Rilettura de l'Università truccata, di Roberto Perotti.

Tutti i costi a carico degli studenti

Nel fortunato saggio L’università truccata, Roberto Perotti critica il “mito”, sbandierato dai rettori, dell’università gratuita, come retaggio sessantottesco. La prova è statistica: l’università è frequentata per la gran parte da studenti provenienti da famiglia abbienti, i quali rappresentano quasi la totalità dei laureati. Il ragionamento, tuttavia, sembrerebbe basarsi anche su un altro asse semantico.
12 dicembre 2008 - Giorgio Coratelli

Nel fortunato saggio L’università truccata, Roberto Perotti critica il “mito”, sbandierato dai rettori, dell’università gratuita, come retaggio sessantottesco. La prova è statistica: l’università è frequentata per la gran parte da studenti provenienti da famiglia abbienti, i quali rappresentano quasi la totalità dei laureati. Il ragionamento, tuttavia, sembrerebbe basarsi anche su un altro asse semantico.
Posto che “le tasse di tutti, inclusi i meno abbienti, finanziano gli studi gratuiti (!) dei più ricchi” (p. 68), tra i punti che motivano l’iniquo sistema dei sussidi all’università, Perotti afferma: “per arrivare all’università bisogna prima aver completato la scuola secondaria” (p. 69). Non si tratta di una constatazione alla Paolo Mieli, ma di una precisazione che, nel proseguo del discorso, si trasforma in opposizione: “se veramente si vuole favorire l’accesso all’istruzione terziaria dei meno abbienti, i soldi dei contribuenti sarebbero probabilmente meglio spesi aumentando la dotazione di asili nido, e migliorando la qualità dell’istruzione nella scuola elementare e secondaria” (p. 69).
Bisogna precisare che l’autore non vuole contestare ai governi le manipolazioni delle voci di bilancio. Per esempio, nel paragrafo Aumentare la mobilità degli studenti, Perotti nota che nel 2000 il governo annunciò “un piano organico pluriennale di interventi per l’edilizia universitaria, con 450 milioni di euro stanziati dallo stato”, fondo continuamente tagliato negli anni successivi e infine rimasto vuoto nel 2007 (p. 102). Verso quale voce sono stati dirottati questi soldi? A Perotti non interessa: “come vedremo – conclude – parte del risparmio generato dall’aumento delle rette pagate da chi può permetterselo può essere utilizzato per aumentare sensibilmente la mobilità degli studenti”, cioè per pagare le spese in edilizia (p. 102). Se si traduce questa voce in “costruzione di campus universitari”, si avranno per almeno 15-20 anni studenti che pagano rette universitarie aumentate, con le quali si finanziano strutture di cui questi studenti non potranno mai usufruire. Inoltre lo scopo rappresentato dalla “mobilità degli studenti” non va confuso con i “sussidi ai meno abbienti” (p. 103) – obiettivo che rientra nella questione dei “prestiti d’onore condizionati al reddito”.
A proposito, si potrebbe giustificare a priori l’aumento delle tasse agli studenti “ricchi”. Perotti pensa a un generico aumento, per decisione autonoma di ogni singolo ateneo (p. 98), sottolineando, che “corsi di laurea diversi hanno costi diversi, e portano a carriere diverse, alcune molto remunerative altre meno” (p. 99). Perché, dunque, non parlare di decisioni autonome delle facoltà o di corsi di laurea? Fisica, medicina, veterinaria devono costare di più di lettere e di filosofia; ma allora anche corsi di cinema e di fotografia, che hanno bisogno di laboratori e supporti multimediali, costano di più di un corso di storia.
Il punto, tuttavia, non è solo questo: oltre al costo di un corso di laurea, l’ateneo deve sostenere un costo del singolo studente. È lo stesso criterio che Perotti elabora per il sistema degli incentivi sulla base della qualità della ricerca: “un sistema in cui ‘i soldi seguono la qualità’, sia a livello individuale che a livello di ateneo” (p. 10). A queste due voci, si aggiungono, per simmetria di bilancio, altre due: l’investimento in un corso di laurea e l’investimento nella carriera dello studente.
