Tempi di crisi [Approfondimenti]

Dalla crisi finanziaria al crollo del sistema bancario americano

Intervista al Professor Alessandro Volpi, docente di Storia contemporanea e Geografia politica economica presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Pisa. Ha pubblicato diverse monografie e numerosi articoli. Collabora con “Il Tirreno”, “Il Manifesto”, “Nigrizia”. Tra le sue pubblicazioni più recenti “La fine della globalizzazione?”, Pisa, BFS, 2005, “Mappamondo Postglobale”, Milano, Terre di Mezzo, 2007, “Senza Misura. I limiti del lessico globale”, Pisa, BFS, 2008.
Associazione Aut-Aut

crisi Da qualche settimana la crisi finanziaria è diventata, improvvisamente, il principale argomento di quotidiani, telegiornali, riviste. Tutti parlano di una crisi di proporzioni enormi, senza precedenti nella storia dell’economia mondiale. Quali sono, secondo lei, le cause di un evento di tale portata? Si tratta di una crisi congiunturale, legata a poche, fortuite, circostanze verificatesi negli ultimi anni, o si tratta piuttosto di una crisi strutturale, che affonda le proprie radici in quelle che sono le caratteristiche del sistema economico attuale?

Il vero problema a monte di questa crisi è che si tratta di un fenomeno strutturale e non congiunturale, cioè di una crisi che ha a che fare con una trasformazione profonda di un sistema di produzione che ormai è difficile definire capitalistico. Perché è una crisi strutturale? Perché evidentemente nei prossimi anni ci troveremo di fronte a una realtà che non è più quella del passato. Non lo è più e non tornerà più ad esserlo. Questa crisi strutturale nasce intorno agli anni ’90. Le premesse sono in questi anni e sono legate alla finanziarizzazione dell’economia. Il predominio dell’economia finanziaria è certificato dai numeri in modo impressionante: basti pensare che il valore nominale dei titoli derivati, che indicano tutto ciò che ha a che fare con la finanza o con un pezzo significativo di essa, certificato dalla Banca d’Italia, è di 350 mila miliardi di dollari, quando il prodotto interno lordo dell’insieme dei Paesi di questo pianeta arriva a malapena a 60 mila miliardi di dollari. È quindi chiara una spaventosa sproporzione che non è sempre esistita: se prediamo i dati a metà degli anni ’80 ci accorgiamo che il volume complessivo del valore delle transazioni finanziarie era di poco inferiore al P.I.L. reale. Anche nel caso italiano fino a metà degli anni ‘80 i salari costituivano la metà del P.I.L. Oggi i salari costituiscono meno del 20% del P.I.L., quindi è chiaro che c’è stata una finanziarizzazione che nei numeri è evidentissima.

Lei crede dunque che la crisi odierna sia il risultato della massiccia finanziarizzazione dell’economia verificatasi negli anni ’90. Ma cosa intende concretamente per finanziarizzazione? Quali sono le cause di questo fenomeno? 

La finanziarizzazione trova la sua causa in due elementi fondamentali: il primo è il moltiplicarsi dei soggetti finanziari nel corso degli anni ’90. Con la creazione del W.T.O. si decide che possono fare finanza una serie di soggetti che prima non potevano farlo, per esempio le banche. Oggi il grosso del mercato finanziario non passa attraverso le borse ma attraverso le banche.
Questa è stata una scelta per cui si è ritenuto, a mio avviso in maniera abbastanza chiara, che la produzione di ricchezza da parte dell’economia reale non era in grado di assicurare la crescita esponenziale della ricchezza dell’intero pianeta e si è pensato perciò che la produzione della ricchezza dovesse spostarsi dal settore dell’economia reale a quello della finanza. Per far questo c’è stato bisogno di nuovi soggetti abilitati a fare finanziarizzazione: le banche.
Le banche italiane, fino al testo unico del ’93, facevano una cosa sola: prestavano denaro a medio termine Non potevano avere partecipazioni azionarie e non potevano essere partecipate se non in misura minima. C’era una netta distinzione fra le banche d’investimento, ovvero le banche d’affari che erano rappresentate solo da Mediobanca, e il sistema del credito ordinario rappresentato da tutte le altre banche, che fino a quella data erano pubbliche o para-pubbliche. Dal ’93 si è deciso che le banche possono produrre e vendere titoli, cioè costruire i propri fondi composti da titoli e venderli, svolgendo una funzione di intermediazione finanziaria, trasformandosi così in un negozio finanziario. Qui possiamo osservare un primo elemento carico di conseguenze culturali: prima la persona che si recava in banca poteva solamente ritirare i depositi, lo stipendio o fare un versamento. Dalla metà degli anni ’90 si è trovata a entrare direttamente in “Borsa”. Le banche hanno iniziato a proporre, tramite i propri sportellisti, titoli finanziari, ma le persone che si affacciavano a questi settori non avevano la cultura per comprendere la natura finanziaria di ciò che gli veniva proposto: entrare nel giro colossale della borsa tramite l’acquisto di fondi.

