appena tornata da un viaggio in Chiapas, tra zapatisti e malavitosi salvadoreni della Mara Salvatrucha. Quando a Genova l’ho presentata ai capi dei latin kings, si sono tolti il berretto in segno di rispetto. Insieme a loro, Gigi, sessantottino, ex sindacalista dei metalmeccanici che sta per trasferirsi in Brasile, magari dopo la fine di questa storia. Samantha che funziona da archivio, registra e ritaglia ogni cosa che esce su questa vicenda. E gli amici dell’Aldro, certo. Come “Burro”, che ha disegnato il suo migliore amico con il kimono e le ali da angelo e gli occhi grandi e la faccia un po’ incazzata di uno che deve volare via controvoglia. Quello schizzo, appiccicato sullo spigolo dell’ippodromo, lì dove qualcuno fa sparire i fiori, sarà il simbolo del comitato “Verità per Aldro”.
Tutti quanti si vedranno in una sala riservata di un caffè del centro, una sera di gennaio, per fondare il comitato, per infrangere la legge non scritta della zona del silenzio. Ci sono anch’io, quasi muto dietro a uno spritz, l’aperitivo tipico del nordest, aperol o campari e vino, fermo o frizzante.
Girando per il centro, aspettando il sonno, non riesco a godermi il “buco” che daremo agli altri giornali. Continuo a non sentirmi a posto e non capisco perché. No, non è la solita coda di paglia per le storie sentimentali parallele di questi ultimi tempi. Donne e coda sono restate a Roma, me la spiccio con sms di circostanza. Penso agli amici di Aldro che ho lasciato al bar. Beh, cazzo, sono uguali a un ragazzino che dico io. Mica tanto ragazzino.
Quando lo rivedo, un mese dopo, a un’iniziativa sul caso Aldrovandi organizzata dal Sindacato scrittori bolognese, non posso fare a meno di notare che sembra il fratello maggiore dell’Aldro e dei suoi amici. Se ne sta in mezzo alla folla, con quel suo taccuino, a sentire me che parlo con due scrittori ben più famosi: quello dei misteri in televisione, e il ferrarese che m’ha fatto conoscere Elisa. Il ragazzo che dico io non scrive, disegna. Non posso fare a meno di notare che è più adulto di come ricordassi.

Terza parte: “Io lo so chi è quel ragazzino” – Liberazione, 12 agosto 2009

Io lo so chi è quel ragazzino. Ci eravamo conosciuti, con sua madre, durante l’occupazione dell’università contro la cosiddetta “riforma” che l’avrebbe privatizzata. Le facoltà, la nostra in particolare, erano posti ospitali. C’era sempre qualcosa da fare, e assemblee e discussioni. Battaglia politica. Qualcuno sembrava fregarsene, veniva in assemblea solo quando c’era da votare sulla prosecuzione dell’occupazione. E votavano l’autogestione a oltranza per difendere uno spazio di libertà inaspettato. Poi, avrebbero proseguito a svegliarsi tardi, suonare la chitarrra, guardare film in cassetta, colorare le scale e i muri. Se uscivano era per comprare cornetti di notte o per girare altre cittadelle universitarie occupate, viaggiando in treno con biglietti falsificati da un’anarchica sapiente. Ma in un certo senso erano loro a tenere in piedi l’occupazione: cucinavano, organizzavano le feste, i corsi di mimo, pittura, ceramica e quant’altro, rendevano ospitali biblioteche e studi di baroni pieni di risorse (poltrone, videoregistratori, libri) negate agli studenti. Erano loro a far funzionare le fotocopiatrici, a scovare le risme dei fogli, a far accendere i computer del’epoca adoperando rudimenti di basic che parevano aramaico ai più profani.
I “politici”, spesso, li guardavano con sospetto, così allergici a lasciarsi catechizzare. Preferivano dormire a casa e, appena potevano, andavano ad altre riunioni nelle sedi ammuffite dei gruppi. Erano i due gruppi più grandi a non vedere l’ora che le occupazioni finissero per poter tornare al tran-tran della politica “normale”: i “moderati del grande partito” avrebbero voluto che in parlamento arrivassero le parole degli studenti per emendare una riforma a sentir loro inevitabile, i “duri-puri” volevano portare carne fresca nei centri sociali che, allora, godevano a rappresentarsi come fortini assediati da difendere ad ogni costo.
Non ricordo il momento esatto che m’innamorai di lei, né quello in cui la vidi per la prima volta. Dopo tutti questi anni mi si mescolano le istantanee nel cervello. Io ero un “politico” ma non tornavo a dormire a casa e non appartenevo ai due gruppi egemoni; il movimento mi piaceva in quanto tale. E poi, avevo passato i miei guai personali, nei mesi immediatamente precedenti, e mi piaceva godermi la nuova piazza della facoltà occupata, e le sue stanze dove discutere, conoscere donne, farsi un bicchiere o una canna. O entrambi.
Del corteggiamento ricordo poco se non certe sensazioni di euforia e benessere seguite da impazienza, paura, inappetenza altrettanto forti. Furono settimane bellissime. Era scoppiata la primavera quando, per ultimi, fummo sfrattati dalla facoltà e si cominciò, lei ed io, a girare assieme a certi tizi più piccoli di noi e a dormire ora a casa di uno, ora dell’altra. Per farle capire quanto fossi cotto di lei girai tutta una notte con i lacci delle polacchine legati tra loro. Saltellando entravo nei bar, ondeggiando andavo a prendere le sigarette. Tutto per sentirla ridere lusingata. E per vedere le facce sorprese degli astanti di quell’ora della notte.
Seguì un periodo che, a distanza di tutti questi anni e visto da questo freddo umido di Ferrara, potrei definire rapido e felice. Mi sono rifugiato in un bar dopo aver spedito il pezzo al giornale, fuori sembra di stare in una vasca da bagno piena di acqua fredda. La calzamaglia nascosta sotto i jeans è solo un palliativo. Allora sto nel bar, a leggere Balzac e sorseggiare l’ennesimo spritz, campari e fermo. Non mi conosce nessuno, nessuno fa caso a me, non ho ancora voglia di scivolare in albergo. E mi distraggo a pensare all’incontro del pomeriggio, quel saluto scarno, vorrei dire sobrio ma era proprio scarno, essenziale. «Ciao, anche tu qui?». Come anch’io? Ho pensato mentre lo vedevo andar via studiando sulle ossa e sulla pelle l’effetto che mi faceva. Ha la stessa età del ragazzino dell’ippodromo. Anzi, qualcosa di più. Lui fa già l’università. Ha l’età giusta. Se potessi guardarlo più a lungo negli occhi capirei a chi somiglia, da chi ha preso le mani, lo sguardo e quella camminata dondolante. Ai miei tempi non si camminava così. Ai miei tempi…
«Un altro, grazie», domando intercettando lo sguardo del barman che attende fiducioso l’ondata dei fuorisede del mercoledì sera. I giovani escono tardi adesso, dopo mezzanotte. Forse faccio in tempo a scolarmi il bicchiere prima della pipinara. Intanto lei mi riappare ancora nel ricordo, anche sulla strada dell’hotel. Stavolta nella sua versione post-innamoramento quando mi incalzava su cosa volessi fare da grande e mi “attaccava la pippa” su tutte le mie riunioni e i miei giri.
In sintesi, sulla mia abitudine di decidere solo all’ultimo momento cosa ne avrei fatto della sera, della notte, della vita.
Lei voleva che facessimo la spesa insieme, che la rassicurassi curandomi della casa. Non le bastava che pagassi le bollette; io lavoravo e lei era in attesa di un posto fisso che le le aveva promesso un politico della Dc. Questo signore delle preferenze, figlio di un altro signore delle preferenze, lo vedo ancora. Ora è nella squadra azzurra e, ultimamente, ha insultato pubblicamente i senza casa romani. Per questo ha vinto una poltrona da eurodeputato a Strasburgo.
Erano gli anni ottanta. Lei ce l’aveva con i miei pasti a mensa e i film all’ultimo spettacolo nei cinema d’essai.
«E se avessi un figlio? – cominciò a martellarmi verso natale – lo porterai a mensa, alle riunioni, sui treni che prendi al volo?» Al mio sì s’incazzava sempre di più e parlava come una dispensa di puericultura e pedagogia. Facemmo l’amore l’ultima volta che era primavera. In un bosco su uno scoglio dietro l’isola di Procida. Era ripidissimo, ci reggevamo ai rami degli alberi mentre ci baciavamo. Poi conobbe un professore di matematica delle medie, posto fisso e spiccate attitudini domestiche. Perfetto. E, semplicemente, scomparve dalla mia vita. Era chiaro che non avrebbe mai guardato indietro. Il centro del suo mondo era lei stessa.
Passò del tempo prima di conoscere il “segreto”. Troppo tempo. Un’amica comune si lasciò sfuggire del compleanno del bambino nella villetta dove un tempo vivevamo insieme. Il “segreto” già andava a scuola. I conti li so fare anch’io. Ero padre? mi chiedevo nei miei soliti giri. No, il padre è chi lo culla, chi lo accompagna all’asilo, e lo sopporta quando si sveglia di notte e resiste alla voglia di scappare e gli insegna i nomi delle cose. E gli racconta di indiani, fate, nonni e guerre, si fa battere a pallone, lo sgrida e lo minaccia. Il padre ha lo sguardo smarrito del padre di Federico, il ragazzo dell’ippodromo, lo sguardo di chi ha perduto per sempre un pezzo dell’anima. Io mi ricontavo mentalmente i denti, le ossa, i nervi.
Non so ancora se odiare quella donna o esserle grato per avermi negato la verità. Non mi ci vedo in tribunale alle prese con esami del Dna e calcoli di alimenti. La mia pigrizia e i miei dubbi amletici sono il viatico migliore per conservare lo statu quo.

Una volta l’ho spiato davanti la scuola, mentre usciva, avevo una buona scusa pronta se fossi stato riconosciuto dalla madre. Poi non seppi più nulla di lui fino al G8 di Genova. Qualche settimana dopo i massacri del luglio mi capitò per le mani un reportage a fumetti, il diario di bordo di un no global. Il viso rintracciato su Google corrispondeva al nome stampigliato in copertina. C’eravamo sfiorati in quei tre giorni di calura, passione e orrore. Aveva disegnato gli stessi posti dov’ero stato anch’io. Era sopravvissuto alle stesse cariche di polizia. Mi venivano i brividi.
Con la scusa di una recensione lo volli incontrare e alla fine dell’intervista gli confidai che conoscevo bene sua madre. Lo sapeva già. Aveva visto l’album di famiglia. Che altro sapeva? Forse non lo saprò mai ma non posso fare a meno di chiedermi cosa sarebbe accaduto se l’avessi cresciuto pure io. C’ho fatto caso: non nomina mai suo padre. Io neppure. A volte, nei tempi morti su un treno, m’immagino al capezzale, in fin di vita, che gli confesso la verità, quella che suppongo sia la verità. Poi non penso che avrei il coraggio, neanche in punto di morte di sconvolgere la vita di qualcuno. Sono pensieri oziosi, come quelli che mi assalgono la notte quando non c’è un film decente alla tv e non ho abbastanza sonno. Meno ozioso pensare che lui, molto meglio di me, potrebbe aver capito quello che è passato per la mente di Federico quando s’è imbattuto nelle due volanti. Io guardo il padre e la madre e mi domando quale forza li faccia stare in piedi. Chissà se anche lui fuma o si cala, se lo hanno mai fermato all’uscita di un centro sociale il sabato notte? Perché ci va in quei posti, dovrebbe stare attento, chissà se sua madre lo sa. Chissà se qualcuno risponderà all’appello di Patrizia sul blog. Si cercano testimoni diretti. In città c’è già un bel po’ di gente che riferisce racconti di altri. Racconti precisi, agghiaccianti. Testimoni “de relato”. Non bastano al pm ma servono al cronista e al comitato per continuare a scavare. Qualcuno deve aver visto tutto, deve aver capito. Forse è per questo che ha tenuto la bocca cucita. Finora.
In albergo, rileggo “La notte del ’43”, scovato in una edizione tascabile di trent’anni fa in una libreria ferrarese di fronte alla tomba dell’Ariosto. Giorgio Bassani con le “Cinque storie ferraresi” vinse lo Strega nel ’56. Mezzo secolo dopo mi viene un colpo quando leggo che «l’esecrazione pressoché generale dell’assassinio potesse accompagnarsi immediatamente al proposito, altrettanto diffuso di far buon viso agli assassini, di fare atto di pubblica adesione e sottomissione alla loro violenza». Là una strage di nazisti e brigate nere, qui un violento e misterioso “controllo” di polizia. Anche un bambino direbbe che non è la stessa cosa. Eppure c’è sempre la stessa città intossicata dalla paura. Apro le finestre per far uscire il fumo. Si sente solo il cigolìo di qualche bicicletta che taglia la nebbia.

