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Speciale / Sante Notarnicola: “Mediai durante il sequestro di Giovanni Falcone. E lui…” [video]

Terzo dei quattro articoli dedicati all’autore de “L’anima e il muro”. Sante rivela i retroscena del sequestro operato da un detenuto, che gli chiese di mediare. Il giorno dopo, significativo faccia a faccia con il magistrato.

11 Febbraio 2014 - 11:21

In questo articolo, il terzo della serie dedicata alla presentazione a Vag61 de “L’anima e il muro”, Sante ripercorre alcuni dei passaggi fondamentali degli anni di lotta in carcere. La tortura, la scelta di ribellarsi, il coinvolgimento dei detenuti non politicizzati, l’importanza di poter scrivere e il ruolo della cultura, gli accusati che si trasformano in accusatori, il “lager” ed il confronto con Primo Levi. Infine, un aneddoto risalente al 1976 quando Sante era rinchiuso a Favignana e in quello stesso carcere un detenuto sequestrò Giovanni Falcone.

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Tortura e democrazia

“L’anima e il muro” è composto da due parti, “una di poesia e una con la sintesi di tutto quello che può essere stata non solo la mia vita ma anche quella di centinaia di migliaia di compagni all’interno delle prigioni”. L’autore dell’introduzione e curatore del volume, Daniele Orlandi, “non è né un avversario né un compagno. E’ uno studioso di storia, molto puntuale e ve ne accorgerete. Aveva capito così tanto della nostra storia che ha fatto un’introduzione che andrebbe letta. Generalmente con le introduzioni dico ‘me la leggo dopo, ora leggo il libro’, ma poi mi scordo. In questo caso è diverso, anche perchè ci sono mille notizie, ricordi ed episodi che appartengono un po’ a tutti noi, a tutti i percorsi di quelli che si avvicinano alla mia età. Perchè non c’è assolutamente nessuno che vi possa raccontare quella storia.

Ho fatto un’esperienza abbastanza recente con una professoressa dal nome importante, a Bologna. Mi sono affacciato perchè faceva qualcosa sugli anni Settanta, ma la povertà culturale, umana e politica era qualcosa che veramente ti saltava agli occhi. Da dire ‘no, non si fa così. Non si insegnano così le cose’. Io ho potuto fare solo un mezzo intervento, così, abbozzato, parlando di tortura e di tutto quello che questa ‘Repubblica democratica’ aveva messo in campo. Lei rifiutava anche l’evidenza. Oggi sul Corriere ci sono le motivazioni di un processo abbastanza importante, che però è ridotto a così”, un trafiletto, “in cui i giudici hanno stabilito che sì, la tortura contro i rivoluzionari degli anni Settanta era pratica consueta. Non era qualcosa che apparteneva all’Argentina, al Cile o ai Paesi
orientali ma era una questione anche nostra. Loro continuano a dire che la democrazia ha vinto con le armi della democrazia. No, ha vinto anche con un po’ di elettricità e mazze da baseball sui coglioni. Così ha vinto”.

La scelta di lottare e i “ragazzi svegli”

“Di fronte a quel tipo di carcere medievale noi ci siamo ribellati immediatamente. ‘No, io non ce la faccio’. A noi, intendendo la banda, che comunque ha avuto un ruolo in tutta questa storia, non ci andava bene. Ma stava anche cambiando la cultura che entrava nelle prigioni. Era ancora un carcere vecchio nelle sue strutture, ma la gente che arrivava era gente che all’interno della famiglia e dei quartieri aveva visto, aveva capito che c’era qualcosa che avanzava, che cominciava a dar loro un minimo di coscienza. Soprattutto nelle fabbriche. Quando entravano, diciamo che loro erano le pecore nere della famiglia. Magari avevano una famiglia molto onesta, rigorosa. Poi, se erano comunisti, tre volte più onesta. Arrivavano con questo bagaglio, con cui è stato immediatamente facile venire in contatto e confrontarsi” per “dire ‘è inaccettabile’, tenendo poi conto che all’esterno, nello stesso periodo, c’erano i movimenti, quelli che provenivano addirittura da piazza Statuto. Era partita una contestazione generale verso tutti i tipi di autoritarismo, che erano asfissianti e moltissimi. Il giudice, il padre, la madre… Questo ha fatto sì di farci dire ‘tutto il mondo sta cambiando, e noi?’.