Quali sono stati, concretamente, i primi effetti di questa trasformazione?

Questi cambiamenti hanno prodotto due effetti: il primo è la trasformazione della natura delle banche, diventate un soggetto finanziario e quindi l’allargamento del recinto dei soggetti finanziari, ma anche dei soggetti finanziarizzati. I soggetti a cui è rivolta la borsa non sono più quelli di prima, quei 20-30mila soggetti che facevano finanza in modo professionale, ma diventano i milioni di persone che vanno in banca. Un dato impressionante al riguardo ci è fornito da Lehman Brother’s, la quale ha avuto rapporti abbastanza circoscritti nel sistema finanziario italiano, ma nonostante ciò ha creato un buco da 4,5 miliardi di Euro. Ciò vuol dire che i risparmiatori italiani erano coinvolti nel rapporto con Lehman Brother’s per varie forme, ad esempio perché venivano venduti titoli di L.B. oppure perché le banche italiane avevano fondi d’investimento correlati a L.B..
Il secondo elemento, a mio avviso ancora più determinante, è il cambiamento del modo di fare finanza. Questo nuovo modo di fare finanza ha stravolto il normale funzionamento del capitalismo, perché si basa su elementi sostanziali, che rendono difficile la soluzione del problema.

Da un lato dunque un aumento dei soggetti che producono finanza, prime fra tutti le banche, dall’altro un aumento dei destinatari di questa finanza. Come è stato possibile realizzare cambiamenti tanto rilevanti? Come, soprattutto, è stato possibile trasformare milioni di piccoli risparmiatori, legati a banche di credito, in tanti operatori finanziari?

Fondamentalmente in due modi: da un lato permettendo l’indebitamento. Questa finanza si basa in maniera gigantesca sulla capacità di indebitamento o, meglio, sull’accrescimento forzato della capacità di indebitamento dei soggetti. A metà degli anni ‘90, negli Stati Uniti, se una persona aveva un reddito di 30-40 mila dollari all’anno e voleva acquistare una casa di 700 mila dollari, la banca non accendeva il credito, non ritenendolo solvibile. Tuttavia se questa tipologia di soggetti non può acquistare case, titoli azionari, obbligazioni il sistema non cresce perché non ci sono i consumatori. E’ necessario quindi l’abbassamento di questa soglia per permettere di entrare nella partita non soltanto a quella élite professionale di cui prima si parlava, ma anche ad una serie di nuovi “giocatori”. Tutto questo, tra l’altro, è funzionale al rimodellamento dello stato sociale americano. È chiaro che l’eliminazione di questo ha costretto il soggetto a costruirsi una pensione tramite un fondo, e se questo si fa con titoli di borsa, è necessario permettere a questo soggetto di acquistare quei titoli che faranno poi parte del suo fondo pensione. Il problema è: come si fa? Se non ha i soldi si deve indebitare per comprarli. Questo è il primo pezzo del ragionamento, che ha moltiplicato l’effetto leva.

Cosa intende con “effetto leva”?

Intendo la possibilità, avendo due, di acquistare quindici, cosa prima assolutamente vietata. Ma la riflessione non è chiara se non aggiungiamo il secondo aspetto che ha consentito di allargare il numero dei soggetti finanziari. Se io sono una banca e mi si presenta un soggetto non solvibile, con un reddito annuo di 30-40 mila dollari che si vuole comprare una casa da 700 mila dollari, come faccio a rendere un soggetto così marcatamente indebitato sostenibile per una banca? Con un’operazione che si chiama distribuzione del rischio.