Quarta parte: “Chissà se gli sbirri ragionano proprio così” – Liberazione, 13 agosto 2009

«Se avesse più capelli… anzi, se avesse i capelli e la barba più scura sarebbe uguale al ragazzo delle foto di mamma quando faceva l’università», pensò Alessio, il disegnatore, incrociando il giornalista di una ventina d’anni almeno più anziano di lui. Lo aveva visto per la prima volta nel liceo artistico occupato. Era quando faceva il quinto, subito dopo Genova, così ricordava. S’era votata l’occupazione per contestare la “controriforma” della scuola della ministra Moratti. Governo Berlusconi, lo stesso che aveva gestito il G8, spedito i “nostri ragazzi” in Afghanistan e che avrebbe fatto lo stesso di lì a poco con l’Iraq, lo stesso che aveva stabilito che si doveva andare in prigione per uno spino, che ha inventato 31 tipi di precarietà con la legge Biagi e che stava stravolgendo in peggio la già poco esaltante scuola superiore. Beh, per dirla tutta, lui all’occupazione c’era andato soprattutto per una certa Marta, una tipa dolcissima e impegnata a cui avrebbe voluto dire un sacco di cose. E s’era pure dovuto inventare un sacco di cavolate con sua madre. Tipo che andava a studiare da Matteo, fuori Roma, perché la madre non voleva che lui restasse a dormire nel liceo occupato. Sono iperprotettivi i genitori di oggi. Accompagnano i figli dappertutto da quando sono piccoli. Prima a scuola, a calcetto, a danza. Poi fino al liceo e, se potessero, li accompagnerebbero perfino in discoteca il sabato sera. Non fosse per non fare a loro volta la figura del “matusa” (chi usa più questa parola, chi sa se lui, il disegnatore, l’avrà mai sentita pronunciare?).
C’è un’amica della madre che ha voluto accompagnare la figlia quindicenne, nottetempo, a scrivere sul muro di fronte la casa del moroso. Una cosa del tipo: “Io e te 3 metri sopra il cielo”, così da sorprenderlo l’indomani quando sarebbe uscito per andare a scuola. Ma le cose non sono andate lisce: il muro era in curva e in discesa. La ragazzina s’è arrampicata sul tetto di una macchina parcheggiata e una vettura che arrivava ha rallentato, per godersi la scena, fino quasi a fermarsi. Finché una frenata non ha squarciato il finto silenzio della notte di Roma Nord. Il botto tra l’auto che frenava e quella a folle subito dietro la curva. Lo spavento, il salto giù dal tettuccio. Solo il tempo di verificare che tutti stessero bene, per fortuna non s’è fatto male nessuno, e via. Ora si legge “Io e te 3 metri sopra”. Sopra che? Sembra un’esercizio di enigmistica. Fosse successo a Ferrara i giornali locali si sarebbero scatenati sulla scritta incompleta e lo scontro notturno. Indagini a tutto campo. Solo sul misterioso delitto dell’ippodromo non si sono scatenati.
Anche la madre di Alessio lo accompagnerebbe dovunque. Ma lui resiste. Oppure inventa. Così quella volta ha potuto bivaccare più o meno felice per tre giorni dentro la scuola. E, con Marta, avevano organizzato un dibattito sulla repressione con quel giornalista (che Marta pare conoscesse da quando era bambina), poi c’era un disobbediente che già andava all’università e una deputata di Forza Italia la cui figlia stava nella stessa scuola e tutti volevano una sorta di par condicio. Come in tv. Da un po’ le assemblee nelle scuole o nelle feste di partito somigliano sempre più a un talk show. La vita stessa è intrisa di televisione. Per un po’ è sembrato che la tv copiasse la vita. Ora sta accadendo il contrario.
Quando gli è balenata la somiglianza col ragazzo delle foto di sua madre, lui s’era andato a documentare: ha cercato su Google, gli pareva un po’ come il manuale delle giovani marmotte, e ha trovato centinaia di articoli sul G8 e sul movimento. A primo acchitto gli era stato antipatico: così poco televisivo, critico su come era stato organizzato il dibattito con i relatori in cattedra e il pubblico sui banchi. Aveva detto: «E che l’avete occupata a fare la scuola se non cambiate il senso a ogni spazio e a ogni mobile? » Poi aveva chiesto scusa perché pativa a parlare in pubblico perché gli veniva l’ansia. Ma poi aveva stracciato, nel faccia a faccia, la deputata berlusconiana mandando in visibilio Marta e i compagni del collettivo. Lui nemmeno s’era avvicinato. Preferiva stare da una parte a scarabocchiare. Anzi, a inventare fumetti.
Tornato a casa aveva raccontato a sua madre di quel giornalista ma lei non aveva voglia di parlarne. Dei vecchi tempi non ne parlava volentieri se non con qualche “zia”, lui le chiamava così da quando era bambino ma in realtà erano amiche di sua madre, con cui tirava tardi a giocare a risiko. Che palle il risiko.
Così ora si trovava di nuovo di fronte quel tizio del giornale che lo guardava. Ne era sicuro, lo guardava mentre lui disegnava. Non s’erano conosciuti quella volta a scuola. S’erano visti quando era uscito il libro di fumetti sul G8, l’aveva intervistato. Ora che ci pensava ne aveva anche fatto cenno a sua madre. Ora, forse, era incuriosito dagli schizzi, pensò, poi si ricordò di Marta di cui, finito il liceo non ne aveva avuto più notizie. Lei a Giurisprudenza, gl’ha detto qualche amico comune. Lui a imparare a disegnare fumetti e poi in giro per l’Italia dovunque ci siano gruppi di autori e riviste, quasi sempre autoprodotte. Come adesso a Bologna dove s’è imbattuto nell’iniziativa del Sindacato scrittori nel locale strapieno per sentire romanzieri famosi, per l’arrivo dell’inviato di “Chi l’ha visto”, uno dei più tenaci sul caso. E soprattutto per conoscere, chiaro, la mamma di Federico che raccontava quattro mesi, fino ad allora, di pratica di controinformazione e la carica di umanità e inquietudini che il blog catalizzava. Un laboratorio di democrazia partecipata. Piccolo ma decisamente in crescita. Il blog è ormai uno dei più cliccati da quattro mesi. In sala e sulla grande rete si collega la vicenda di Aldro alle porcherie genovesi e a quello che è successo a Sassuolo, qua vicino, solo pochi giorni prima. Due carabinieri sono stati filmati con un telefonino mentre si accanivano su un maghrebino ubriaco e mezzo nudo. Uno gli è saltato su con gli stivaloni mentre era caduto in terra, l’altro lo prendeva a pugni sullo stomaco. Per lo straniero sarà il Cpt di Modena e chissà che fine ha fatto. Per i due militari nessuna conseguenza, chi ha archiviato le prove inequivocabili del pestaggio ha spiegato che non c’era rinvio a giudizio perché non si può sapere cos’è accaduto prima del filmino del cellulare. Intanto a Sassuolo, patria della maiolica in declino, sono state raccolte migliaia di firme in solidarietà con i due carabinieri che, nel frattempo, erano stati trasferiti.
Alessio è davanti al computer. Scrive su Indymedia. E legge sempre il blog della mamma di Federico. Anche la polizia postale lo fa. E scruta sul web le vite di queste fastidiose formiche che si permettono di sindacare l’operato delle forze dell’ordine. Drogati, comunisti, no global. Le ragazze certamente un po’ mignotte. Sempre lì a criticare chi rischia la vita per due soldi. E tutto per la loro sicurezza. Ingrati senza patria, sempre solidali con gli extracomunitari che vengono a spacciare e insidiare le nostre donne. Chissà se ragionano davvero così gli sbirri. Di certo si sentono al di sopra della legge che dovrebbero far rispettare. Un amico dell’Aldro ha detto ad Alessio che ogni tanto ne trova uno, in borghese, quasi ad aspettarlo sotto casa sua.
I quattro di Alpha 3 e Alpha 2, le volanti della notte all’Ippodromo di Ferrara, sono ancora in giro a fermare diciottenni che ritornano a casa dopo una notte in discoteca. Li riconoscono da come sono vestiti, «come quelli dei centri sociali».

Quinta parte: “Una città senza rabbia né passione” – Liberazione, 14 agosto 2009

Fu all’uscita dal bar bolognese, sotto i portici di Piazza Maggiore, che provai ad attaccare bottone col giovane disegnatore. Nel deflusso ci siamo trovati per caso uno accanto all’altro e uno dei migliori amici di Federico c’è passato accanto. «Guarda se non somiglia sputato a Zanardi di Pazienza». «Ah, lo conosci anche tu Pazienza?!», disse incredulo Alessio. «Bada! Se non avessi lasciato le mie collezioni sullo scaffale di tua madre, magari a te manco ti passava per la testa di fare i fumetti!». Almeno sono serviti a qualcosa libri e riviste che non sono più passato a ritirare per non respirare ancora l’aria di una casa dove ormai ero un estraneo. E ho ripensato a tutti gli scatoloni di fumetti e giornali raccolti nei vent’anni successivi. Forse avrebbero interessato qualcuno, un giorno o l’altro. Forse non ho sprecato tutto il tempo a impacchettarli e catalogarli.
Alessio rise alla mia battuta e ripensò a tutti i fumetti divorati da ragazzino – Cino e Franco, Gordon, Mandrake, Corto Maltese – chissà se anche l’Aldro leggeva i giornaletti. Lo pensammo entrambi ma nessuno lo pronunciò ad alta voce. Già era sembrata fuori posto a tutti e due quella risata che ci aveva avvicinati per un istante. Fatto sta che decidemmo di seguire i relatori del dibattito in una bottiglieria. «Vuoi raccontare questa storia a fumetti, come hai fatto con Genova?», domandai. «Ci sto pensando – rispose Alessio – anche se mi sembra che le differenze siano parecchie. Negli Usa, fatti come questi sono piuttosto frequenti. La chiamano police brutality…». «Io la chiamo mala-polizia, come la mala-sanità», aggiunsi.
Dunque, tutto era venuto fuori col blog, una sorta di diario su internet, che la signora Aldrovandi aveva deciso di scrivere intorno a Capodanno del 2006. Le prime feste senza Federico. Le più brutte della loro vita. Federico che era nato così piccolo che i dottori avevano consigliato ai genitori di sperare in un miracolo. Federico che era venuto su un ragazzone, che studiava clarinetto, faceva karate con impegno e che, per pagarsi le vacanze, la sera andava a consegnare le pizze a domicilio col motorino. Un Natale «circondati da luci di presepi, di alberi di natale… in un silenzio irreale, incomprensibile…», si sarebbe letto pochi giorni dopo sul blog.
Da quando ha deciso di aprirlo, Patrizia racconta la stessa storia arricchita ogni volta da dettagli. Racconta in tv, nei centri sociali che mai si sarebbe sognata di bazzicare, racconta alla gente che ha messo su comitati per verità e giustizia. Ogni tanto si trova di fronte qualche conduttore che non ci capisce niente, o finge di non saperne nulla. E continua a ripetere la versione del ragazzino drogato. Come gli piace parlare di droga, «’sti benedetti ragazzi che hanno tutto», le stragi del sabato sera. No, il problema non è quello. A uccidere Aldro sono stati gli effetti collaterali di un’emergenza sicurezza che proprio la stampa e la tv generalista hanno contribuito a montare. Patrizia è un’ospite scomoda. Li infastidisce. Qualche volta esce piangendo dagli studi. E’ accaduto dal boss dell’ammiraglia Mediaset, famoso anchorman, tessera P2. Oppure quando ha incontrato in un programma un ex ministro di Berlusconi che le ha ripetuto la storia del Federico eroinomane. Ma non mollano mica Patrizia e Lino. Da quel momento non si sono fermati un momento. Uno dei loro avvocati è piuttosto conosciuto perché si intestardisce volentieri sui casi di malasanità. Dicono che avrebbe le sue buone ragioni per tutta quella rabbia in corpo contro apparati di potere potentissimi. Contro una Procura che ha bucato le cronache nazionali solo per lo scandalo dell’insabbiamento dell’inchiesta sul Petrolchimico. Una fabbrica di morte tale e quale a quella della più celebre Marghera. Da lì i magistrati che hanno indagato sulle morti di operai hanno spedito tutte le carte ma, da quest’altra parte del Po, sarebbero annegate in qualche cassetto.
Quando il mio giornale sbatte il caso in prima pagina in questura e in procura qualcuno si incazza. Anzi, s’incazzano tutti. Quelli che sanno e quelli che fanno finta di non sapere. Seduto dietro il solito spritz, incontrai Cinzia, amica e collega di un’altra testata, a cui ho soffiato l’esclusiva per puro caso. La ragguaglio sul primo giorno di lavoro.
– Pare che anche un carabiniere della gazzella, sono stati gli ultimi ad arrivare, abbia esclamato alla vista del corpo: “Ecco il solito coglione di don Bedin”!
Domenico Bedin è un parroco coraggioso, fondatore di un’associazione che aiuta poveri tossicodipendenti, indipendentemente dal colore della pelle, con o senza carte. La foto di Federico è infilata nella cornice dello specchio nel suo ingresso della canonica. Conosce gli Aldrovandi e i loro amici, «gente normalissima e il ragazzo aveva un buon carattere e non era un tossico».
– E’ la città che non ha reagito, non ha mostrato rabbia, né passione. Così mi aveva detto il prete spiegando che per i giovani non ci sono stimoli e che la legge Bossi-Fini, «che produce clandestinità», ha aumentato la tensione tra chi vive per strada. Lo hanno ammesso gli stessi carabinieri nel loro rapporto di fine d’anno. Sulla tv privata accesa nell’albergo il questore insiste: «L’intervento degli operatori è avvenuto al solo scopo di impedire al giovane di continuare a farsi del male». Missione fallita, questore, non ti pare? Lo penso mentre mi preparo a dormire. Sul comodino un giallo di Sarti Antonio, sergente di polizia. E’ ambientato a Bologna, la città da cui il virus dell’emergenza sicurezza s’è propagato alla velocità della luce contaminando Ferrara, Sassuolo, Modena. Dall’altra parte del Po, lo stesso virus già governava le Venezie e alzava muri della vergogna in città come Padova. A Bologna l’untore è il sindaco, lo stesso che – da leader del più grande sindacato – aveva illuso milioni di persone sull’apertura di una nuova stagione di diritti per i lavoratori. Aveva portato in piazza, a Roma, un milione di persone in difesa dell’articolo 18. L’anno appresso, al referendum per estendere anche alle piccole aziende il diritto a essere licenziati solo per giusta causa, aveva mandato tutti al mare. Amen.
Fu eletto sindaco pochi mesi prima che Federico si imbattesse nelle due volanti. E poche settimane dopo aveva già cominciato a multare chi beveva fuori dai locali e a spianare con la ruspa le baracche di famiglie di rumeni poverissimi. L’emergenza sicurezza.
A Ferrara lo spauracchio è il Grattacielo. Due torri da 25 piani di fronte alla stazione, sul citofono molti cognomi stranieri. Sui giornali locali la notizia a otto colonne della perquisizione in forze nei due stabili. Bottino di guerra: un clandestino e un paio di patenti non rinnovate. Il prefetto si fa i complimenti a mezzo stampa. Nessuno parla dell’onesto padre di famiglia, bianco come un cadavere, e con i pantaloni in mano, che scappava per le scale dopo essere fuggito dall’appartamento di una sex worker straniera.