Lì si decise per la lotta. Non sapevamo come fare. Gli unici eravamo noi ad avere qualche esperienza politica, per l’appunto di piazza Statuto, se vogliamo, ma soprattutto del lavoro che facevamo, nelle fabbriche, come sindacalisti, come comunisti addirittura. I primi strumenti li conoscevamo ed il primo di questi era mettere d’accordo tutti. Cosa in cui voi non riuscirete mai… Noi in galera l’abbiamo fatto. E in galera c’è il massimo della soggettività, il massimo. Tu vedi ragazzi che dici ‘più in là, più all’estremo di così c’è la
morte, la violenza più totale’. Questi, che hanno sempre soggettivamente tirato i loro interessi, con rapine e furti, metterli insieme non è stata una cosa semplice. Sapete cosa? Ci ha aiutato molto il mandato di cattura, perchè in quel momento come noi non c’era nessuno in galera. Io avevo un mandato di cattura tale per cui se ti dicevo una cosa, tu dovevi dire sì, non potevi dire no. Lo strumento era quello. Ma l’avevano capito anche loro che era l’occasione. Per cui, quando è cominciata l’adesione di dieci o quindici ragazzi svegli, che ti saltano sui muri come i gatti e sono capaci di affrontare a mani nude anche una guardia con il mitra, quando hai conquistato quelli, puoi cominciare ad organizzare bene tutto quello che può essere un percorso lungo nel tempo.

Però c’erano degli impedimenti. Quando siamo entrati noi, c’erano dei pezzi di mozzicone di matita. Uno, per farmi un regalo grosso, perchè mi voleva conoscere, tirò fuori un pezzettino di matita. Io dissi ‘vabbè, grazie…’. E lui: ‘Non fartela trovare perchè finisci alle
celle’, e lì mi ha spiegato. Era proibitissimo, come se ti avessero trovato un coltello. Si era accorto che ero crudo dei regolamenti scritti e non scritti del carcere. Una delle prime cose ovviamente fu quella. Altrimenti questo libro non sarebbe stato possibile, come tanti altri. Il carcere, se noi lo vediamo dagli anni Settanta e Ottanta, ha prodotto un casino di libri, testi, documenti. Anche dal punto di vista rivoluzionario sono state prodotte cose che ormai non si leggono più, perchè la fase è cambiata e non è cambiata in meglio”.

Questione di linguaggi

Affrontare il tema del linguaggio con le Brigate Rosse non era facile. “Quando ne ho parlato con loro ufficialmente, la risposta fu abbastanza infelice perchè dissero ‘a noi interessano i quadri del movimento, in questa fase’. Secondo me era un errore e a lungo errore lo si è pagato. Già eri in carcere, quindi già avevi scarsi strumenti per confrontarti con le masse, come si diceva allora, con i movimenti. Se poi avevi quel tipo di atteggiamento…”.

Vittorie culturali

“Attraverso la lotta abbiamo avuto sia la penna che i block notes. Tenete conto che la nostra lotta aveva creato molto interesse all’esterno, nei movimenti che crescevano, soprattutto con Lotta continua, che tra l’altro erano quelli che in quel periodo entravano
più spesso in galera, perchè ogni sabato c’era una manifestazione e quindi scontri. Magari restavano poco tempo, cinque o sei giorni o a volte un mese, ma per noi era tutta manna. Avevamo l’opportunità di confrontarci, di spiegare quello che volevamo e fummo talmente
convincenti che, nei primi anni, quel movimento anche nelle carceri si poteva considerare di Lotta continua”. Quelli che arrivavano in carcere “erano ragazzi intellligenti, che avevano fatto un po’ di scuola, non erano più i ‘caprones’ di prima. Quindi nascevano esigenze culturali, di capire le cose, di scriverle. Questa è stata una grossa vittoria: centinaia di piccoli o grossi delinquenti che ad un certo punto si sono messi a studiare i libri, a studiare Marx. Vi dirò che il carcere ha prodotto dei veri e propri quadri rivoluzionari in quegli anni, che poi hanno dato vita ai Nap o sono entrati nelle Br non solo con dignità ma anche con capacità. Dal punto di vista culturale, penso sia stata la vittoria più grossa che noi abbiamo messo in piedi”.

Da accusati ad accusatori

Quello della banda Cavallero fu “il primo processo di rottura. Non ero più l’accusato, ma accusavo. A partire dalla mia condizione di detenzione, io vi accuso. L’ergastolo me lo merito tutto, non ho mai mendicato ‘datemi solo 30 anni’, non mi interessava. Il problema non era quanto carcere mi dai ma quale carcere”. L’effetto “che questo atteggiamento ebbe in tutta la popolazione detenuta fu che rapinatori e ladruncoli raccolsero questa cosa”. La lotta “aveva creato una coscienza tale che arrivavano i ragazzi e dicevano: ‘Ho il processo
giovedì. Voglio fare come hai fatto tu in Corte d’Assise'”. Magari li aspettava un processo in cui rischiavano solo sei mesi, “ma erano irremovibili”. Così “preparavamo un documentino e loro arrivavano in aula e lo spiattellavano davanti al presidente. Il rischio era notevole, io dicevo loro di non fare cazzate: ‘Ma fallo fare a quell’altro, che deve prendere 20 anni e se ne prende 22 chi se ne frega'”. Fu quella “una forma di lotta scritta, e pensata. Che ha dato
dei risultati.

