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Taranto / Ilva, “Arbeit macht frei”

La scritta che stava all’ingresso del campo di concentramento di Auschwitz, è stata riportata su un cartello, alla manifestazione del 17 agosto a Taranto, organizzata dal Comitato “Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti”.

22 Agosto 2012 - 13:05

La devozione dei tarantini verso Maria Vergine Immacolta, una statua di legno fatta arrivare da Napoli nel 1679, discende dal 7 dicembre del 1710, quando la città di Taranto fu scossa da un forte terremoto che miracolosamente non creò disastri. La credenza racconta che il simulacro tese e congiunse le mani verso destra per allontanare il terremoto dalla città. Infatti, anche quando, nel 1743, il sisma ritornò facendo morti e feriti nel circondario, Taranto venne risparmiata.

Qualcuno sostiene che quello che non fecero le scosse telluriche in passato, l’ha prodotto la siderurgia “sporca” dell’Ilva negli anni recenti. Forse, è per queste ragioni che parecchi tarantini, per esorcizzare i disastri ambientali del colosso siderurgico, hanno elevato a icona il Gip Patrizia Todisco, il magistrato che ha decretato il sequestro degli impianti affinché fossero risanati, ma “senza prevedere alcuna facoltà d’uso”.

Questo sentimento devozionale all’azione del giudice Todisco lo si è visto in diversi interventi e in alcuni striscioni, nel corso della manifestazione che si è tenuta il 17 agosto, in Piazza Maria Immacolata, in contemporanea all’arrivo a Taranto dei ministri del governo Monti, Corrado Clini e Corrado Passera, venuti per incontrare i rappresentanti dell’azienda, i sindacati e gli enti locali, per trovare le modalità per garantire il proseguimento della produzione della più grande acciaieria d’Europa.

Per la stessa giornata, però, a un’altra icona tarantina è stata vietata la presenza in piazza. Si tratta dell’ormai famosa Apecar che, lo scorso 2 agosto, durante la manifestazione dei sindacati confederali, guidò la contestazione ad Angeletti, Bonanni e Camusso, diventando il simbolo del “Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti”, cioè di quell’aggregazione spontanea, autonoma dai partiti, che ha per portavoce alcuni operai dell’Ilva, come Cataldo Ranieri e Massimo Battista, e che ha messo insieme ecologisti e ambientalisti, ragazzi dei centri sociali, militanti dei Cobas, rappresentanti di alcuni ordini professionali, agricoltori e, perfino, gli Ultras del Taranto. Il collante di questa aggregazione variegata è la contrarietà al fatto che l’Ilva continui a mietere vittime, inquinare e intossicare e l’irritazione verso tutti coloro che questa situazione l’hanno fin qui tollerata e coperta: dalle istituzioni ai politici locali e nazionali, da CGIL-CISL-UIL a Confindustria, dai tecnici dei falsi organismi di controllo ai maneggioni e intrallazzatori che, in questo contesto, hanno lucrato.

L’Apecar è stata costretta a stare in garage, si diceva, dalle disposizione del questore Mangini, che ha interdetto l’utilizzo del motocarro essendo considerato, dai responsabili delle forze dell’ordine, “un pericolo per l’incolumità pubblica”. Oltre a questo, sono stati vietati, sempre per questioni di ordine pubblico, tutti i cortei, per l’intera giornata del 17. Inoltre, alcune zone vicine alla Prefettura sono state interdette al transito e quasi tutte le strade del centro storico sono state transennate e presidiate da più di 400 tra agenti, carabinieri e finanzieri, trasformando Taranto in una grande “zona rossa”. La sola cosa autorizzata è stata un’assemblea all’aperto in piazza Maria Immacolata e lì si sono ritrovati in tanti, fin dal primo mattino. Microfono aperto e continui interventi. Gli ambientalisti e gli agricoltori hanno strappato applausi ringraziando dal palco il GIP Patrizia Todisco, ma l’ovazione è stata forte anche quando una militante dei Cobas ha consigliato di stare attenti a mettersi nella mani della magistratura, ricordando le 41 denunce scattate dopo la contestazione del 2 agosto.

Se si vivono queste contraddizioni è perché la politica è stata assolutamente subordinata agli interessi di profitto dei padroni dell’Ilva e lo sta a dimostrare il fatto che il solo pronunciamento del nome di Vendola è stato coperto da una selva di fischi. Gli operai che erano in piazza e che hanno coordinato lo svolgersi della giornata hanno quasi tutti meno di quarant’anni. Erano lì e non ai blocchi stradali sulla via Appia contro la chiusura dello stabilimento, organizzati dalla Fim e dalla Uilm, perché non ne possono più di un lavoro che uccide e che mina la loro salute e quella dei loro famigliari: “Se l’Ilva chiude si va in cassa integrazione, se non chiude si va nella cassa da morto”.

Sono espliciti anche i cartelli che portavano: “Ilva: Arbeit macht frei”, “Via i tumori dalle buste paga”, “Le nostre vite valgono più dei vostri profitti”, “Un governo golpista… una fabbrica stragista”.