Sesta parte: “Le mele marce vanno estirpate” – Liberazione, 15 agosto 2009

«Ho sentito dire più o meno questo: “Chissà se davvero ti chiami Federico, mi sa che sei un extracomunitario”. C’era una poliziotta con un accento veneto. Ricordo che poco dopo diceva a qualcuno “tienilo fermo, mettigli le manette”. Seguiranno attimi concitati, si sentivano i rantoli del ragazzo, rantoli forti, chiedeva aiuto e diceva “Non respiro”. “Adesso ti aiuto io” gli rispose qualcuno. Poi il silenzio, rotto dalla voce della poliziotta: “Che cosa hai fatto? Ma quando arrivano i colleghi?!”». Alessio leggeva a voce alta il mio pezzo. Sua madre cucinava. Il profumo del sugo non lo distraeva.
«Io parto», disse Alessio mentre mangiavano. La tv di sottofondo. «E dove vai?». «A Ferrara. Tanto devo andare a Bologna per il festival dei fumetti. Starò da Marta». Sua madre si accese una sigaretta e cominciò a torturare il telecomando. Non era di buon umore, altrimenti si sarebbe lasciata andare di fronte a qualsiasi fiction. O avrebbe messo su un film o un cd.

Io pigiavo sui tasti del telefono e sorridevo, alzando gli occhi ai commensali. Alessio riconobbe la gente del comitato Verità e giustizia. Lo osservo gesticolare, scherzare con quei ragazzi ma poi, quando arriva lo squillo del messaggino, mi blocco e rispondo, sorridendo alla tastiera, stavolta. Ho l’impressione che questo lavoro metta di buon umore la tavolata. Elisa, Pietro, “Zanardi”, Alessio non se li ricorda ancora tutti i nomi. In tavola quello che resta di piatti di cappellacci, sui muri foto di musicisti jazz transitati per Ferrara, con dedica al titolare del ristorante. Non che sia il migliore, solo che è centrale e aperto fino a dopo teatro. Ovvio che le compagnie degli artisti facciano tappa lì. E anche chi voglia tirare tardi a bersi qualcosa senza spendere troppo.

Alessio e Marta sono seduti dall’altra parte della sala. Spritz per tutti. I due ragazzi si sfiorano le dita mentre leggono i quotidiani. Dopo gli articoli di rito sul commosso addio a Federico, etnografia superficiale del dolore, erano passati cento assordanti giorni di silenzio. In fondo ai quali, Patrizia e Lino avevano deciso di aprire un blog. Prima il mio giornale, poi, via-via, gli altri organi di stampa s’erano avvicinati alla vicenda. Dire che perlopiù l’abbiano fatto timidamente sarebbe un eufemismo. Uno di questi quotidiani parlava del ruolo crescente dei blog. Sfido, il portale che ospitava Patrizia era di proprietà dello stesso editore di quel giornale. I locali, invece, davano molto spazio alle esternazioni della polizia, del questore, dei sindacati di polizia, quasi tutti schierati a riccio contro quella famiglia che metteva in dubbio la versione ufficiale.

Un comunicato del sindacato di “sinistra” regionale, poche settimane dopo, concordato parola per parola con la centrale a Roma, esprimerà solidarietà e vicinanza alla famiglia del giovane morto, chiedendo “tempi assolutamente rapidi” per le indagini, e che siano rimosse “tutte le cortine fumogene”. Le “mele marce” vanno estirpate. La contromossa della sigla sindacale legatissima ai partiti di destra (credo sia il sindacato dei quattro di Via Ippodromo) è un comunicato da Roma, a firma di un segretario nazionale, ferrarese anche lui. Vi si legge che «se siamo destinati a essere perdenti nel dibattito pubblico… il tempo renderà giustizia ai nostri colleghi». Un rinnovo di credito incondizionato alla Procura.
Altri cronisti si sono perfino dedicati a insinuazioni sulla famigliola, chi glielo fa fare, non sanno chi era davvero Federico. Chi era davvero Federico? si domandava anche Alessio. Ne avevano parlato con Marta. Volevano conoscere quei ragazzi, alcuni della loro età, partecipare al piccolo laboratorio di democrazia partecipata che avevano messo in piedi e che, ogni mercoledì volantinava in piazza, sotto al Duomo e poi camminavano in fiaccolata. Per questo erano andati a Ferrara, quella sera.

Squilla il telefono di Alessio. E’ sua madre, preoccupata e infastidita da questo figlio che le somiglia molto, forse troppo. E che la tira alla lunga con gli esami, e pensa a disegnare fumetti, e si caccia nei casini come quella volta a Genova. Ad Alessio sembra di riconoscere gli squilli, come Paperino riconosce nei giornaletti le chiamate pericolose di zio Paperone. Balbetta qualcosa e, per distrarla, le dice di quel suo vecchio amico seduto nello stesso ristorante. Dice di me. Mi vede che sorrido ancora guardando il cellulare. Giurerebbe di vedermi arrossire. Ne fa cenno a sua madre. «Si vede che s’è innamorato ancora lo “scimpru”», gli spiega sua madre con una punta di acidità. Vorrebbe chiederle perché ma sa che non è il caso. Scimpru vuol dire scemo, in sardo. E lei rispolvera il dizionario ereditato da sua nonna solo quando le gira storta.
«Dev’essere proprio incazzata, mia madre», dice allungando il collo di bradipo fino a sfiorare le labbra di Marta. «Non capisco se ce l’ha su con me. Oppure con quello lì», dice indicandomi. «Chi è?», chiede Marta, spalancando i dolcissimi occhi blu. «Mi sa che è una sua vecchia fiamma – disse con l’aria da entomologi imbarazzati che hanno i ragazzi al pensiero dei loro genitori innamorati – hanno fatto l’università insieme. E anche la Pantera: tre mesi nella facoltà occupata senza tornare quasi mai a casa. Lui ora scrive per quel giornale che ha portato la storia di Aldro fuori da Ferrara».
Io passo vicino a loro battendomi la sigaretta senza filtro sull’orologio di Corto Maltese, regalo dei migliori compagni della mia vita, da cui non mi sarei mai separato. Terminata l’operazione riprendo il cellulare dal taschino della giacca. «Certo sei proprio innamorato!», esclama Alessio. «E tu che ne sai?». «Ne è convinta mia madre». «Ah! L’hai salutata per conto mio?». «Certo», mentì Alessio. «Qui se c’è un innamorato mi sembri tu», replicai strizzando l’occhio a Marta che mi chiese «Ma che ti fumi?» gurdando il cilindretto di tabacco nero, bottino dei ritorni di mio fratello da Cuba. Anche i ragazzi presero il loro tabacco ultraleggero, cartine e filtrini e uscirono a fumare con me.
Dopo la prima boccata ruppi il ghiaccio: «Allora cosa ne pensate di questa storia?», chiesi indicando un articolo che Marta teneva tra le dita mentre Alessio rollava per entrambi. Il pezzo riportava le dichiarazioni del questore. Federico era già morto all’arrivo dell’ambulanza, faccia in giù con le manette ai polsi dietro la schiena. «Le manette? Solo per calmarlo», giurava il questore dalle colonne del quotidiano locale. «Una brutta storia, ci sembra di essere ripiombati nel clima di Genova ai tempi del G8», dice Alessio che quei giorni se li ricorda bene.

Era partito con il sacco a pelo e gli amici del liceo. S’erano letti “No logo” di Noemi Klein, sapevano a memoria il disco di Manu Chau, avevano cliccato ripetutamente tutti i siti che parlavano delle giornate di Seattle. Uno di loro aveva anche comprato “Impero”, il libro di Toni Negri e Michael Hardt ma poi era sembrato loro troppo complicato ed era finito nella pila delle letture rimandate. Avevano studiato insieme i fatti di Napoli, il massacro di piazza Plebiscito, i sequestri di persona nelle caserme, tre mesi prima del G8, prove generali orchestrate dal governo di centrosinistra, a cui loro non avevano potuto partecipare per via di una sfilza di compiti in classe e interrogazioni. Ma a luglio avevano superato l’esame di maturità e si volevano godere un viaggio premio: Genova, le manifestazioni, poi Marsiglia – con l’Interrail – per vedere la città in cui Jean Claude Izzo aveva ambientato la sua trilogia del commissario Montale. Come me, anche ad Alessio piacevano i noir con i poliziotti buoni che scavano a fondo e trovano la verità. Poi andò tutto storto. La tenda che avevano montato in un giardino di Quarto s’era dimostrata fragilissima alla prova del nubifragio che, la notte tra il 19 e il 20 luglio, s’era abbattuto sulla città costringendo centinaia di persone a cercare un’altra sistemazione. Alessio e i suoi amici trovarono posto in una scuola messa a disposizione del Genoa social forum. Era la scuola Diaz.
Alessio risponde alle mie domande ma si vede che il suo racconto è tutto per Marta. Ricorda prima il corteo dei migranti, indimenticabile, che dal centro storico di Genova scese verso il mare scandendo slogan in tutte le lingue del mondo. Poi l’assemblea allo Stadio Carlini dove morì il movimento delle tute bianche e nacque il movimento dei disobbedienti. Era felice di trovarsi in mezzo a un evento storico: centinaia di migliaia di persone in una città meravigliosa a rivendicare un futuro senza violenza e senza sfruttamento. Somigliava alla rivoluzione. Poi le cariche, i lacrimogeni, il sangue, altre cariche, ma perché non aveva dato ascolto ai più grandi che avevano consigliato di portarsi i limoni, oppure una miscela di acqua e bicarbonato. Avevano corso col cuore in gola per strade deserte con le saracinesche tutte sbarrate. La campagna intimidatoria era servita a far fuggire tantissimi genovesi. Finché non era arrivata la notizia dell’uccisione di un ventitreenne e allora tutta quella macchina di repressione violenta era sembrata placarsi. Aveva avuto il sangue che cercava. Il giorno dopo, solo per un pelo, s’era scampata la retata della Diaz, e la mattanza cilena avvenuta nella scuola dove aveva lasciato uno zaino che non avrebbe più trovato. Era successo che alcuni compagni di Genova, conosciuti in una delle tante fughe dalle cariche di polizia, lo avevano convinto ad allontanarsi dalla Diaz il tempo di una birra. Il tempo sufficiente alla colonna di blindati per assediare le scuole e compiere il massacro.
Alessio racconta. Ferrara, intorno a noi, si gode la serata limpida e la gente fa “filò”, chiacchiera in piazza.

Settima parte: “Morto, faccia a terra, manette dietro la schiena” – Liberazione, 18 agosto 2009

C’era da fare il punto, mettere ordine nel mare di appunti che ormai riempivano parecchi quadernini che avevo l’abitudine di scarabocchiare in copertina. Ci disegnavo falciemartelli, nuvole, ci scrivevo i nomi delle città dov’era inviato, gli orari dei treni, qualche numero preso al volo e di cui, dopo qualche giorno non mi sarei ricordato il titolare. Cosa c’era di meglio se non raccontare tutto dall’inizio proprio ad Alessio e Marta.
Comprai apposta un taccuino da schizzi, da regalare al giovane disegnatore nonché mediattivista di Indymedia. Moleskine, formato A4, copertina avana. Sarebbe servito a mettere in fila orari, testimoni, notizie collaterali e cose da fare. E poi volevo fargli un regalo. Volevo che, a sua volta, mi regalasse un sorriso, volevo raccontargli tutto. Tutto cosa, se nemmeno io lo so?!
La notte, in albergo, m’era tornata in mente la storia con sua madre e s’era ripresentata pari-pari la domanda. Il dubbio aveva trovato la strada libera dopo il secondo mirto con ghiaccio e s’era acceso definitivamente con una delle mie canzoni preferite, scelte dal lettore mp3 e sparata a palla nelle cuffie nel tragitto di ritorno in albergo. Ovunque mi trovassi, sceglievo sempre di passare di fronte al Castello per tornare all’albergo. Di fronte al caffé della Borsa e a quella che immaginavo fosse stata la farmacia Barilari. I luoghi, insomma, in cui Bassani aveva ambientato il racconto della lunga notte del ’43. Sfioravo il muretto di mattoni rossi del fossato e osservavo i buchi dei proiettili di sessanta anni prima. Leggevo i nomi sulle targhe delle vittime dell’eccidio firmato da Ss e Brigate nere, scrutavo le tapparelle serrate delle finestre da cui qualcuno vide tutto ma non volle riconoscere i repubblichini, nemmeno al processo. Sarebbe accaduto anche stavolta?
Quella notte, in cuffia, c’era un brano del mio poeta prediletto, uno che sa come ti senti e lo canta, direbbe Nick Hornby. Chissà se Alessio lo conosce. Insomma, Alessio è mio figlio o no? Questo mi passava per la testa insistentemente. Aveva senso indagare? E come sarebbe cambiata la mia vita se davvero fosse mio figlio? Quando sarebbe avvenuto il concepimento? Come l’avrebbe presa il ragazzo?
Ma, soprattutto, cosa avrei raccontato a chi stava dall’altra parte degli sms che ricevevo anche a quell’ora di notte?
Giunto in camera, squillò il cellulare, mi accesi una sigaretta, mi sdraiai sul letto e risposi al messaggio sorridendo alla tastiera, alla stanza d’albergo, alla vita.

C’eravamo dati appuntamento, con Alessio, al Parchetto di Via Ippodromo dove arrivai per primo probabilmente perché Alessio e Marta avevano fatto ancora più tardi di me la notte prima. Erano stati a ballare in un centro sociale da quelle parti. Serata darkettona. Mi ero caricata la pipa cercando di rilassarmi e concentrarmi. Osservai il parchetto: meno di una cinquantina di alberi, platani in maggioranza, alti da coprire le finestre quando è la bella stagione. Com’era quando morì Federico, alla fine di settembre? Pensavo a una sera di fine estate, io e la donna del cellulare. Mi tornò in mente un’altra vecchia canzone di un cantautore che sapeva solo io.