Anni dopo, nel ’75 le carceri ormai erano ingestibili, le lotte erano continue e si facevano sempre più pesanti e insieme alle lotte le evasioni. A mano a mano che lottavi, conquistavi spazi e demoralizzavi le guardie, che non erano abituata a vedere il Ministero elargire spazi. Così, tu avevi una situazione eccellente e avevi tempo per dedicarti a preparare le evasioni: come si faceva a quei tempi lì, segando le sbarre, non dai permessi”. Tutto questo “affrettò
l’emanazione del nuovo regolamento penitenziario”. Poi, in seguito, “l’individualizzazione della pena fu la sconfitta generale di quel tipo di lotta, non l’avevamo previsto e calcolato. Lo pagammo amaramente. Tutti i detenuti che avevano organizzato le lotte passarono armi e bagagli alle carceri speciali, in un isolamento totale dalla massa, e lì finì la storia di una stagione”.

Primo Levi e il “lager”

Nel 1979 Sante, che gli aveva inviato una raccolta di proprie poesie, ricevette una lettera da Primo Levi il quale contestava l’equiparazione tra il carcere di quei tempi ed i lager nazifascisti. “Primo Levi mi scrisse. Fu molto carino. Noi usavamo quel termine, ma anche tanti altri”. Ad esempio, quando vengono scoperte case di riposo che trattano gli anziani in modo disumano. “Ma questa cosa lo faceva incazzare, perchè diceva che il lager era una cosa unica. Lì si moriva, lì si era innocenti. Mi mise parecchio in difficoltà, perchè una parte della mia cultura veniva dai suoi libri e da quello che era stato scritto su di lui”. Levi scrisse che “Ad Aushwitz non si scrivevano poesie, ad Auscwitz morivano 10.000 persone al giorno e non avevano fatto niente, solo perchè erano ebrei, slavi, zingari o gay”. Lo Stato italiano, invece, “non voleva il nostro annientamento fisico, anche se in qualche caso quella soluzione ci ha sfiorato. Ad esempio durante la prigionia di Moro: si è saputo che a qualcuno era saltata in testa l’idea di far secchi tutti i 13 prigionieri di cui le Br chiedevano la liberazione”, tra i quali figurava lo stesso Sante. Lo Stato “vuole la nostra resa. Un comunista, un militante che dovesse perdere la sua identità è una cosa drammatica. Perdi la tua gente, i tuoi rapporti, tutto quello che hai costruito negli anni. Se mi demolisci politicamente, non mi resta che spararmi, se ne ho la possibilità, oppure impiccarmi ad un’inferriata”.

“Mediai nel sequestro di Falcone. E lui…”

“Stasera vi voglio demolire un mito. Pochi miei amici, oltre che compagni, sanno questa cosa”, una delle “cose più carine che mi sono capitate in galera”. Un giorno “entrai nella casa di un compagno e vidi che sul comodino aveva la fotografia di Giovanni Falcone. Dico
‘scusa, ma che c’entra?’. Lui: ‘Sai, le lotte civili, la mafia…’. Ora ve la racconto come la raccontai a lui. Quando andai via, il santino l’aveva tolto. Ma chissà, magari poi l’ha rimesso. Ero nel carcere di Favignana, era il 1976. Un carcere particolare, è come una
casbah. C’ha un sacco di viuzze, tutte cancellate, nel tufo. C’era una particolarità, me la tiro un po’ ma era così: io, insieme ad altri due o tre in tutta la storia penitenziaria, avevo un controllo a vista. Significava che un turno di guardie era addetto alla mia persona, a non perdermi di vista. Tre turni, perchè quello notturno mi chiudevano e quindi non c’era bisogno. I primi tempi era un po’ fastidioso, ma poi ci fai l’abitudine.

Successe che ci portarono il nuovo giudice di sorveglianza, che appunto si chiamava Giovanni Falcone. Noi dal giudice non ci andavamo, non ce ne fregava niente. Era un pivello, non ci interessava la cosa, non avevamo richieste da fare a lui. Arrivò un detenuto
particolarmente turbolento. Era il massimo della soggettività e dell’amoralità”, era “una cosa complicata da gestire. Inoltre era pericolosissimo, uno facile di coltello. Arrivò in questo carcere e, dati i precedenti, evidentemente aveva dei conti aperti: lì c’erano molti mafiosi che contavano, erano tutti lì in quegli anni perchè era un carcere dove non ti rompevano le palle. Subito lo misero alle celle. Disgrazia vuole che erano vicine a dove dormivamo noi e lui, attraverso il lavorante, mi mandò a chiamare: ‘Mi faccio vedere al
cancello perchè ho bisogno di parlarti’. Va bene, andai al cancello: ‘Che c’è?’. ‘Guarda, devo prendere per il collo il giudice, perchè qua i mafiosi mi vogliono fare la pelle’. Avevano ragione i mafiosi, in quel caso lì… Gli dico: ‘E io che c’entro?’. ‘Io l’ho già chiamato, quando arriva lo prendo e tu mi devi reggere la questione’. ‘Ma qual’è il tuo obiettivo?’. ‘Andare via il più velocemente possibile da qua, perchè se no mi ammazzano’. Anch’io ho un’etica: ‘Va bene, se è così…’.