Hanno gridato provocatoriamente “più Apecar meno ciminiere”, perché biasimano il fatto che il loro Apecar sia un pericolo, mentre i veleni si possono respirare a pieni polmoni.

In piazza c’è stato anche il momento della commozione ed è quando la pediatra che lavora al rione Tamburi ha urlato dal palco: “Ho visto tanti bimbi morire… alle mamme consigliavamo di lavare i loro figli in continuazione… in quale altra città del mondo succede una cosa simile?”.

Anche lo striscione, srotolato ai lati della piazza dai ragazzi di Tamburi è chiaro: “Diritto alla salute senza compromessi”.

Poco prima di mezzogiorno gli oltre duemila presenti hanno rotto gli argini dei divieti e hanno imboccato il corso centrale per dirigersi in corteo fino alla vicina piazza della Vittoria. I manifestanti non hanno avuto bisogno del sound system, l’intero percorso della sfilata è stato pervaso da slogan e cori scanditi dall’esperienza ritmica degli Ultras: “Taranto libera”, “Riva boia” , “Non ci avrete mai come volete voi” e “Noi vogliamo vivere”.

Quando sono arrivati a pochi centimetri dai cordoni di polizia, si sono messi in cerchio e hanno ripreso l’assemblea aperta, con tanti interventi e testimonianze. Drammatiche e cariche di emozione le parole di Francesco, un giovane operaio dell’Ilva, ammalato di cancro e licenziato dall’azienda “per il prolungarsi eccessivo della malattia”. Sollevando a più riprese la maglia e facendo vedere il tubicino della chemioterapia, ha esortato tutti a resistere, a non delegare a nessuno, tanto meno ai politici o a un governo non eletto dal popolo, il proprio diritto alla salute.

 

IL PARTITO LAVORISTA PUGLIESE 

L’aggregazione molto variegata che si è vista in piazza il 17 agosto ha scatenato l’apprensione di molti commentatori politici, primo fra tutti Peppino Caldarola (ex dirigente del PCI pugliese, in seguito parlamentare dei DS, poi direttore dell’Unità e dopo giornalista del Riformista). In vari editoriali sul Corriere del Mezzogiorno, prendendo spunto da un documento di alcuni centri sociali e di diverse realtà di movimento del centro-sud, ha messo in guardia sul pericolo che, attorno alla vicenda dell’Ilva di Taranto, si creino sacche di resistenza simili a quelle consolidate in Val Susa contro la Tav. Per Caldarola, “Taranto ha bisogno di un altro miracolo… Un Angelo vendicatore, nelle vesti di un GIP irriducibile ha messo tutto in discussione… La fabbrica sembra ancora una volta di fronte al baratro, mentre festeggiano gli ambientalisti e quello strano miscuglio di estremismo e fancazzismo che proclama la fine del lavoro e l’avvento del salario per tutti e che celebra su un’Apecar la morte dell’acciaieria… Ma le avvisaglie del miracolo ci sono tutte… I ministri si sono precipitati a Taranto, il governo ha spinto l’azienda a sganciare altri soldi, Vendola può essere fiero del lavoro che ha fatto… l’azienda si è presentata con un volto nuovo”.

Una prosa poetica che supera di gran lunga quella ormai stantia del presidente della Regione Nichi Vendola che, da parte sua, mette in guardia sul fatto che “la città uscirebbe sconfitta da una mini-guerra civile perché Taranto ha diritto di avere un’industria moderna e salubre e i cittadini di avere lavoro e salute”.

E Caldarola va oltre, sostenendo che in Puglia l’asse tra Sel e il PD è un’alleanza che ha funzionato, “al punto che anche il dialogo con i moderati cattolici, e persino con Fitto sul caso Ilva, è andato più avanti di quanto le polemiche nazionali abbiano cercato di coprire”.

Il buon Peppino si è pure emozionato osservando “un mondo politico che ha scoperto che la Puglia non è solo la bellissima Notte della Taranta, ma è affollata da operai e da gente che vive producendo merci e risorse per il resto del Paese”.

Ma, al di là dei balletti e dei deliri della politica ufficiale, a Taranto, come in precedenza era già avvenuto a Pomigliano e a Mirafiori, ha preso corpo un partito lavorista trasversale, guidato dai padroni dell’Ilva, dalla Confindustria pugliese, dagli amministratori locali, da quasi tutte le forze politiche, con FIM e UILM che, come per le vicende FIAT, cercano di organizzare una massa operaia allineata alle esigenze padronali.

A differenza di Pomigliano e Torino, qui la FIOM ha avuto un comportamento ondivago e, solo ultimamente, si è sottratta alla logica che per anni è andata per la maggiore: “per vivere bisogna lavorare e, se si ha un lavoro, bisogna tenerselo stretto, anche a costo di lasciarci le penne o ammalarsi gravemente”.