Un cagnolino, un maltese m’è sembrato, mi riportò alla realtà. E cercai di prendere nota delle quattro file di piante, dello scivolo in fondo, verso il cancello, quello di fronte al quale era morto Federico. Contai le finestre degli alloggi di servizio del direttore dell’ippodromo, i portoncini delle casette basse di fronte, due piani tranne una di quattro di fronte al cartello “Zona del silenzio” che già avevo registrato mentalmente fin dalla prima volta che sono venuto qui accompagnato da Elisa. In pratica il parchetto è il giardino di queste casette. Qualcuno lascia impilate sotto l’albero più lontano dal cancello delle sedie di plastica per le chiacchiere serali. Ora sul muro c’è una lapide di marmo e una rosa stilizzata.
Che strada avrebbe dovuto fare Federico quella notte? Dove saranno le finestre della donna che chiamò per prima il 112? Sul muro di cinta del galoppatoio una scritta grande: “Fede ti amo”, merce rara in un quartiere quasi senza scritte. Però ha tante palestre disseminate tra le case basse, la gente ci tiene alla linea da queste parti. Su un bidone c’è uno stencil stampigliato. Dice “Verità per Aldro”. Di fianco al cancello le bandiere rosse e verdi della Contrada San Luca. Città strana, città perfetta del Rinascimento, inquinata dal Petrolchimico, terrorizzata dai migranti e dall’ombra che il Grattacielo proietta sulla stazione, distratta, troppo distratta, su questo diciottenne ammazzato mentre tornava a casa all’alba, senza commettere reati, passando per un parchettto dove al mattino ci giocano i bambini, ci pisciano i cani e, di notte, ci si infrattano le coppie più o meno clandestine.
La mano di Alessio che mi salutava da lontano mi riportò al motivo del sopralluogo.
«Il primo contatto in via Ippodromo tra Federico Aldrovandi e
la prima Volante intervenuta sul posto si può collocare tra le 5.58 e le 6.03 del 25 settembre 2005, durante quello che Viminale e Questura definiscono un “normale controllo” di polizia». Cammino avanti e indietro, in una mano i fogli, nell’altra la pipa. Ogni tanto provo a fumarla per diminuire le sigarette. Nel taschino della giacca, che ogni tanto mi tasto, l’immancabile cellulare. Alessio seduto sulla panchina del parchetto.
Attraverso i tabulati e le registrazioni di quella mattina era possibile ricostruire la sequenza degli interventi di polizia, carabinieri e 118. Ma gli orologi dei tre enti non sono sincronizzati. Ad Alessio viene in mente la scena di “Fracchia la Belva umana”, con Paolo Villaggio, Lino Banfi e certi squinternati poliziotti. Ci distraiamo a parlare di cinema. Chissà come sarebbe vedere insieme, che so, Febbre da cavallo o Amici miei. Mi sorprendo ancora con pensieri da padre. Una delle prime sere a Ferrara ci siamo anche trovati a parlare di fumetti. Se la passione fosse nel sangue allora avrei potuta trasmettergliela davvero io. Ammesso che sia davvero il padre. Ma i gusti, in quanto a letteratura disegnata, parevano distanti. Ciascuno pronunciava nomi sconosciuti all’altro.

La prima a chiamare il 112, alle 5.45 fu una donna residente in una casa all’angolo tra via Ippodromo e via Poletti: «In strada c’è uno che sta dando in escandescenze e sbatte dappertutto». Fu il carabiniere ad aggiungere che «c’è qualcuno che sbatte la testa contro i pali». E questo, probabilmente, è un dettaglio “pesante”.
«In quel momento in Questura ci sono tre pattuglie in turno: Alpha Due, Alpha Tre e Alpha Quattro. In quel momento Alpha Due si trova in via Aldighieri, dove una persona ha segnalato alcuni sconosciuti su un
balcone. Ma, alle 5.52 un agente telefona in questura per dire che in via Aldighieri non c’è più nessuno. Alpha Tre, la prima a imbattersi in Federico, sarebbe già in Questura. L’equipaggio avrebbe scambiato due chiacchiere con Alpha quattro prima di essere richiamata dalla centrale operativa per andare in via Ippodromo. Due minuti dopo, alle 5.54, la donna della Volante richiama la centrale per chiedere dove sia la persona «che sbatte la testa». Ma in quel momento, da parte di Alpha Due, tutto si limiterebbe a una semplice richiesta di informazioni. Quattro minuti dopo, alle 5.58, un altro residente di via Poletti, il signor Fogli, chiama il 113 per segnalare «un ragazzo che continua a urlare». Si sentirà rispondere che «una Volante (Alpha 3) sta già andando sul posto». Nel giro di pochissimo – tra le 5.59 e le 6.01 (tra i tabulati dei telefoni cellulari e quelli del 112 c’è uno sfasamento) – arriva in Questura una richiesta d’aiuto. Sul posto c’è già Alpha Tre e a questo punto partirebbe anche Alpha Due e, subito dopo, i carabinieri e il 118.
Nei nastri la richiesta dell’ambulanza si rintraccia a più riprese, sia via telefono che via radio, ma a differenza delle telefonate non esistono registrazioni delle chiamate via radio. Alle 6.04, questa è una telefonata importante, è registrata la conversazione tra il centralino della questura e un operatore del 118. Quest’ultimo chiede se sia meglio inviare anche un medico e il centralinista della Questura risponde di sì. «Insomma è una roba pesa», commenta l’infermiere in dialetto ferrarese. L’ultima telefonata è delle 6.12, tra questura e volante. Sono passati tra i quattordici e gli otto minuti dall’arrivo della prima Volante, e la tragedia è già avvenuta. Uno dei quattro agenti parla di «un pazzo di cento chili che ci è venuto addosso e ci ha spaccato la macchina». Aggiunge che hanno «fatto una lotta di mezz’ora e che adesso è svenuto». Il centralinista dice di aver chiamato l’ambulanza: i medici e i carabinieri troveranno Federico morto, faccia a terra e manette dietro la schiena. Poi scatterà la macchina del depistaggio. Le indagini sulla polizia verranno affidate alla polizia stessa. Il questore non è in città e la pm non arriverà mai all’ippodromo. Perché? Che cosa le è stato detto? Forse che c’era il solito drogato.
Alessio chiude il blocco. Ci guardiamo e ci incamminano verso il centro in silenzio.

Ottava parte: “Hanno arrestato un anarchico” – Liberazione, 19 agosto 2009

«Bastardo! L’hai voluto coinvolgere… Che ti sei messo in testa! Non t’è bastato quello che hai combinato te… che ancora non ti laurei e non hai mai concluso nulla nella vita?!…..».
Riconobbi, all’altro capo del telefono, la voce della madre di Alessio. Una volta l’avevo amata quella voce. E non mi sembrava vero, dopo tutti quegli anni, risentirla di nuovo incazzata. Un film già visto. Anzi, un disco rotto. Mi stropiccio gli occhi. Provo a schiarirmi la voce, allungo la mano per afferrare le sigarette sul comodino. Perché poi? «E perché a quest’ora?!!», esclamo, anzi, rantolo con tutti i granchi che trovo in gola a quell’ora per provare a farla sentire in colpa: fuori era ancora notte.
Che quella donna si potesse sentire in colpa mi sembrava difficile come quella storia del cammello e della cruna dell’ago. «Ma che cazzo vuoi – sbotto – qualsiasi reato abbia commesso dai “nostri” tempi è ormai caduto in prescrizione. Non li leggi i giornali? Sono passati vent’anni, non ce la facevi a reggerti almeno altre tre ore per questa scarica di insulti?!».
«Hanno arrestato Alessio». Quando? «Stanotte… tardi… La polizia di Ferrara… m’ha mandato un messaggino dalla questura, poi il suo telefono s’è azzittito». La notizia mi sveglia definitivamente: «Dammi il tempo di fare accertamenti, ti richiamo su questo numero». Ma alle quattro di notte chi cazzo chiamo per “fare accertamenti”.

«Non le posso dire niente, tantomeno nomi», dice la voce sgarbata del centralino della questura. Millanto: «Guardi che il questore mi conosce bene (in fondo era vero)… Una madre mi ha chiamato in lacrime… si metta una mano sulla coscienza. Lei ha figli?». Sembrò funzionare, non sarà che ‘sta storia dei “pensieri da padre” comincia a prendermi la mano? «Hanno arrestato un anarchico mentre stava facendo delle scritte sul muro». Clic.
Un’ora dopo ero sul primo treno per Ferrara. Il caso Aldrovandi non ha insegnato nulla, arrestano ancora i ragazzini per nulla, chissà cosa gli hanno fatto, pensai scoprendomi realmente in pena per Alessio. E intanto compulsavo messaggini sul cellulare. Al giornale, all’avvocato della famiglia Aldrovandi, alla mia “guida indiana”, e a qualcun’altra ancora, per avvertire che, pure stavolta, la cena romantica saltava. Mi tornarono in mente le confidenze di un paio di colleghe ferraresi che avevano scoperto il caso di un’altra persona che, nel cortile della questura, s’era riempito di lividi e sangue sbattendo a una volante, “aggredendo” una volante. Come viene detto di Federico. Gli infermieri del 118 pare abbiano riconosciuto gli agenti di quella notte all’ippodromo e si sarebbero sentiti dire che di mandare all’ospedale il ferito non se ne parlava proprio. Era un migrante, un “clandestino”. Quello che si credeva anche di Federico. Uno straniero. Un drogato. Uno dei centri sociali. Come se per stranieri e consumatori di sostanze ci fosse la sospensione di ogni garanzia democratica. Pochi giorni prima, nella vicina Sassuolo, un immigrato rachitico, mezzo nudo e ubriaco, senz’altro molesto ma assolutamente innocuo, era stato pestato da due energumeni dell’Arma. Qualcuno aveva filmato tutto con un cellulare e i due carabinieri erano stati trasferiti. Il caso era toccato a me e avevo trovato una città sconvolta. Ma sconvolta dalla partenza dei due energumeni. Migliaia di firme erano state raccolte in poche ore in solidarietà coi due militari. Tra la via Emilia e il West, il peggiore west, quello dei cappucci bianchi del Ku Klux Klan. L’emergenza sicurezza sembra l’unico collante di una società disgregata, impaurita e incapace di cogliere le ragioni profonde dell’insicurezza. I penultimi si scatenavano contro gli ultimi, mi avrebbe detto, in un’intervista, un sociologo torinese vicino ai movimenti sociali.

Maledetto treno, non arrivava mai. Non fosse che ero «aggrappato alla penna», come a Piazza Alimonda quando mi trovai di fronte al corpo di Carlo Giuliani appena ammazzato, non fosse che ero aggrappato alla penna – appunto – mi sarei messo a piangere. Lo stesso trattamento di Federico era stato riservato ad Alessio? Così si sente un padre quando scopre che il figlio non è rientrato? Magari lo avevano incastrato, gli avevano beccato il fumo, gli avevano messo qualcosa in tasca prima di perquisirlo. Mannaggia a lui, perché non è andato a casa presto! Ragionavo dunque come la madre di Alessio, come un genitore. Il caffè del treno, servito nella plastica, non aiutava.
“Preso un anarchico in Via Bologna. E’ l’autore dei graffiti contro la polizia”. Il giornale locale, preso alla stazione appena arrivato a Ferrara, aveva fatto in tempo a inserire la notizia. Puro dettato della questura: un giovane romano, studente universitario, sarebbe stato scoperto con bomboletta spray e uno stencil (la mascherina su cui si passa la vernice per lasciare sul muro una scritta o un disegno), lo stesso utilizzato per alcune scritte (“Verità per Aldro, polizia assassina”) spuntate nel quartiere nei giorni scorsi. Il quartiere è lo stesso dell’ippodromo, ma l’articolista si guarda bene dal rivangare il caso Aldrovandi. Da cosa si evinca che sia anarchico, l’articolo non lo dice ma fa cenni ai black bloc genovesi e agli anarcoinsurrezionalisti. Voli pindarici per le menti disarmate di lettori spaventati.
Con la toga in braccio, l’avvocato mi aspetta in un bar vicino al tribunale. «La situazione è molto pesa», esordisce dopo i saluti di rito. Alessio è in stato di fermo, per 48 ore non potrà vedere avvocati. Convincerò sua madre a nominare lui. Ma l’avvocato aggiunge dettagli inquietanti: lui e i colleghi che rappresentano la famiglia sono stati denunciati al consiglio dell’Ordine dal presidente del tribunale. Secondo lui è un attacco frontale. Ci potrebbe essere un collegamento con il fermo di Alessio. Strano attivismo di fronte alla sostanziale immobilità delle indagini sul caso Aldrovandi.
La nebbia avvolge la città, l’umidità entra nelle ossa. Stretto nell’impermeabile cammino fumando senza togliere le mani di tasca. Squilla il telefonino. E’ un messaggio, sorrido e rispondo. Risquilla con un’altra suoneria pochi minuti dopo. Non sorrido più: «Bastardo, hai parlato con l’avvocato?», chiedeva la madre di Alessio. “L’inchiesta su Aldro dà fastidio. Attacco ai legali e al comitato”, avrebbe titolato il giorno appresso il mio giornale. Alessio era da qualche parte in guardina. Speriamo lo trattino bene, pensavo, mentre pestavo i tasti del computer portatile. Telefono in redazione per avvertire che ho spedito tutto. «Guarda che t’ha cercato un carabiniere», mi disse una delle segretarie. Chiamo la collega dell’altra testata nazionale che seguiva il caso. Mi sento dire proprio quello che mi aspettavo: «Siamo stati querelati per vilipendio della magistratura. Domani vengo e ti faccio vedere il foglio che m’hanno dato». Correggere il titolo: “Attacco a stampa, legali e comitato”.

Nona parte: “Ma come funziona il potere in una città come questa?” – Liberazione, 20 agosto 2009

«In questura non si parla d’altro che del caso Aldrovandi, sembrano piuttosto irritati che la faccenda sia venuta a galla», raccontava Alessio circondato dai ragazzi del comitato seduti ai tavoli all’aperto del caffè sotto il Castello. Lo avevano aspettato a pochi metri dalla sede della polizia, con uno striscione, “Alessio libero, verità per Aldro”, distribuendo volantini ai passanti. Poi erano andati a festeggiare insieme. Più in là, la madre si faceva spiegare per filo e per segno la faccenda dall’avvocato. 48 ore in guardina per il semplice sospetto che fosse lui l’autore delle scritte sui muri intorno all’Ippodromo. Alessio dice che lo stencil l’avrebbero trovato in terra più o meno quando passava lui. Magari se l’erano portati da casa. Il tempismo con cui s’erano succeduti il suo arresto, gli esposti dei legali all’Ordine e le querele ai giornalisti lasciava pensare a una manovra a tenaglia per far calare di nuovo il silenzio sulla storia. Denunciati proprio tutti, perfino quelli dei fogli locali restati muti per cento giorni e poi attivissimi soprattutto nell’assecondare un processo allo stile di vita, presunto, di Aldro o nei tentativi di demolire il comitato e chi conduceva la controinchiesta. Uno di questi quotidiani farà un’editoriale contro il mio giornale colpevole di aver parlato del declino della polizia democratica, concetto per loro obsoleto. Per tutto questo i ragazzi del comitato, quelli che ogni mercoledì pomeriggio avevano preso a presidiare la piazza della Cattedrale, avevano deciso di dare una risposta immediata, con il volantinaggio sotto la questura, senza aspettare mercoledì.

