Culture

Vedi alla voce “libertà”: dalle donne del Chiapas “al tuo angolo di mondo, sorella, compagna”

“Ti mandiamo un saluto come donne in lotta che siamo: non potremo fare il II° Incontro Internazionale delle Donne che Lottano, nelle nostre terre, questo marzo 2019. Non smettere di combattere affinché nessuna donna nel mondo abbia paura di essere donna”.

14 Febbraio 2019 - 18:23

All’alba del primo gennaio 1994, nelle città di San Cristóbal, Comitán, Las Margaritas, Altamirano, Chanal, Ocosingo, Oxchuc e Rancho Nuevo, tutti dormivano ancora, assonnati e ubriacati dai festeggiamenti per l’anno nuovo. Solo qualche ubriaco vagava per le città.
Col volto coperto da un passamontagna, una folta schiera di uomini e donne armati di machete e armi rudimentali marciava verso il palazzo municipale.

Marciavano in perfetto silenzio e comunque le loro lingue erano incomprensibili ai güeros.

Erano gli indigeni delle montagne del Chiapas: tzotzil, tzeltal, zoque, lacandones, tojolabal, chol, mame, mochos, cohos, kanjobal, chuj.
Erano gli ultimi, i dimenticati, gli sfruttati.

Venivano pieni d’amore, venivano pieni di rabbia.
Venivano pieni di speranza, forti del sapere delle montagne e della selva.
Venivano a dire basta, basta per i 500 anni di soprusi, di violenza e di sopraffazione.

Basta per le terre sottratte, basta per le vite spezzate, basta per l’identità negata.

Venivano a dire che esistevano, anche se avevano il volto coperto, anzi venivano a dire che avevano il volto coperto perché volevano parlare con il cuore.
“¡Ya basta!”, vogliamo la nostra terra e la nostra libertà.
Libertà di insegnare ai nostri figli come curare le malattie con le piante, come esprimere il mondo nelle nostre lingue, come vestire, come coltivare la terra, come governare le relazioni tra gli abitanti dei villaggi.

Venivano a dire che gli arretrati siamo noi, che non sappiamo più cosa è davvero la libertà.
25 anni fa iniziava la lotta zapatista, una lotta alla luce del sole, una lotta col sorriso e col sangue, a difesa della terra, della libertà, del futuro.

 

 

Quando arrivai nella selva di Huitepec avevo 27 anni, una laurea con lode, un ottimo lavoro come ricercatrice all’università. Avevo molti viaggi nel mio zaino e una certa feroce pretesa di aver capito molte cose del mondo.

Era proprio per questo che ero partita: io sapevo molte cose che non andavano bene di quel pezzo di mondo in cui mi ero ritrovata a nascere e poi a vivere, costruendo giorno dopo giorno la mia scomodissima comfort zone. Quella stessa zona di protezione che ti permette di godere di una certa serie di benefici e di vantaggi, che assicura un’esistenza perfettamente inserita nella società –potevi trovare tutta una serie di meravigliose opportunità.

Studiare, fare carriera o mettere su famiglia, o prima fare carriera poi mettere su famiglia.
O solo fare carriera, o solo fare famiglia.
Avrei potuto comprare una casa o un’auto o forse entrambe. Se le cose andavano molto bene avrei anche potuto comprare due case, una al mare e una in città, e perché no, deliriamo, anche una in montagna. Che bisogna vivere la natura, non dimentichiamolo.

Non mi avrebbe fatto mancare nulla: il sistema in cui ero immersa mi avrebbe garantito tutto quello che sognavo. Se il mio cuore era generoso e solidale, il sistema in cui vivevo aveva pensato anche a questo: tutta una serie di reti e realtà e persone con cui incontrarsi e discutere e lottare per cambiare il mondo.

Dovevo solo avere pazienza e smettere di dare credito a quelle notizie allarmiste delle conseguenze dei miei gesti quaggiù sulle vite di qualcuno lontano, così lontano che forse nemmeno esisteva. Dovevo pensare alla bellissima famiglia che avevo, ai miei amici, al mio uomo. Io avevo tutto, potevo sognare tutto quello che volevo, dovevo solo avere fiducia nel sistema.

Ma non ce l’avevo, per questo sono partita. Credevo che la vita volesse dirci qualcosa di più, non sapevo cos’era, ma sapevo che dovevo lasciare le scomodissime certezze che avevo costruito per intravedere quel senso in più. Del sistema, però non ci si libera facilmente e io ne conservavo la presunzione, il punto di vista, l’arroganza.

 

 

Credevo, ad esempio, di aver già conosciuto il significato di parole semplici come mani, piedi, alberi, montagna, pianta, selva, acqua, occhi, fuoco, notte, lotta, stella, mais, donna, bambino, uomo.
Credevo di sapere quanto dura fosse la lotta – ma non sapevo quanto dura per le mani e per i piedi che devono difendersi e fuggire nella selva.
Credevo di conoscere il silenzio di un fuoco che brucia nella notte e di sapere quanto preziosa fosse l’acqua.
Credevo che ogni bambino è uguale ad un altro, che il suo sorriso vale quanto quello di un qualsiasi altro bambino, in tutto il mondo.
Credevo che tutti gli esseri umani lottassero e difendessero ugualmente per la più bella cosa che possediamo, la libertà.

 

Tra le montagne dell’est del Messico, dove la terra è arida e non si chiama terra si chiama milpa. Si chiama milpa e produce con il sapere di migliaia di anni, passati di mano in mano, centinaia di colori di mais e poi fagioli, zucche, amaranto.
Tra le montagne del Chiapas – dove si lotta ancora contro le stesse logiche colonialiste, camuffate da altri nomi, altri volti, altre parole menzognere.

 

Io ho imparato che tutte le parole sono vuote se non le misuri sempre con la parola più difficile, la più abusata, la più negata.  La più preziosa dote che tutti, come esseri umani, possediamo sin dal primo momento in cui apriamo gli occhi su questa terra. Libertà.

Scoprendo la selva con Lupita e Tomasa Juana, ricevendo le erbe che curano di Ana Rosa, ascoltando la voce tranquilla di Jorge che racconta attorno al fuoco, tomando pozol y tamales con le compagne e i compagni zapatisti, ho imparato per la prima volta cosa significa la parola libertà.
Quanto sacrificio essa comporta e quante poche persone sono davvero disposte a lottare per mantenerla viva.

Oggi il cuore fa un po’ male nel leggere queste parole delle compagne zapatiste, che spero trovino conforto, presto.
¡Hasta la victoria, siempre¡