Don Nicolini, Mina Welby, Carlo Flamigni e Franco Grillini discutono di laicità

Declinare è laico


27 maggio 2007 - Carlo Loiodice

Erano stati davvero audaci gli organizzatori nel prenotare la sala Farnese per un sabato pomeriggio di fine maggio; per giunta con il trend delle temperature in salita. Ma che sia stata fortuna o virtù, ieri pomeriggio la sala Farnese era piena. Molto interessante il palco degli oratori: introdotti da Monica Mischiatti e moderati da Serafino D’Onofrio, hanno preso la parola Franco Grillini, Mina Welby, Carlo Flamigni, don Giovanni Nicolini, qualificato semplicemente come “prete” nella locandina. Il titolo dell’incontro, “Declinare laico” è stato spiegato alla platea da don Nicolini, che ne ha dato una lettura in chiave grammaticale per spiegare la sua accettazione dell’invito. La “declinazione” è la capacità delle parole di mutarsi per entrare in relazione con altre parole. Un verbo si declina rispetto al tempo e al modo; un sostantivo e un aggettivo rispetto al genere, ecc. Nella convivenza, gli uomini e le loro formazioni devono acquisire la capacità di declinarsi per entrare in relazione con altri individui e formazioni. E questa è laicità. Etimologicamente declinarsi significa anche un po’ inchinarsi, ossia smettere ogni presunzione di essere nel giusto a priori. Voce di un “prete”. Del che Franco Grillini deve essersi molto rallegrato. Lui che ha denunciato l’atteggiamento storico della chiesa rispetto alle diversità. Un atteggiamento di tale chiusura che – racconta - nell’estate 1943, caduto Mussolini, il nunzio apostolico presso il governo italiano presentò istanza che non fossero abolite le leggi razziali; cosa che poi il governo dovette fare per imposizione degli alleati. Indubbiamente in questo la chiesa non è né compatta né sola. Grillini ha apprezzato i tanti atteggiamenti solidali che dice di aver trovato nel cattolicesimo di base. E nel contempo denuncia l’aumento della violenza, non solo privata ma anche politica, nei confronti degli omosessuali e delle loro rappresentanze organizzate. Non di “solidarietà” ma di “compassione” ha parlato Carlo Flamigni, anche lui rifacendosi all’etimologia. “Compatire” significa essere capaci di intendere la sofferenza altrui e di far intendere la propria. Cosa diversa dalla pietà, che mette gli individui su due piani diversi: chi prova pietà si colloca su un piano superiore; può talvolta perdonare, ma non condividere. Importante tutto ciò a corona della persona più attesa come portatrice di una storia. Di Mina abbiamo letto a suo tempo sui giornali come moglie di Piergiorgio Welby, a definire il quale non mi sento di trovar parole, per cui rimando alla sua lettera ai direttori dei giornali che si può leggere qui: http://www.lucacoscioni.it/node/7733. Mina si è raccontata. Ha evocato un paese trentino in cui la religione scandiva ogni momento della giornata e dell’esistenza: le campane della chiesa, le ricorrenze, i cicli, tutto a marcare un tempo al cui interno non c’era spazio per diversità o trasgressioni, a differenza di quanto accade in città. Eppure la madre – terza elementare – le aveva insegnato che “Gesù non è morto solo per noi [cristiani, n.d.r.]”. Ha raccontato dell’incontro di vita con Piergiorgio, di formazione culturale diversa, ma con simmetrica propensione al dialogo e alla dialettica. La malattia progressiva di Piergiorgio è stata per lei, oltre che un grande capitolo di sofferenza, anche un’esperienza continua di adattamento e cambiamento. Commovente è stata la descrizione dei momenti finali. Piergiorgio denunciava una sofferenza, un’oppressione che non riusciva a sopportare. Poi l’intervento del Dott. Riccio. L’autopsia ha evidenziato che ormai più nessun muscolo esisteva nel corpo di Piergiorgio. La sofferenza era dunque causata dalla costrizione della macchina su polmoni assolutamente passivi. Se una persona ha la ventura di capire queste cose, pur in forma così drammatica, non può non farsi carico di ritrasmettere quanto ha recepito. Peccato che la chiesa – lei preferisce riferirsi al vicariato di Roma – non abbia avuto la volontà di “declinarsi” nella direzione della sofferenza di uno spirito grande come quello di Welby. Già, lo spirito… Ma che cos’è lo spirito, questa entità di cui parliamo senza averne un riscontro definitivo? Carlo Flamigni si è rifatto al concetto di “cenestesia”, ovvero la percezione che noi abbiamo dei nostri organi nel momento in cui essi sono in sofferenza. Non c’è dubbio che nel caso Welby, chi ha sofferto, da lui a Mina, e persino a tanti fra noi, si sia sentito colpito spiritualmente. In causa è stato messo il concetto di dignità. Flamigni ha avuto parole durissime. “Voi potrete anche interrompere la mia sofferenza corporea con dei farmaci che mi alleviano il dolore o mi fanno perdere temporaneamente i sensi. Ma se nel momento estremo mi toglierete la dignità, io vi maledirò”. Certo, nel momento estremo la capacità di declinare viene meno. Ma la coscienza di tale drammaticità potrebbe spingerci a declinarci prima… Laicamente…