Di che si tratta?

Semplificando, la banca che fa il prestito lo fa al 7%. Ovviamente però nel momento in cui concede questo prestito, decide di cedere ad un terzo soggetto, attraverso un meccanismo chiamato cartolarizzazione, una parte di quel debito. La banca che avanza un credito di 700 mila dollari nei confronti del soggetto che paga il 7%, cede parte del debito a un altro soggetto finanziario, il quale paga un interesse del 2%. Il secondo soggetto finanziario cederà a sua volta parte del credito a un terzo soggetto, a interesse ancora minore. Si distribuisce in questo modo il pericolo che la persona non sia in grado di restituire il debito.
Tutto ciò era garantito da due agenzie, Fannie Mae e Freddie Mac, che emettevano una garanzia sul complesso di queste operazioni. Tutto questo sistema si basava sul presupposto che la persona che aveva contratto il debito originario pagasse. Il fulcro dell’operazione era convincere tutto il sistema ad avere meno paura, meno percezione del rischio: visto che sono tanti i soggetti che si dividono il debito e che ci sono Fannie e Freddie a garantire il sistema, la persona deve solo occuparsi di pagare il tasso annuale e tutto funziona.

Che cosa, invece, non ha funzionato?

A questo punto è successo che la crisi dei mutui sub prime ha fatto sì che qualcuno si sia reso conto che il gioco era diventato troppo grosso. Questo qualcuno è il mercato immobiliare americano e questo è il passaggio fondamentale: le case, sul mercato americano, hanno iniziato ad avere un prezzo meno alto di quello che ci si aspettava. La persona che ha contratto il debito era convinta che nel giro di tre anni la sua casa sarebbe valsa non 700 mila dollari ma 1.200 mila dollari e questa garanzia di aumento di prezzo incoraggiava il debitore originario a sostenere l’aumento del tasso d’interesse. Nel momento in cui la naturale saturazione del mercato delle case ha bloccato gli aumenti di valore riportandoli sui 720-750 mila dollari, è chiaro che tutti quei soggetti legati alla catena hanno iniziato a scricchiolare, iniziando ad avere la percezione che il gioco non funzionasse più.
Si è così innescata questa spirale progressivamente negativa che ha imballato il sistema, sistema dove la pratica della distribuzione del rischio era talmente marcata - Freddie e Fannie hanno venduto una parte di questi mutui alle banche europee, alla banca centrale cinese - che c’è stato un processo di contaminazione del sistema che ha portato ad una generale diffidenza e sfiducia fra i vari attori finanziari. Il famoso “rischio della controparte”, che è uno dei sistemi su cui si basa il funzionamento del sistema bancario, a questo punto è altissimo, perché nessuna banca è disposta in questo momento a fare prestiti ad altre banche. La conseguenza è che la crisi di liquidità diventa pesantissima.

Ricapitoliamo un momento: la banca concede a me, piccolo risparmiatore, un prestito molto grosso per comprarmi una casa, distribuendo poi il proprio credito ad altri soggetti finanziari, in modo da distribuire il rischio di insolvenza. Il mercato del mattone si blocca, le case si svalutano e questo aumenta il rischio che io non saldi il mio debito. Questo diffonde insicurezza tra tutti quei soggetti che si sono distribuiti il mio debito, e nessuno presta più soldi a nessuno. Crisi di liquidità. Quali sono state le conseguenze più immediate di questa crisi di liquidità?

Il dato più emblematico di questa difficoltà ci è fornito dal fallimento dalle grandi banche d’investimento. Ma perché Lehman Brother’s, Merryl Linch, Morgan Stanley sono andate in profonda crisi e ora anche Goldman Sachs ha qualche problema? Perché queste hanno una differenza fondamentale rispetto alle banche commerciali: vivono vendendo le loro obbligazioni, cioè trovano soldi vendendo obbligazioni sul mercato e con quei soldi finanziano le proprie operazioni finanziarie. Tuttavia, nel momento in cui le banche d’investimento emettono le loro obbligazioni e nessuno gliele compra perché ogni banca è terrorizzata per il fatto di avere migliaia di questi mutui che rischieranno di non esser pagati, è chiaro che anche le banche d’investimento iniziano a fallire.