Apparentemente, sembrava che non ascoltassi i discorsi dei ragazzi, né quelli tra la madre di Alessio e il legale, lo stesso della famiglia Aldrovandi. Pigiavo, manco a dirlo, sui tasti del telefonino, stavolta senza sorridere quando arrivavano i messaggini di risposta. Qualcosa andava storto e mi si leggeva in faccia. La madre di Alessio non stava nella pelle dalla curiosità ora che poteva rilassarsi sul fronte figlio. Aveva già visto quel ghigno di dolore addosso a me tanti anni prima. Era una pena d’amore. Ma io non mi sbottonavo, riposto il cellulare nella tasca della giacca, riaprivo il taccuino e ricominciavo a prendere appunti appresso al racconto di Alessio. Diceva che lo avevano portato dentro con le brutte, che lo avevano minacciato di fargli passare un guaio, che gli avrebbero dato il foglio di via, a lui e a tutti gli «anarchici del cazzo come lui», che avevano le prove, che i reati erano gravissimi, che era meglio collaborare. Tanto avrebbero scoperto, con l’autopsia «praticamente già scritta» che Federico era un drogato e che a finire sotto processo sarebbero stati i soliti comunisti, i giornalisti e il legale. Bingo! Avevamo visto giusto a sottolineare che, mentre gli interrogatori dei testimoni procedevano con una lentezza esasperante – e che di perizia autoptica, a sette mesi dai fatti, nemmeno l’ombra – la tenaglia della repressione era ben oliata e procedeva spedita. Alessio si sarebbe ritrovato con la barba di tre giorni, una denuncia in tasca per danneggiamenti e affissione abusiva. E l’impressione che fosse un ginepraio complicatissimo, che una macchina di potere si fosse messa in moto per zittire i testimoni possibili (a questo sembrava servire il primo giro degli agenti nelle case dei dirimpettai dell’ippodromo), distrarre i giornali con una versione ufficiale che non stava in piedi e che veniva ripetutamente rettificata e subito smentita da frammenti di verità emersi dalla faticosa controinchiesta della famiglia. Sembrava che fossero scattati, come meccanismi ben oliati, malintesi sensi di lealtà di corpo, di appartenze familiari o di casta. L’unica donna a bordo delle volanti quella notte è legata sentimentalmente al capo della polizia giudiziaria che, a sua volta, è molto amico, per motivi di famiglia, dei vertici del tribunale. La polizia indaga sulla polizia. «Chi l’ha deciso?», dice Alessio pensando a voce alta. «E come funziona il potere in una città come questa?». «Come?», gli ribatto. Se il mistero più grande restava la spiegazione dell’impatto tra la prima volante e Federico, non meno oscuro era il legame di potere che tentava di coprire l’epilogo dei fatti di Via Ippodromo. Intanto, in Procura, gli interrogatori sembravano un fiasco. Gente che s’era presentata spontaneamente alla famiglia ritrattava o scoloriva parecchio la versione finale. «Sembra che vengano istruiti da qualcuno prima di essere interrogati dalla pm», dico a tavola con i giornalisti forestieri che seguivano il caso, Cinzia e l’inviato di “Chi l’ha visto?” al cui centralino erano arrivate diverse chiamate da Ferrara. Qualcuno incoraggiava la trasmissione ad andare avanti, un altro aveva detto di «aver visto tutto ma di non poter dire nulla». L’inviato era sulle sue tracce. Quest’uomo, un settantenne residente in provincia, dirà di aver visto tutto, soprattutto che le urla di Federico iniziarono dopo l’incontro con la prima volante non a causa di essa. Ma il settantenne, registrato dal centralino della tv, non vorrà più parlare perché dovrebbe ammettere che quella notte s’era appartato all’ippodromo con un altro uomo. Messo alle strette dirà di aver voluto fare uno scherzo ma i particolari forniti sembravano verosimili.

Prendo il taccuino su cui avevamo fatto il punto, tracciato mappe e orari. Scrivo una domanda: quand’è arrivata realmente la prima volante al parchetto? Ricordo che alcuni testimoni riferirono che Federico se la prendeva con lo Stato. Con lo Stato o con la Polizia? Altra domanda.
Quella sera mangiammo con la madre di Alessio in un ristorante carino del centro. Non accadeva da vent’anni. Ma le mura antiche erano troppo spesse e il cellulare non prendeva. Così, fui garbato e sbrigativo. In altri tempi avrei discusso con quella donna, avrei perfino litigato volentieri senza il dolore per l’amore andato a male, ma avevo fretta di riimmergermi nella nebbia per raggiungere l’albergo. Sfilai il cellulare dalla tasca del trench, una volta fuori, e il display, a ogni messaggio, squarciava il buio illuminandosi e squarciava il silenzio con quella suoneria presa da una canzone di Gino Paoli, La Gatta . Risuonò decine di volte fin quasi all’alba.

Decima parte: “Colpo di scena. La pm si dimette!” – Liberazione, 21 agosto 2009

«E adesso dovete scrivere che la polizia non c’entra con la morte di Aldro!». Dall’altro capo del filo, un pezzo grosso del Viminale. Sembrava abituato a dare ordini ai giornalisti ad alcuni dei quali aveva spedito un estratto della perizia autoptica. Cinzia, come d’abitudine, lesse e rilesse più volte le quattro paginette spedite, così risultava dai timbri del fax, da Ferrara a Roma e, da qui, ad alcune selezionate redazioni.
Si consultò con avvocati fidati, telefonò a me, rintracciò i periti e altri medici. Poi sbottò contro il linguaggio obliquo e scivoloso delle perizie medico-legali. Però, a dire il vero, non le sembrava che ci fosse scritto quello che asseriva il Viminale. Tutt’altro: i medici interpellati consigliavano di leggersi meglio le carte. La perizia dei consulenti del pm enfatizzava il ruolo delle droghe ma ammetteva le manganellate a «elevata energia meccanica». E una frase in particolare spiegava che, sì, Federico era morto perché aveva un fabbisogno d’ossigeno abnorme a causa delle sostanze consumate. Ma la situazione è stata fatta precipitare dalle conseguenze dell’incontro con i quattro agenti. «Questa precaria condizione cardiaca si sommava agli eventi stressogeni a franca impronta emotiva e fisica che si instauravano in occasione del successivo intervento delle forze dell’ordine». Se non avesse incontrato le volanti sarebbe ancora vivo. Naturalmente, non mancarono giornali che obbedirono al pezzo grosso. E spararono titoli sugli agenti finalmente scagionati, sull’imminente archiviazione.

La perizia dei consulenti nominati dalla famiglia, invece, provava a dimostrare che Federico fosse morto per asfissia posturale, schiacciato dai quattro agenti. Esiste una letteratura frequentissima di casi del genere, tutti avvenuti in prigioni e manicomi. Specialità dell’amministrazione carceraria Usa, soprattutto. Tanto che oltreoceano si sarebbero inventati una sindrome ad hoc per giustificare i decessi di pazienti ammanettati. Anche a Ferrara si parlerà di “morte improvvisa da aritmie ipercinetiche” nel corso di “excite syndrome delirium”. La causa del decesso clinico sarebbe, in altre parole, la mancanza di ossigeno dovuta alla “forte eccitazione personale amplificata dalle droghe”. In altre parole, secondo i poliziotti, per bocca di chi li difende, Federico era un «toro incontenibile» sarebbe morto anche se non si fosse imbattuto nelle due volanti. Ma a chi vide le fasi di quel misterioso incontro non sembrò per nulla toro e tantomeno incontenibile.
Candidamente come solo lui sa fare, il ministro Vecchiardi – berlusconiano, il cui fratello gemello gestisce il costosissimo lager per migranti in Emilia in cui sarebbe stato rinchiuso il disgraziato marocchino di Sassuolo – risponde in quegli stessi giorni a un’interrogazione parlamentare dubbiosa sulla versione ufficiale, ripetendo con cantilena urticante la versione ufficiale fornita dalla Questura ma senza accorgersi di rivelare un particolare chiave: la notte che Federico fu vittima di quel violentissimo “controllo di polizia” due manganelli tornarono spezzati al quartier generale di via Ercole I d’Este, il viale che conduce alla Certosa passando davanti al Palazzo dei Diamanti. Il ministro non provò neppure ad abbozzare un’ipotesi sul perché nessuno adoperò un defibrillatore, a bordo di una delle due volanti, per rianimare un diciottenne che chiedeva aiuto dicendo di non farcela a respirare, di smetterla con quel trattamento. Alessio, nel suo giro di investigazioni, aveva sentito frasi precise riferite da un ragazzino camerunense che abitava con la madre proprio di fronte al cancello dell’Ippodromo. Aveva subito chiamato me, che ero dovuto tornare a Roma, per confrontarsi su alcune ipotesi. S’era spulciato le carte dell’inchiesta, fotocopiate di nascosto e aveva trovato che, quella mattina del 25 settembre, nel parchetto dell’ippodromo era stato trovato un motorino rubato. Possibile che l’Aldro, ormai lo chiamava così pure lui, fosse stato torchiato perché trovato troppo vicino a quello scooter? «Bisognerebbe parlare con l’avvocato», suggerii. «Ma tu non ti esporre, sii prudente, ti tengono d’occhio». Riattaccai e sentii una stretta allo stomaco diversa dalle altre. Di nuovo quella sensazione di preoccupazione e quella voglia di proteggere quel ragazzo, di metterlo al riparo. «Cazzo, dovrò prendere di petto la madre per sapere se davvero sono il padre». Sulla mia scrivania una copia del giornale. In prima una grande foto di Federico in una pozza di sangue: «Guardate come hanno ridotto mio figlio: che c’entra la droga?», diceva il titolone scelto dal direttore.

Il colpo di scena arrivò il giorno appresso, ancora una volta con la voce di Alessio, eccitato: «Se ne va la pm! S’è dimessa!». «E’ una notizia buona o cattiva?». «Pare che si sia dovuta dimettere. Lei dice ragioni di famiglia, altri dicono che forse, un suo familiare sia incappato in una storia di droga intrecciata con l’inchiesta di Aldro». Le voci volano a Ferrara. Ma possono anche raccontare fesserie. Magari la pm è stata depistata proprio quella mattina di settembre. Magari le hanno detto che era il solito drogato, il solito ragazzo di don Bedin, il prete di Viale K. Quello che fa perfino dormire gli immigrati in chiesa.
Insomma, cambia il pubblico ministero a quasi sei mesi dai fatti. Che cosa accadrà all’inchiesta? Ce la farà una famigliola normale, padre vigile, madre impiegata, a resistere alle pressioni di una procura e di una questura, all’indifferenza di buona parte della città e, con l’eccezione dei «soliti comunisti», della politica? D’altra parte, solo un paio d’anni prima del violentissimo controllo di polizia all’Ippodromo, un giudice genovese ha archiviato come legittima difesa l’omicidio di un ventitreenne che aveva provato, sollevando un estintore, a difendersi da una pistola puntata da un carabiniere a bordo di un Defender nel corso di scontri violentissimi innescati senza ragione da carabinieri (alcuni dei quali con armi improprie come spranghe di ferro truccate da manganelli) contro un corteo regolarmente autorizzato e sostanzialmente pacifico che contestava il G8. Un filmato a disposizione di quel giudice mostra senza dubbio che la pistola spunta prima dell’estintore. Ma per la toga nera, nerissima, l’offeso sarebbe stato il carabiniere killer. Così pensava Alessio, tornato per la centesima volta sulla panchina del parchetto dell’ippodromo che è diventata praticamente il suo studio all’aperto. L’inverno è stato inquietantemente mite a Ferrara. Con lo stesso pensiero in testa, io mi torturavo le dita a bordo di un aereo diretto a Cagliari. Non mi piacciono i minuti che precedono il decollo. Un tempo che pare eterno e che, perdipiù, sono costretto a passare col cellulare spento. Tirai fuori le carte dell’inchiesta e le rilessi. Un’ora dopo, a Cagliari, avrei sciolto, forse definitivamente, l’angoscia che mi strizzava lo stomaco da giorni. A cercare il ragazzino del Camerun ci avrebbe pensato Alessio.