A Taranto, l’Ilva non ha avuto il volto truce di Marchionne. La sua offensiva comunicativa è passata attraverso uno spot pubblicitario ottimista, lavorista, progressista e ambientalista. Un messaggio semplice e diretto, con un’unica immagine: una tuta da operaio dal colore forte, il “blu mare di Puglia”. L’abito da lavoro è ben piegato e stirato, sembra la mitica “divisa” dei comunisti cinesi. Lo spot non ha il compito di promuovere un prodotto particolare, una merce o un manufatto: è il lavoro all’Ilva in quanto tale che viene caldeggiato. Una voce calda e suadente racconta la storia a lieto fine: “Questa tuta dice molte cose della persona che la indossa… Si chiama Luca Basile e lavora in Ilva, il più grande stabilimento siderurgico d’Europa… Quello che non dice è che Luca è uno dei migliori tecnici ambientali al mondo… Quello che non dice è che, grazie a Luca, l’Ilva e Taranto avranno un futuro più sostenibile… Ilva: c’è un mondo dentro…”

IL “FUTURO SOSTENIBILE” E LA REALTA’

Cos’è questo futuro sostenibile? Secondo il “Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti”, l’Ilva emette nell’aria il 10% di tutto l’ossido di carbonio prodotto in Europa. Nella storia dell’Ilva si contano 180 morti sul lavoro, 8 mila invalidi e circa 20 mila morti di cancro e leucemia. Nei mesi scorsi sono stati abbattuti 1.600 capi di bestiame intorno agli stabilimenti siderurgici di Taranto. Nel 2011 sono andate distrutte 405 tonnellate di cozze contaminate da pcb e da diossine oltre i limiti di legge. Anche per il 2012 l’ASL di Taranto ha ordinato la distruzione dei mitili e lo smaltimento in discarica a carico del Comune entro il 24 agosto. Nel formaggio locale i livelli di diossina sono tre volte superiori ai livelli tollerati per legge. Per il Registro Europeo sulle Emissioni Inquinanti (EPER), mentre nel 2002 gli impianti di Taranto emettevano il 30% di tutte le diossine prodotte in Italia, nel 2004 questa cifra è balzata all’83%. Si tratta di quasi il 10% di tutta la diossina prodotta in Europa. Dati più recenti del Registro INES (Inventario Nazionale delle Emissioni e delle Sorgenti, che contiene informazioni su emissioni in aria e in acqua di specifici inquinanti, provenienti dai principali settori produttivi e da stabilimenti di grossa capacità, presenti sul territorio nazionale) stimano che dall’Ilva fuoriesca il 90% di tutta la diossina italiana. A Taranto, ci sono bambini di 10 anni del rione Tamburi che hanno tumori di tipologia adulta e patologie da fumatori incalliti. Taranto vanta il primato delle patologie tumorali all’apparato respiratorio. Respirare è un po’ come morire: le emissioni di diossina aumentano da 4 a 8 nanogrammi al metro cubo (il limite europeo è di 0,4 nanogrammi). L’Ilva è ormai un reperto di archeologia industriale, il suo ciclo produttivo si basa sul cokeraggio e sull’altoforno. Le cokerie e gli impianti di agglomerazione producono quantità pericolosissime di inquinanti: le diossine, il benzene, gli idrocarburi policiclici aromatici. Oltre ai fumi, ci sono poi le polveri di coke dei parchi minerali dell’Ilva che vengono stoccate a cielo aperto, a ridosso di luoghi abitati, e si insinuano ovunque. La fulligine rossastra copre ogni cosa.

L’attuale ministro dell’Ambiente, Corrado Clini, nel 2008, da direttore generale del Ministero, invece che investire in conversioni produttive meno impattanti per ridurre le emissioni, decise di fare sconti alle grandi imprese che inquinavano di più, distribuendo 2,5 miliardi di euro di permessi gratuiti, nell’ambito del sistema di scambi di emissioni previsto dal Protocollo di Kyoto. Tra chi beneficiò di quegli sconti c’era il gruppo Riva.

A causa di queste scelte politiche si è accentuato il rapporto della città di Taranto nei confronti del polo siderurgico, al tempo stesso i dati sui rischi per la salute e sulla diffusione delle malattie tumorali, tenuti nascosti e manipolati per anni, stanno a dimostrare le proporzioni della catastrofe ambientale in atto.

Fino ad ora, malgrado tutto questo, l’Ilva non si è fermata, la logica del profitto non ha ammesso pause e deroghe.

La classe operaia tarantina in paradiso non ci è mai andata e, secondo l’ideologia lavorista, si dovrebbe accontentare dell’inferno costruito dai suoi padroni.

Per fortuna, a partire da questo mese di agosto questo automatismo si è inceppato.

Creando un bel po’ di scandalo e di rumore, qualcuno ha preso il destino nelle sue mani e ha cominciato a parlare di diritto alla salute e di diritto al reddito per tutti.

Chissà che questa non sia la volta buona