Come la crisi che ha investito banche d’investimento, potrà riversarsi sui medi e piccoli risparmiatori?

La crisi partita dalle banche d’investimento non è ancora arrivata alle banche commerciali ma ci arriverà, tanto è vero che il governo americano è entrato in nove delle principali banche americane commerciali e non d’investimento. La crisi è partita dalle banche d’investimento perché queste sono le più esposte a crisi di liquidità, scontano il fatto che tutte le banche come CitiGroup hanno fatto prestiti al signor x, che sanno che non pagherà, e questo provoca quella catena di sfiducia di cui si è parlato. Queste ultime non sono più disposte a prestare soldi alle banche d’investimento, che per questo crollano, costringendo il governo americano a far partire il piano Paulson.

Questo piano costituisce il tentativo da parte del governo americano di superare la crisi. Pensa che possa essere efficace o crede che siano necessari altri tipi di interventi?

Il vero problema è che oggi abbiamo pochissimi strumenti per arginare la crisi. Vedo una difficoltà profonda nell’affrontare la crisi perché, banalmente, la politica monetaria, che è uno strumento tipico per uscire da queste crisi, in questo momento è assolutamente inutile. Il tasso d’interesse attuale della Banca Centrale Americana è dell’1,75%, quindi il denaro è praticamente gratis. Nonostante questo, se si controlla l’indice hibor, indice di interscambio tra le banche, oggi è al 7-8%: chi si approvvigiona alla banca centrale non fa girare il denaro ma lo tiene per sé, nella speranza di risanare i propri conti. Quindi il denaro non circola più, e in Europa è altrettanto evidente. Il tasso della Banca Europea è 3,75% e l’euribor è al 5%. Se questo è così basso vuol dire che le banche non si muovono più, che il credito non funziona più, che non c’è liquidità.
Le iniezioni di liquidità da parte delle banche centrali sono state gigantesche ma le difficoltà sono molte e la politica monetaria non funziona: il piano Paulsen è di 800 miliardi di dollari, ma è evidente che non è sufficiente perché il governo americano, fatta la prima tranche di 250 miliardi dollari, è dovuto entrare in nove banche. L’Europa - alle volte questo lato è dimenticato - in tre settimane ha messo a disposizione delle banche 2.250 miliardi di dollari. Io mi domando: ma prima dov’erano questi soldi? Quando si trattava di fare una manovra finanziaria da un miliardo di euro pareva cosa impossibile e ora in tre settimane sono stati dati 2.250 miliardi di dollari che sono l’equivale del P.I.L. annuale di Italia e Spagna. Non è ancora chiaro se questo sforzo riuscirà a sanare le banche. Il fatto che un fondo sovrano libico riesca ad entrare in Unicredit è sintomatico. Vi ricordate cos’è successo tre anni fa quando dovevano arrivare gli spagnoli in B.N.L. e in Italia è scoppiata una vera rivoluzione culturale, a difesa dell’italianità di B.N.L.? Oggi i Libici sono entrati nella principale banca italiana, una delle più grandi in Europa, e sono i secondi azionisti dopo Cariverona, con il 5% delle azioni, vanno in consiglio di amministrazione, votano, decidono le sorti. Tutto questo, perché è evidente che Unicredit non ce la fa, e il decreto che ha fatto il governo italiano a salvataggio delle banche non ha copertura finanziaria.

Secondo lei, dunque, il processo di finanziarizzazione, oltre ad essere il responsabile della crisi attuale, ci ha privato di ogni tipo di strumento in grado di superare questa crisi.

Questo sistema di democratizzazione della finanza ha superato la dimensione stessa del processo. Il mercato finanziario, storicamente basato sulla nozione di rischio, funziona nel momento in cui c’è una percezione del rischio legato all’investimento fatto. Se faccio un investimento al 12% so che il rischio equivale al 12%, diverso da un rischio dell’1%. La democratizzazione della finanza aveva l’illusione di poter garantire la capacità di indebitamento collettivo attraverso la moltiplicazione degli strumenti, la moltiplicazione dei derivati. Questo ha prodotto un disastro.