Undicesima parte: “Adesso ti aiuto io” – Liberazione, 22 agosto 2009

Palazzoni, vialoni, mercatoni. La periferia di Ferrara è piatta e ordinata, questo bisogna riconoscerlo. Ordinata. Anche la chiesa di viale Krasnodar è pulita, ordinata. Nei giardini ci sono alcuni stranieri, maschi soprattutto, qualcuno male in arnese. Nulla in confronto a certe aiuole romane, alle baraccopoli sotto i cavalcavia delle tangenziali di altre città. Quella gente, alcuni hanno il tascapane sempre indosso, si capisce che dorme per strada, è lì per chiedere un aiuto al prete, don Bedin, ma per Ferrara è già un mezzo scandalo, catalizzatore di paure, come il grattacielo che ti accoglie alla stazione. Venticinque piani di finestre e parabole tv affittati quasi tutti a stranieri. Sotto ci sono un bar, un circolo Arci e un paio di chiese evangeliche. Corridoi puliti, o quasi, nessuna scritta sul muro, né porte sfondate o cocci di bottiglia o segni e puzza di pisciate. Quello dove polizia, carabinieri e vigili, in massa, hanno scovato un sanspapier spedito subito al Cpt, il suo coltellino svizzero, due patenti scadute.
Alessio ha camminato dal centro fino alla chiesa di Viale K rimuginando sulle testimonianze indirette. Ossia su frasi riferite da terze persone. Frasi precise. Come quelle di un ragazzo, si firmava Simone ma non era il suo vero nome, che ha contattato il blog di Patrizia. Aveva detto che sua madre aveva visto qualcosa e gliela aveva riferita la domenica mattina. Avrebbe sentito un ragazzo chiedere aiuto, dire che si sentiva soffocare. Una tabaccaia aveva riferito che una sua cliente, residente in Via Ippodromo, le aveva confidato di aver sentito i rantoli di un ragazzo che chiedeva aiuto. «Adesso ti aiuto io!», gli era sto risposto. Poi la voce dell’unica donna poliziotto presente: «Che cosa hai fatto, ma quando arrivano i colleghi?».
Patrizia e Alessio erano andati subito a trovare la donna, la madre di Simone. Patrizia Aldrovandi lo aveva tirato per il braccio. «Andiamo a suonare ai citofoni di quella strada». Alessio era andato per non lasciare sola la mamma di Federico. Avrebbe voluto prendere appunti per riferirli a me o divulgarli su Indymedia ma trovò che non era il caso di essere scambiato per un giornalista e complicare la vita a Patrizia. «Sono la mamma di quel ragazzo morto qua sotto», rispondeva ai citofoni la mamma di Aldrovandi. Ma le persone interpellate si sfilavano. O con lei, o con la pm quando venivano convocate in procura. Poi ci fu la donna di 95 anni che chiamò i carabinieri. «Ho pianto tanto, volevo andare a coprirlo io quel corpo. Ma avevo paura che mi arrestassero». Disse di aver visto 4 o 5 agenti trattenere un ragazzo che urlava e scalciava, cercando di bloccargli gambe o braccia. Non seppe dire se Federico scalciasse per difendersi o per aggredire, come sostiene la questura.
«Quel ragazzo era un pippa nei calci, rigido come un cipresso. Al massimo con un calcio arriva all’addome…». Anche l’istruttore di karate di Federico non lasciava spazi alla fantasia poliziesca che lo descriveva toro incontenibile. «Dunque – ricapitolò Alessio – la perizia tossicologica ha detto che c’erano lievi tracce, e vecchie, di oppiacei. Alcol così poco da poter guidare. E un po’ di ketamina». E poi l’inviato di Chi l’ha visto era andato da un famoso professore di Padova a mostrargli quella perizia senza dirgli di chi fosse. «Con queste robe in corpo questo ragazzo dormiva», s’era sentito dire Dean e l’aveva raccontato una sera a me e ad Alessio, prima di mandare in onda un servizio. Ora la rivelazione di Massimo, il maestro di karate, spazzava via l’ipotesi di un Federico infuriato che avesse aggredito, una dopo l’altra, le due volanti. Una macchina dei carabinieri che svoltò a pochi metri da lui lo fece sobbalzare. Ebbe la tentazione di nascondersi ma le gambe restarono rigide. Non erano state piacevoli tutte quelle ore in guardina, con gli agenti che lo schernivano, che gli dicevano che lo avrebbero sbattuto dentro e buttato le chiavi, che sapevano tutto e che gli conveniva confessare. Si ripropose di leggere bene il verbale prima di firmarlo. Agli amici di Federico era capitato di trovare cose che non avevano mai pronunciato. E, quando se n’erano accorti erano stati perfino denunciati. Ma non era stato picchiato, quello no, non gli era stato riservato il trattamento di quelli della Diaz e di Bolzaneto che aveva conosciuto a Genova. A pensarci bene, differenze tra le due storiacce ce n’erano. Se lì era stata una classica operazione di repressione, qui sembrava un caso di malapolizia. Quattro agenti che la fanno grossa e un sistema che si mette in azione per coprirli.
Don Bedin lo fece entrare nel retro della chiesa, costruzione anni 70 senza alcun pregio architettonico. Ascoltò la richiesta del giovane studente-disegnatore (che da un po’ non studiava e disegnava pochissimo). Poi disse di non sapere granché di quel ragazzino del Camerun che avrebbe visto gli agenti sopra Federico, uno in particolare che gli teneva un manganello sotto la gola, un ginocchio sulla schiena e con l’altra mano gli tirava i capelli. Federico chiedeva di smetterla, che non ce la faceva più a respirare. Don Bedin disse che il ragazzino era un adolescente un po’ irruento, che aveva spaccato a pallonate, giocando, una vetrina. E per questo la madre lo aveva rimandato a studiare in Camerun.
Studiare in Camerun? Si domandava Alessio, Va bene i disastri di Berlinguer e della Moratti ma adddirittura che sia meglio fare le superiori in Camerun! Quella scarpinata in estrema periferia pareva essere stata un buco nell’acqua. Ne parlò con i ragazzi del comitato, coi legali, e mi mandò un sms.
Alessio aspettò l’autobus mezzo vuoto che lo portava a partecipare a un’assemblea organizzata dal comitato Verità e giustizia nel liceo classico di Ferrara. Nel pomeriggio c’era un incontro con gli ultrà della squadra di basket che volevano fare uno striscione. Qualcosa si muoveva.
«Il ragazzino non si trova. Fatti sentire, Alessio». Lessi il messaggio ad alta voce e tornai a fissare la donna di fronte a me nel caffè Mediterraneo di Cagliari. «E’ lui il ragazzo di cui mi parlavi? Quando pensi di parlarne con sua madre? Sei ancora un po’ innamorato di lei?».
Non risposi, pagai il conto e ci separammo per rivederci a cena. L’idea era di andare a Calamosca ma la distanza tra lei e me era molto maggiore di quella tra l’Isola e il continente. Raggiunsi di corsa l’albergo e feci in tempo a cambiare il biglietto di ritorno e volare a Roma mentre imbruniva sugli stagni che separano la città da Quartu S.Elena. Decisi di non dare spiegazioni di sorta, di non rispondere alle telefonate. Ma questo non lo saprà mai visto che non ha mai più telefonato.
Stavolta non ero io che fuggivo, come mi ripeteva sempre la psicoterapeuta. «Lei ha un tenue desiderio di supporto – diceva – legato a un insopprimibile bisogno di libertà». Era dunque questo che mi faceva sentire incastrato in un rapporto di coppia al punto da farmi ammutolire fino a tagliare la corda? Quando li vedevo insieme osservavo con una punta di tenerezza – e senza alcuna morbosità – Alessio e Marta. Avrei voluto essere come loro. La dottoressa mi diceva che non ero tagliato. Decisi di scappare anche dalla psicoterapia. Chiesi alla strizzacervelli di rimandare il prossimo appuntamento di alcune settimane, ma forse sapevo già che non ci sarei più tornato.
In fondo al taccuino, quello degli appunti sul caso Aldrovandi, avevo ricopiato un detto popolare che, da ragazzo non mi lasciava dormire e ora speravo con tutto il cuore che mi consentisse di ricominciare a dormire: «L’amore fa passare il tempo, il tempo fa passare l’amore».

Dodicesima parte: “Asfissiato dalla droga o dalle botte?” – Liberazione, 23 agosto 2009

La notizia è in un riquadro piccolino del giornale. Alessio quasi non ci fa caso mentre addenta il cornetto. Poi torna indietro sfogliando il giornale a ritroso: “La pm molla il caso Aldrovandi”. E più in grande: “Aldro: si indaga per omicidio”. I nomi dei quattro agenti sono iscritti nel registro degli indagati. Ci sono un nuovo pm e un nuovo perito. Alessio paga il conto e cerca il mio numero nella rubrica del telefonino.
E’ un po’ che non sente quello strano adulto. Gli amici di sua madre sono così diversi da lui. Gente “seria” e seriosa, sposata, alle prese con figli, seconde case, macchine, vestiti da “grandi”. Si chiede come facesse sua madre a frequentare un ragazzo senza nemmeno la macchina, con lo zaino pieno di libri e fumetti e giornali ritagliati, senza orari, col frigo sempre vuoto e che fuma ovunque, anche in camera d’albergo. Se davvero erano stati insieme, pensava, uno dei due se l’era vista brutta. «O mia madre era più tollerante, o costui era un servo della gleba». Pensò alla canzone di Elio e le storie tese mentre sfogliava mentalmente le informazioni acquisite dalla sporadica frequentazione di quello strano animale di giornalista. I suoi colleghi sembravano indossare una divisa simile a quella degli avvocati, dei commercialisti, con piccole varianti, pur tuttavia una divisa che tradiva un’appartenenza sociale precisa, una promiscuità con le stanze del potere. Quello, invece, andava in giro con la giacca blu degli operai dell’Acea, con vecchie camicie militari, con magliette e giubbotti col fregio di Corto Maltese. Chi era davvero? Perché ci pensava così spesso?
Decisamente, però, di quell’uomo sentiva che poteva fidarsi. «Ciao, ho saputo anch’io del colpo di scena. Del nuovo pubblico ministero si dice un gran bene, sembra che sia una persona seria, con un passato all’Antimafia. L’altra pm non s’è presentata sul luogo del delitto e non si capisce perché: o l’hanno informata male, hanno iniziato a depistare lei per prima, e dopo s’è trovata incastrata. Oppure è consapevole di quello che stava accadendo e fa parte della catena di comando di questa storia. Quello che preoccupa gli avvocati, invece, è il nuovo perito, un boss della medicina legale indigeno, incappato in alcune vicende di malasanità. Intanto registriamo che la richiesta di archiviazione, possibile solo se esistono nomi sul registro degli indagati, non è stata formulata. Possibile che sia un buon segno». Sul mio taccuino alcune frecce tracciate dal pennarello indicavano una domanda scritta in stampatello: “Asfissiato dalla droga o dalle botte?”. Il punto su cui si sarebbero scontrati i periti era quello. Se Aldro non avesse incontrato gli agenti sarebbe ancora vivo? La polizia insisterà sulla droga: se non l’avete trovata è perché non l’avete cercata.
Alessio riattaccò e chiamò Patrizia. Sentiva di volere bene a quella donna, a suo marito Lino, a suo figlio. Gli facevano tenerezza e li ammirava per la forza che dimostravano resistendo in una città che li guardava con un misto di compassione e indifferenza. Che mal sopportava la loro ostinazione. Che si chiedeva sempre, alle loro spalle, cosa stesse combinando in fondo Federico, perché tornasse a casa a quell’ora dell’alba, anziché chiedersi perché mai questura e procura mescolassero così le carte, cambiassero ripetutamente versione. Patrizia sembrava ottimista sul futuro dell’inchiesta. A volte si domandavano, Alessio e i ragazzi del comitato, cosa sarebbe accaduto, alla fine della fiera, quando la famiglia si sarebbe resa conto che Federico non sarebbe tornato anche in caso di condanna dei quattro delle volanti. Ne parlavano ogni tanto, e parlavano spesso anche dei punti oscuri della vicenda. Di quella prima fase della colluttazione di cui non si sa nulla: Federico iniziò a strillare prima o dopo l’arrivo della prima volante? E perché, subito dopo aver salutato i suoi amici, aveva provato a fare nove chiamate in otto minuti? Che cosa aveva visto? Naturalmente c’erano ipotesi più blande e, forse, proprio per questo ancora più agghiaccianti: Alessio, ogni tanto, pensava a Federico un po’ intronato dal sonno quella mattina, che magari s’era voluto svegliare con un kata, quella danza solitaria con cui chi fa karate si stira i muscoli e si schiarisce la gola. E chissà che deve aver pensato quella “brava” cittadina che ha chiamato il 113. Magari amava l’alba Federico. «Ma l’alba quella volta non lo ha ricambiato». Dice ad alta voce Alessio richiamando lo sguardo stupito di Marta sul suo viso stralunato di bradipo. Sul tavolo da lavoro giacevano vignette da completare. E schizzi del cancello dell’ippodromo, di Federico, angelo in kimono…
Da un’altra parte di Roma, io ero appeso al telefonino. Elisa, la mia guida indiana, raccontava le attività del comitato e il clima di Ferrara all’indomani della rinuncia della prima pm: «Non so quanto sia vero, ma si dice che la polizia la teneva in pugno per una vicenda che coinvolge qualcuno della sua famiglia. Lei, ufficialmente, ha detto che andava via per motivi familiari, perché un suo avo era un tutore dell’ordine, che non se la sentiva e bla-bla-bla».
Un altro mistero in una storia che ha troppi punti da chiarire. Sopra tutti questi punti la decisione di affidare alla polizia le indagini su se stessa in una città dove tutti conoscono tutti e i legami di parentela sembrano il primo livello di una rete di potere. Il capo della polizia giudiziaria è il marito dell’unica donna a bordo delle volanti quella notte, il procuratore generale (quello che ha messo sotto inchiesta gli avvocati degli Aldrovandi) è il suo testimone al suo primo matrimonio, il procuratore capo era legatissimo a suo padre, questore e procuratore – si dice – sarebbero massoni ma di logge differenti. Il questore – si dice anche questo – avrebbe giurato di farla pagare al sindaco che, alla festa dei vigili urbani, s’era scandalizzato per la morte di un diciottenne. Chiacchiere di provincia, forse. Forse no. Alessio e Marta erano rimasti turbati dal dvd che gli avevo regalato. Un vecchio film in bianco e nero di Pietro Germi. “Signore e signori”. Il film mostrava come l’estabilishment di una città di provincia del Nordest riusciva a insabbiare lo scandalo di una giovane contadina messa incinta da un ricco commerciante attivando politica, chiesa, Arma e stampa. «Ferrara può essere così simile a Treviso di quarant’anni prima?», si domanda Alessio. Guarda Marta negli occhi, ne è proprio innamorato, e le suggerisce di partire per Ferrara il giorno successivo. Come ogni 25 del mese c’è un’iniziativa per Federico. Per i sei mesi i ragazzi del comitato hanno organizzato un concerto e una mostra di disegni. Sarà l’occasione per capire se esiste e come funziona il Potere.
Nel Paese, intanto, cresceva la speranza per le elezioni politiche imminenti. Chi sarebbe succeduto a Berlusconi avrebbe potuto ritirare i soldati dai teatri della guerra di Bush, invertire la crescità della precarietà, fermare il razzismo, rilanciare la scuola pubblica. Nel programma dei “buoni” c’era anche scritto che si sarebbe fatta una vera inchiesta parlamentare sui fatti di Genova 2001. «Ma tu ci credi davvero?», mi disse Alessio, saccente.