Queste quattro voci non riguardano solo il bilancio di un ateneo, ma anche quello di uno studente. Le famiglie e lo studente scelgono un ateneo e un corso di laurea come si sceglie un’automobile (p. 14). Oltre al paragone, proprio di un ragionamento di economia pura, ciò che questo dato fa emergere è la netta differenza tra istruzione primaria e secondaria e istruzione terziaria: la teoria economica suggerisce sussidi e investimenti pubblici in attività che hanno un beneficio sociale. La scuola (elementare, medie, superiori) rientrano in questo blocco: s’insegna a leggere e a scrivere e a diventare “cittadini” (p. 70). Ma quale beneficio comporta l’iscrizione all’università?
La risposta è ovvia: un beneficio privato. Innanzitutto perché “un laureato in legge o in economia aziendale vede aumentare il suo reddito enormemente (!) grazie alla laurea” (p. 70): qui, per motivare l’avverbio, secondo Perotti, non c’è bisogno di alcuna statistica, come invece fa altrove: è così. In secondo luogo perché “basta introdurre il principio che l’investimento in capitale umano, come tutti gli investimenti, va pagato” (p. 70).
Dunque, lo studente, con la famiglia, deve pagare il suo investimento in istruzione universitaria, perché i benefici privati di questa scelta sono certi, i benefici sociali non contano. Se, tuttavia, lo studente è tanto testardo da scegliere, per esempio, un corso di laurea in Lettere, allora è un cretino o una persona mediocre che ha paura di competere con gli altri e che si accontenta di fare l’insegnante.
In questo senso, “per arrivare all’università bisogna prima aver completato la scuola secondaria”: è già nel percorso scolastico, e non all’università, che avviene la selezione naturale e sociale. I riformatori non avrebbero sperato in giustificazione migliore per riprendere la riforma-Moratti, con la possibilità di effettuare stages e tirocini a 16 anni.
In questo senso, si favorisce l’ingresso all’università per i meno abbienti finanziando con soldi pubblici solo “la dotazione di asili nido, e migliorando la qualità dell’istruzione nella scuola elementare e secondaria”: qui lo studente meno abbiente impara che, se vuole iscriversi all’università, deve scegliere un corso di laurea da percorrere nel tempo stabilito (3 anni o 3+2 anni) e che gli permetta di entrare fin da subito nel mondo del lavoro. Infatti - si chiede Perotti - “bisogna sussidiare l’istruzione di chi non può permetterselo ora, o solo di chi non può permetterselo mai?” (p. 103). Per la teoria economica, come di fronte alla legge, si è tutti uguali: “così come non c’è motivo di regalare una laurea al figlio di un dirigente d’azienda, non c’è motivo neanche di regalarla (!) a chi è diventato dirigente d’azienda grazie alla laurea” (p. 103). “Questo ragionamento – prosegue l’autore – suggerisce quale sia lo strumento più efficace ed equo (!) per creare un sistema più efficiente […]: un prestito d’onore condizionato al reddito” (pp. 103-104).
Per ragioni di spazio, non mi è possibile approfondire la questione del prestito d’onore. Ma ciò che interessa è considerare le conseguenze di questa “efficacia”: i finanziamenti pubblici che l’ateneo ottiene e destina alla voce “costo dello studente”, oltre ad essere indirizzati solo agli studenti meno abbienti (perché gli altri possono tranquillamente sopportare le rette aumentate – secondo la più banale delle dicotomie “ricchi / poveri”), non sono a fondo perduto, cioè non sostengono lo studente per la durata della sua carriera universitaria, ma copre una parte dei costi universitari, e per la maggior parte serve da garanzia alla banca con la quale lo studente meno abbiente ha contratto il suo “prestito d’onore” (nomignolo con il quale la mafia battezzerebbe volentieri il pizzo), per pagare rette universitarie, vitto e alloggio. Lo studente, dunque, deve addebitarsi costi, rischi, eventuali perdite o fallimenti del suo investimento.
In ciò consiste l’“equità” del prestito d’onore, secondo Perotti: l’università è, quasi per intero, pagata dagli studenti – secondo lo slogan: “Tutto i costi a carico degli studenti!”.