Tredicesima parte: “Una cortina fumogena, come la nebbia di Ferrara” – Liberazione, 25 agosto 2009

Orecchino, capelli bianchissimi, pizzo alla Ho Chi Min, il leader vietcong che Alessio aveva visto nei filmati sul ’68. Gigi sembrava avere una vera idiosincrasia per la nebbia, famosa, di Ferrara. Gli sembrava la metafora di quello che era sempre accaduto in quella città. Era, a sentire lui, una cortina fumogena che impediva di rendersi di conto di chi davvero tirasse i fili di affari e malaffari all’ombra del Castello Estense. In attesa di Gigi, Marta e Alessio, s’erano divertiti a gettare molliche alle carpe che abitano il fossato del Castello. «Prigioniere politiche», le chiamò Marta vedendole affiorare con certe bocche mostruose e voraci, ma innocue visto che sono vegetariane, richiamate dalle esche di pane. «Prigioniere politiche – ribatté Alessio – ma almeno sottratte all’agonismo crudele dei pescatori per sport, quelli che si fanno fotografare con le carpe tra le braccia per trofei che finiscono sui focolari domestici o sulle pareti di trattorie tipiche prima di finire sfumata bionda, farcita con i funghi, per gli eroi dei laghetti di pesca sportiva».
Davanti a un succo di frutta, “Ho Chi Min” li aveva incantati con i suoi racconti di lotte sindacali e studentesche degli anni ’70, la provincia era piena di fabbriche e la combattiva Bologna è a due passi. Alessio s’era sentito un po’ ingenuo quando aveva formulato la domanda ma erano settimane che gli rimbalzava nella testa, oggetto di discussioni serali con Marta e con i compagni del comitato: «Ma com’è che funziona il Potere in una città come questa?». «E’ come un grande occhio – rispose Gigi – un grande occhio che regola le dinamiche tra le imprese e tra queste e la politica». «Massoneria?», domandò Marta. «La sua percezione è fortissima», riprese Gigi, «forse, alcuni dei personaggi della nostra vicenda sono massoni, forse sono di logge antagoniste». Dietro l’apparenza di città operosa e ordinata governata, da decenni dal Pci e dai suoi eredi, città dell’Emilia Rossa nata dalla Resistenza, Ferrara è ormai assediata dai centri commerciali sorti su fabbriche dismesse, impaurita ad arte, invecchiata più di quanto lo stuolo di fuorisede non faccia balzare agli occhi, Ferrara ha armadi capaci di molteplici scheletri. Alessio e Marta scoprirono che nel tribunale di Ferrara, le questioni importanti marciano lentissime, si arenano, scompaiono alla vista e alla memoria, restano confinate sulle pagine locali raccontate in linguaggi cifrati, sovente. Un esempio tra tanti, l’inchiesta sui morti da Cvm alla Solvay, ancora aperta sebbene l’azienda abbia chiuso nell’82. Operai costretti ad “andar per manig”, lavorare i manicotti in una nuvola di polvere come borotalco che li imbiancava come fantasmi e veniva spruzzata sulle case del Barco e sulla scuola. I pesci morivano subito, i cristiani se ne sarebbero accorti dopo degli effetti sul fegato, soprattutto, di questo gas dolciastro incolore usato per l’altrettanto velenoso Pvc, la plastica delle bottigliette. Del Petrolchimico avevano letto sull’archivio di Report.
«La prima rete di potere sono i rapporti di parentela», venne spiegato ai due ragazzi. E quei legami erano evidentissimi nel caso Aldrovandi, e non solo perché l’unica poliziotta imputata è la convivente del capo della polizia giudiziaria. Alessio e Marta vennero a sapere che a Ferrara avevano base un ex ministro socialdemocratico (della sigla Psdi non avevano mai sentito parlare, ignoravano quanto fosse stata influente fino a Tangentopoli) e il braccio destro di Andreotti che a sua volta aveva stretto un patto con settori dell’allora Pci. La loro cordata s’era data da fare nel coinvolgere una grossa coop, che sarebbe poi fallita con un crac oggetto anch’esso di inchiesta, in appalti per grandi opere in odor di mafia nel Mezzogiorno e in ecomostri o grandi incompiute nel ferrarese: il Palazzo degli Specchi vuoto da vent’anni (ce n’è uno identico anche nel frusinate feudo andreottiano) che vede soci uno dei cavalieri del lavoro di Catania (pura mafia al 100%), la coop e un ex sindaco Pci estense piuttosto longevo; poi c’è l’ospedale di Cona – cantiere infinito, dal 1990, su un terreno inadatto a sostenerlo – con nomi che ricorrono fino al nuovo discutibile palasport che sarà costruito con soldi sottratti al bilancio per la cultura. In una delle inchieste sui legami tra affari e politica figurano nomi di vertice in questura. «E perché l’attuale sindaco sembra smarcarsi da quel blocco che s’è schierato a protezione dei quattro agenti?», domandò Alessio. «Forse il sindaco tenta di spezzare la commistione tra politica e affari», ipotizzò Gigi coi ragazzi. Fatto sta che dopo il primo mandato non si ricandiderà. Forse ne ha avuto abbastanza anche lui. Forse quella festa guastata da una frase semplice: «Mai più diciottenni che muoiono di morte violenta».
Poi Gigi domandò ad Alessio notizie di me. In effetti, non mi facevo sentire da un pezzo. Scrivevo da Roma, ero un po’ dimagrito, così gli era sembrato, chissà se aveva ragione sua madre a dire che fossero sintomi da innamoramento infelice. Chissà perché mi pensava spesso. Crescendo aveva imparato a non chiedere più a sua madre dove fosse e chi fosse suo papà. Tra sé e sé diceva che stava solo rimandando l’occasione di risolvere la questione, di metterla con le spalle al muro. Ma certe volte sua madre era un muro di silenzio. E non gli piaceva. Da piccolo gli diceva che il papà era un famoso pilota, che guidava gli aeroplani e prima o poi sarebbe atterrato per salutarli. Poi, quando la cazzata non reggeva più – Alessio sarebbe andato al liceo pochi mesi dopo – gli disse che s’erano amati con suo padre ma poi avevano troppe differenze di carattere e di aspettative e s’erano lasciati. Sarebbero stati, restando insieme, l’uno causa di infelicità per l’altro. Precisò che quel giorno nessuno sapeva che lei fosse incinta.
Alessio fece il numero, voleva raccontare a qualcuno l’incontro con “Ho Chi Min”: «Pronto? Ciao, come va?»
Dall’altra parte del doppino telefonico, io avrei voluto dire che andava malissimo, che erano settimane che non dormivo bene e che mangiavo poco. Che non trovavo piacere in nulla e mi sottraevo alla vista di quasi tutti gli amici. Ma non gli dissi nulla. Ero contento di risentirlo e di saperlo così appassionato alla contro-inchiesta. Stabilimmo che mi avrebbe spedito un disegno della mappa dei poteri di Ferrara. Battibeccammo un po’ sull’opportunità di recarsi a votare, di lì a pochi giorni. Lui proprio non ne voleva sapere. Di Prodi che aveva svenduto l’Alfa alla Fiat e smantellato l’industria pubblica. E aveva guidato il disastroso governo di dieci anni prima che aveva varato il pacchetto Treu e altre schifezze come la Turco-Napolitano. «E’ lui che ha inventato la precarietà e i lager per gli stranieri». Oppure di quel Di Pietro che, da pm di Mani pulite s’era tramutato in alfiere delle grandi opere. E Mastella, Rutelli, Amato, D’Alema che aveva condotto l’Italia nella guerra dei Balcani. «So tutto – urlavo nel telefono – che me lo deve dire un poppante come te! Ma bisogna cacciare Berlusconi e i fascisti. I tempi sono cambiati, c’è il movimento adesso!». Un manifesto rosso con le scritte bianche diceva: «Vuoi vedere che stavolta cambia davvero». La firma era quella del mio partito.

Quattordicesima parte: “Spunta la supertestimone. Annemarie ha deciso di parlare” – Liberazione, 26 agosto 2009

«Spunta la supertestimone». Non avrei mai creduto di dover fare un giorno un titolo del genere. Sono diventato giornalista per raccontare i movimenti sociali poi mi sono trovato ad avere a che fare con Ustica, uranio impoverito, storie di repressione feroce, di malagiustizia. Fino all’omicidio di un diciottenne ferrarese che tornava a casa dopo una serata in discoteca. Lo avevano dipinto, i poliziotti, come un pazzo scatenato, un energumeno che roteava nell’aria scalciando e ringhiando. Avrebbero detto che loro volevano solo aiutarlo e che, mentre lui si esibiva in voli che nemmeno Bruce Lee, loro si sarebbero limitati a chiedergli come si chiamasse, se avesse bisogno di qualcosa.
Fu l’avvocato ad avvertire Alessio, che si precipitò ad allertare me, Cinzia e Dean di Chi l’ha visto : la mamma del ragazzino camerunense aveva deciso di dire quello che era riuscita a vedere quella domenica mattina. S’era consultata con don Bedin, prima, poi con alcuni avvocati e aveva deciso di parlare. Il nuovo pm aveva impresso una nuova velocità all’inchiesta. Era giugno inoltrato, Ferrara era avvolta nel caldo torrido quando venne il momento dell’incidente probatorio, una finestra di processo nell’ambito delle indagini preliminari, perché la donna potrebbe non vedersi rinnovato il permesso di soggiorno.

«E’ sempre peggio… è sempre peggio!». Con gli occhi rossi, gonfi di pianto, Lino Aldrovandi uscì dall’aula E del tribunale, schivando le telecamere e trascinandosi con le stampelle (reduce da una frattura alla tibia per una caduta dalla bici) in fondo al cortile del Palazzo di giustizia. «Non è vero che era saltato sulla macchina… lo hanno picchiato, gli sono saltati addosso…». Il racconto di Annemarie, questo il nome della donna, aveva restituito il quadro di un pestaggio violento e fatale. Per due ore e mezzo lui e sua moglie, hanno rivissuto l’ultima manciata di minuti di Federico. La trentacinquenne camerunese abitava al primo piano della palazzina di Via Ippodromo 10B e all’alba del 25 settembre 2005 fu svegliata dai lampeggianti e dal vociare degli agenti impegnati nel misterioso e violento controllo di polizia. Le forche caudine della Bossi-Fini mettono paura ma, a differenza di tanti vicini italiani, Annemarie ha deciso di parlare. Arrivò in tribunale per prima scortata da due uomini della squadra mobile. La sua deposizione avverrà a porte chiuse, scandita dalle domande del pm e per nulla sbiadita dalle repliche dei legali della difesa. Così riferirono i genitori dell’Aldro. «Schiacciante e agghiacciante – commentò Patrizia Moretti, anche lei visibilmente scossa dall’interrogatorio – perché ogni volta troviamo nuovi terribili particolari».
Annemarie lasciò il tribunale su un’autocivetta senza fare dichiarazioni dopo aver ricordato dei bagliori blu che la svegliarono. Dalla finestra della cucina sentì delle voci, una frase ripetuta più volte: «Apri il baule». Probabilmente a parlare è una donna, l’unica tra i componenti dei due equipaggi delle volanti accorse dopo la chiamata di un’altra donna al 112, insospettita da un ragazzo «che sembrava matto». Annemarie lo vide che si avvicinava «con passo deciso» a due vetture lampeggianti, ferme nello slargo a pochi passi dal cancello del galoppatoio e disposte parallelamente l’una all’altra a non più di un metro e mezzo di distanza. «Aggressivo?», avrebbe insistito la difesa. «Ho detto a passo deciso, frettoloso», sarebbe stata la risposta della donna definita «lucida, tranquilla, ferma, dura, precisa» tanto che i legali di parte civile rinunceranno a fare ulteriori domande. Federico passa tra le auto, fa una specie di sforbiciata, bassa, con le gambe, ma non tocca nessuno. Dopo la sforbiciata una gragnuola di manganellate, quattro manganelli, due dei quali si fracassarono lasciando segni sul viso e sul corpo del ragazzo. Tutti sopra di lui coi bastoni», ha detto la donna, «come formiche».
Lo zio infermiere, che dovette riconoscerlo, lo trovò sfigurato. «Picchiavano, picchiavano, picchiavano», disse al giudice accompagnandosi con i gesti. Uno dei quattro afferrò Aldro per i capelli per farlo andare giù. «E’ caduto subito, è successo in un attimo». Il racconto fu preciso e confermò anche dettagli delle relazioni di servizio. Annemarie ricordò di essersi spostata all’angolo del balcone della cucina. Federico è a terra. Lo tengono immobile e lo pestano in tre. Uno è sul torace, uno sulle ginocchia, la poliziotta lo tiene per le caviglie. La pressione aumenta fino a quando sono quasi stesi su di lui. Un quarto uomo va e viene da una macchina, forse telefona. Ma Annemarie lo vede intento a schiacciare, a scalciare, lì dove c’è la testa di Federico. Vede il gesto dello schiacciamento, non vede però la testa del diciottenne. Se sono davvero calci, quelli del quarto uomo, si fanno certo più intensi quando la poliziotta si lamenta della resistenza di Federico che non ce la più a respirare ma che sarebbe pressato e picchiato «anche quando smette di dibattersi». Sono le fasi finali di un pestaggio iniziato in fondo al parchetto poco prima. «C’è tanto sangue», diceva uno degli agenti, “tranquillizzato” dalla collega: «Mica siamo stati noi, è la “roba”». Poi, sempre la ragazza avrebbe avvertito: «Fai attenzione che ci sono le luci già accese». Ma non erano quelle della casa di Annemarie. Le luci vere, sul caso, si sarebbero accese mesi dopo grazie al coraggio di parenti e amici dell’Aldro. E ora anche grazie ad Annemarie che «ha dato una lezione a tutti per il senso civico fuori dal comune» come dichiararono i legali degli Aldrovandi. La questura non trovò di meglio che chiedere al Comune la rimozione di un graffito minuscolo che chiedeva verità per Aldro. Quasi non si vedeva ma era proprio sulla strada tra la Procura e il tribunale.
Alessio raggiunse Marta al chiosco sotto il Castello, ordinarono uno spritz, prese il telefono e dettò i suoi lunghi appunti a Simone. La notte, con i ragazzi del comitato, mangiarono in un circolo Arci e decisero che, di lì a poco, nel primo anniversario della morte, avrebbero organizzato una grande manifestazione.

Così fu. C’erano fiori gialli e una foto grande di Federico appoggiati all’angolo tra via Bologna e via Ippodromo. Verità e giustizia scritte col gessetto sull’asfalto. Un lungo applauso. Anche dal palazzo di fronte dove c’era gente affacciata, anche da chi aspetta agli incroci che il corteo scivoli via verso piazza Castello. Impossibile incanalare gli ottomila, che hanno risposto all’appello del comitato Verità e giustizia, lungo il budello che porta al galoppatoio. Solo una sosta al crocevia per un ricordo commosso. Il battimani sfumò e da lontano una voce ritmava: “Federico vive”. E l’applauso ritornò in testa dal fondo del corteo che tra poche centinaia di metri sboccherà nel centro città tra vetrine quasi tutte aperte e ferraresi finalmente curiosi. Pochi esercenti abboccarono all’amo lanciato a mezzo stampa da navigati esponenti delle destre e, forse, da qualche agente che avrebbe digerito male il nuovo corso di Via Ercole Primo d’Este, sede della locale questura: pochi giorni prima un nuovo questore, che s’era coperto di stima alla Mobile di Palermo, aveva preso il posto di chi aveva gestito disastrosamente il caso. Alla manifestazione le forze dell’ordine saranno quasi invisibili. Patrizia, dal palco, di fronte a un numero di persone almeno dieci volte superiore a quelle che squarciarono con la prima fiaccolata il buio di Ferrara, potrà spiegare che la «battaglia civile per la dignità negata alla morte e alla vita di Federico sta diventando una battaglia civile per una dignità che valga per tutti, così come la legalità. Anche quella deve valere per tutti, al di là del ceto sociale, della nazionalità, della divisa». Ottomila, almeno. Alessio e Marta li avrebbero contati e ricontati risalendo più volte il corteo con le pettorine del servizio d’ordine assieme a Elisa, Pietro, Andrea, “Burro”, Gigi e i suoi compagni del sindacato. E al concerto che seguirà al corteo, nuova gente prenderà il posto di chi è già tornato nelle città di provenienza. La Genova di Haidi e Giuliano Giuliani. La Como del writer cingalese che s’è beccato un pallottola alla tempia in un normale controllo dei vigili (è successo sei mesi prima). La Brescia di Paolo, l’ultras spedito in coma da una carica assurda della celere alla stazione di Verona il 24 settembre 2005. La Milano di Rosa Piro, la mamma di Dax. Reggio Emilia degli antifascisti dell’11 marzo pestati e arrestati in massa a Milano. La Roma di Mauro, Francesca, Nicoletta, Giorgio. E la Bologna dove comitati per Aldro sono attivissimi più le città, altrimenti “nemiche” delle tifoserie del basket – Cento, Siena, Pesaro, Pistoia, Fabriano e la Fossa dei Leoni di Bologna – che invece arriveranno a Ferrara con un documento comune. L’Abruzzo, il cui social forum verrà a srotolare lo striscione donato dalle Madres de la Plaza de Mayo: «L’unica lotta che si perde è quella che non si combatte». Ci saranno le curve della Spal e della Carrarese. E due donne dalla Sardegna, una ragazza siciliana avvolta nella bandiera del Camerun, paese d’origine della supertestimone. E altri manifestanti da Modena o da Piacenza come le “reti meno invisibili”, coalizione contro depistaggi, insabbiamenti, impunità.
Ci sono il social forum bolognese, i giovani comunisti venuti pure da Verona, centri sociali, studenti di Parma, i verdi ferraresi, l’Arci guidata dal suo presidente nazionale. C’è il locale circolo “Il ribelle” con il drappo più corrosivo: “E Cristo morì di freddo. Dal vangelo di Ercole D’Este”. Sfilano i parlamentari di Rifondazione, Pdci, ds e del sole che ride. Ma soprattutto ci sono tante biciclette, trascinate a mano nella folla. «Sono i ferraresi, le bici sono i ferraresi!», esclamò Haidi Giuliani abbracciando Simone e Alessio che quel pomeriggio non si mollarono un istante. Era un pezzo che non si incontravano e, per tutta l’estate s’erano rincorsi con mail e messaggini. Entro un mese sarebbero usciti i responsi della superperizia e si sarebbe saputo se un pubblico processo avrebbe discusso sulla morte di un diciottenne trovato, dall’ambulanza accorsa in via Ippodromo, ammanettato e senza vita. In testa lo striscione ammoniva: “Verità, grido il tuo nome per quello che non doveva succedere, per quello che non è ancora successo, perché non succeda mai più”.

Quindicesima e ultima parte: “Alla fine un po’ di giustizia. Ma cambierà mai davvero?” – Liberazione, 27 agosto 2009

Ferrara, un pomeriggio di luglio di tre anni dopo.
Non ha potuto fare a meno di applaudire (ed è stata sgomberata con le buone) la piccola folla che aspettava da ore nell’aula B del tribunale. Non hanno potuto fare a meno di piangere i genitori e i parenti di Federico Aldrovandi e i loro legali e gli amici del diciottenne ammazzato in un violentissimo controllo di polizia. Chissà se avrebbero voluto piangere anche gli imputati, lo sguardo fisso davanti a sé, mentre il giudice leggeva la sentenza: tre anni e sei mesi, appena sessanta giorni di meno di quanto chiesto un paio di settimane prima dal pm. In aula solo due dei quattro agenti. Uno di loro riceverà la notizia della condanna in primo grado a L’Aquila. Ci fosse un’opposizione, in questo Paese, magari chiederebbe se sia il caso che un condannato di omicidio colposo se ne vada in trasferta al G8.
La lettura della sentenza dura pochi istanti. Le persone, dietro i banchi delle parti civili si abbracciano. Una voce dal pubblico ricorda che Federico aveva solo 18 anni. Uno dei poliziotti, alla fine, sbotta: «Posso dire che stasera giustizia non è stata fatta. E posso anche dire che io la notte dormo sonni tranquilli, qualcun altro non lo so». Benzina sul fuoco che lui stesso, secondo il giudice, ha acceso. «Invece giustizia è stata fatta – dicono ad Alessio le voci rotte di Lino e Patrizia Aldrovandi – però Federico non torna, qualcuno dovrebbe chiedergli scusa. Dov’è Stefano?». Stefano è in cortile, con gli amici. Ha la stessa età di suo fratello quando incappò nelle due volanti all’alba del 25 settembre 2005, e gli stessi occhi. E’ diventato grande partecipando al lavoro di controinchiesta sulla morte di Federico. Dopo cento giorni di silenzio assordante si decise di aprire un blog. Poi arrivò l’inchiesta di Liberazione a portare fuori dai confini ferraresi una vicenda di malapolizia. Quella sera cronisti e telecamere non mancavano. L’hanno detto un anno prima i pm della Diaz che mica è facile processare la polizia, che è come processare un maschio che stupra (perché si colpevolizzano le vittime) o un capo della mafia per via del malinteso senso di cameratismo che tenta di coprire abusi e violenze. A Ferrara il copione sembrava il medesimo di Genova.
Il suo nome era Federico Aldrovandi, aveva 18 anni. Non c’è stato limite alle fantasie che sono state vendute al pubblico su di lui. Questa vicenda racconta anche come funzionari statali abbiano cospirato per proteggere quattro poliziotti colpevoli di eccesso colposo nell’ambito dell’omicidio di Federico. Gli amici, tutti in aula, lo chiamavano Aldro.
La sentenza è stata letta cinque ore dopo che il giudice s’era ritirato in camera di consiglio al termine di un’ennesima mattinata di battaglia in aula, con il pm e i legali della famiglia Aldrovandi a ribadire che il diciottenne non sarebbe morto se non avesse incontrato le due volanti. Dall’altra parte della barricata, il collegio difensivo a rispolverare le tesi alternative delle droghe o della excite delirium syndrome, una sindrome inventata oltre oceano per giustificare morti strane ma tutte di persone arrestate o incatenate in un manicomio. Delle droghe killer, la preferita dalle difese parve l’Lsd ma nel sangue di Federico non ce n’era traccia e in questura saprebbero tutti che sono anni che non se ne trova nei sequestri di sostanze. Probabilmente i “francobolli” consumati dal diciottenne al Link di Bologna erano un “pacco”, una fregatura. Il nesso c’è, tra la morte di Federico e la condotta dei quattro degli equipaggi. Il pm ha insistito: «C’è, oltre ogni ragionevole dubbio». E la colpa degli agenti consiste nell’uso sproporzionato dei manganelli, due dei quali tornarono a pezzi in magazzino, anche sulla testa, anche quando era a terra e chiedeva aiuto. E i calci, e le ginocchia sul torace. «Federico ci parla ancora», dirà il pm pensando alle ultime foto del volto sfigurato. Quei segni sarebbero compatibili con i colpi raccontati dai testi e con le urla disumane ricordate anche dai quattro agenti. Tutti fattori che aumentavano la fame d’aria di un ragazzino che nessuno aiutò a respirare. Due donne sono le testi chiave, una italiana, l’altra straniera. Quest’ultima parla per prima, dopo molti mesi, dopo un lungo travaglio. Dice dei quattro coi bastoni, sopra Federico, come formiche. Ricorda i calci e i rantoli. L’altra, più faticosamente si decide a confermare solo nel dibattimento alcuni particolari raccontati poche ore dopo i fatti ad alcuni conoscenti. Ha paura, se rivelasse ciò che aveva visto, di «passare dalla parte del torto». La polizia – che indaga su se stessa – ha bussato quella mattina alla sua porta, interpellandola senza rilasciare alcun verbale.
«Quando ci si trova di fronte a una persona in quelle condizioni la prima cosa da fare è chiamare un’ambulanza con un medico… nel frattempo si prova a dialogare… se poi è violento ci si chiude in macchina… una volta arrivato il medico con questi si concorda come intervenire». Così ha scritto in una drammatica lettera a Federico, consegnata ai genitori prima della sentenza, l’ispettore della digos a cui toccò il riconoscimento di un cadavere «vestito come uno dei centri sociali». Poi dovette bussare a casa degli Aldrovandi di cui era amico. Da allora «ho dovuto fare i conti con me stesso», confessa al ragazzino ucciso rivelando anche le pressioni, gli insulti, le minacce, le battute e i commenti del suo ambiente.
Le difese sembrano attestarsi sulla fredda «algebra delle prove»: la droga, appunto, e quella sindrome di cui sono documentati 216 casi. 196 sono ancora vivi, 2 sono stati strangolati, i pochi altri sono morti immobilizzati in posizione prona. Le difese non credono alle testimoni chiave e, se la colluttazione c’entra qualcosa non sarebbe provabile e il contegno degli agenti comunque sarebbe al di sopra di qualsiasi appunto. Ma lo stato di agitazione che, secondo le difese, avrebbe ucciso comunque Federico, richiede ore per spegnere una vita. E non lascia segni in faccia. E i brogliacci truccati, i reperti imboscati, le stranezze della scientifica di quella mattina, appesantiscono le responsabilità di chi non ha chiamato subito il 118 ma ha cercato una colluttazione imprudente e omesso il soccorso a un ragazzo che soffriva.
La stampa locale non ha potuto fare a meno di bacchettare la questura ma non s’è persa l’occasione per tacciare di «morbosa curiosità» tutti quelli che sono stati accanto a Lino e Patrizia in questi anni. E continueranno a farlo. I quattro sono stati trasferiti. Non faranno un giorno di galera e non perderanno il lavoro. Ma chiunque potrà dire che sono stati feroci, incapaci e bugiardi.
Omissione di atti d’ufficio, falsa testimonianza, favoreggiamento saranno i capi d’accusa di quella che tutti chiamano l’inchiesta-bis, chiusa poche settimane dopo la sentenza. Quello che, all’epoca dei fatti, era il capo delle volanti dovrà rispondere di aver omesso di informare dettagliatamente la pm di turno tacendole la violenta colluttazione tra Federico e gli agenti, «limitandosi a informarla che il decesso sarebbe stato riconducibile a overdose e che il caso non presentava particolari difficoltà». Per questo la magistrata non si recò sul luogo del delitto. Il centralinista di quella maledetta domenica avrebbe detto il falso, «negando di aver interrotto la comunicazione telefonica con un agente che si trovava in via Ippodromo alle 6.32», ma una registrazione lo inchioda. E compromette il collega dall’altra parte del filo che non rivelerà cosa si siano detti a microfono spento. Entrambi sono accusati anche di aver aiutato i quattro delle volanti, proprio con quella telefonata troncata, «ad eludere le possibili investigazioni nei loro confronti». Sotto accusa anche l’ufficiale di polizia giudiziaria che non trasmise la copia del registro delle chiamate tra polizia e carabinieri.
Tornammo insieme a Roma, dopo la sentenza Alessio ed io. No, non era mio figlio. La prova del dna, grazie a un suo capello trovato per caso nella mia coppola che aveva voluto misurarsi, era inconfutabile. Non so dire se sia stato maggiore il sollievo o il rammarico. Ma ormai eravamo legati da una storia tutta nostra. Sua madre non c’entrava. Lui disegna sempre meglio e, ogni tanto, ci capita di essere invitati in giro per l’Italia a discutere di repressione e movimenti sociali. Spesso ci sono Haidi, Patrizia, Lino, la mamma di Renato Biagetti accoltellato un anno dopo Federico da due balordi fascistelli mentre usciva da una festa in spiaggia.
Quando siamo soli Alessio mi prende in giro per via di quel manifesto che prometteva che tutto sarebbe cambiato davvero. I “nostri” ragazzi sono ancora in Afghanistan a fare la guerra. Le spese militari col governo Prodi hanno superato le spese sociali. La precarietà e il razzismo avvelenano la vita di milioni di persone. E Mastella e Di Pietro e Violante hanno affossato la speranza di una vera inchiesta parlamentare sulle violenze di Genova. Le sentenze dicono che ci fu tortura a Bolzaneto, che ci furono arresti illegittimi e violenze inaudite alla Diaz, che a via Tolemaide le cariche erano illegittime. Ma i funzionari responsabili sono stati promossi ancora prima delle assoluzioni. I vigili urbani di mezza Italia scalpitano per armarsi di tutto punto, non passa giorno che non vada in fumo un campo rom o che – per strada o in una caserma – non sia pestato a sangue un omosessuale o uno dei centri sociali o un migrante. Si continua a morire in prigione, nei “centri per l’espulsione”, legati ai letti di contenzione di un ospedale psichiatrico. Le città pullulano di ronde. Intanto, Berlusconi è tornato con tre anni d’anticipo e la sinistra è sparita dal parlamento.
Alessio sghignazza forte, ricordandomi tutto ciò, mentre usciamo da una meravigliosa taverna tra i carrugi di Genova dopo l’ennesimo evento anniversario della morte di Carlo Giuliani. Ci vengono incontro quattro signori vestiti allo stesso modo con una casacca bruna. Quattro mastrolindi, rasati e muscolosi, che ci fanno segno di stare zitti con l’indice tra naso e labbra. Alessio li manda a quel paese e se ne va baldanzoso. Lo osservo mentre si allontana mentre provo a tener fermi i mastrolindi mostrando il tesserino da giornalista. La cosa funziona, i quattro cambiano strada in cerca di qualche migrante non iscritto ad alcun ordine professionale.

Note:

(Da questo racconto è stato tratto il romanzo a fumetti “Zona del silenzio” di Checchino Antonini e Alessio Spataro, minimum fax)

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