Passò un giorno e cominciammo a sentire agitazione tra le guardie, pensai: ‘L’ha preso’. Infatti, dopo un paio d’ore arrivarono maresciallo e direttore. ‘Notarnicola, è successa una cosa molto grave. Bisogna che lei venga su’. ‘E’ successa una cosa grave e io devo venire su? Scusi ma cosa volete?’. ‘No venga, abbiamo bisogno di lei, è anche il detenuto che lo chiede’. Andai. Entrai nella stanzetta, le guardie stavano tutte dietro. C’era Falcone, aveva un segno qua”, sotto il mento, “si vedeva che era stata la punta di un coltello. Evidentemente, prendendolo, mettendogli il coltello alla gola l’aveva” ferito. “Non sanguinava neppure, ma era proprio alla giugulare. Io entrai in questa stanza e misi in chiaro solo una cosa: ‘Mi avete chiamato voi, tu giudice e…’. E il giudice: ‘Ma veramente…’. Io: ‘Me ne vado?’. ‘No, no, resti, resti’. ‘Qual’è la situazione?’. Il detenuto la spiegò: ‘Io devo assolutamente andare via da qui’. Intanto i giornali radio già cominciavano a parlare di un
giudice sequestrato, la televisione cominciava ad aggiornare ogni quarto d’ora. Dico: ‘Se è solo questo, non dovrebbe essere difficile, per cui stai tranquillo’. In effetti lui era freddo, in queste cose era bravo. Ma gli dissi: ‘Non farmi scherzi, perchè se li fai a lui li fai anche a me, mi metti in una brutta situazione’.

Partirono le trattative, arrivano i procuratori e le squadre d’assalto. Tutto cominciò verso le due e si concluse verso le undici di sera. Intervennero anche altri personaggi, ad esempio Ciaccio Montalto, che poi fu ucciso dalla mafia un paio di anni dopo. Diventò un’assemblea e io facevo sempre attenzione che non facessero un assalto. Infatti i compagni, dato che la finestra dove si svolgeva tutta questa cosa dava su un cortile, presero dei materassi e li
misero sotto. Mi dissero: ‘Sante, se tu senti che questi arrivano e sparano, gettati dalla finestra. Ti romperai una gamba, ma noi siamo lì a prenderti’. Era l’unica cosa possibile da fare, perchè c’era chi spingeva” per intervenire con un assalto. “Alle undici la cosa finì.
Lumia era il procuratore generale di Trapani. Si accettò che il detenuto venga portato via e parte, in mezzo ad un nugolo di guardie. Ma dissi al procuratore: ‘Se gli danno solo uno schiaffo…’. Lui risponde: ‘So come la pensa lei. So che è un fiero avversario, però ci ha dato una mano’. ‘Guardi, io mi preoccupavo solo per il detenuto. Per il giudice vi siete preoccupati voi, per cui due preoccupazioni hanno risolto la cosa. Bona lè’.

L’indomani mattina, questa è la ciliegina, arrivarono di nuovo maresciallo e direttore. Andammo su. Il direttore disse: ‘Io devo fare per lei un encomio solenne’. ‘E che significa? Dove vuole arrivare?’. ‘E’ una cosa molto importante, che si dà raramente nelle carceri.
Significa che lei tra tre o quattro anni potrebbe uscire’. E io, bello fiero: ‘No, sarà la rivoluzione a liberarmi’. Che cretino… Mi pregò: ‘Ma no, ci pensi, ci pensi’. Io pensavo a tutti i miei compagni che seguivano la cosa, alle carceri in subbuglio. Ce n’erano alcuni che si erano già preparati: se mi succedeva qualcosa, succedeva un casino. La questione finì lì. ‘Ma viene con noi dal giudice? Perchè è tornato al lavoro’. Lui alle dieci era già lì”, ma non più dove si era verificato il sequestro. “Avevano fatto un ufficio vicino a dove io sapevo c’era il bar delle guardie. E il maresciallo, che sapeva che per noi tutte le scuse erano buone per arrivare lì e farci un cognacchino, disse: ‘Sante, sai, c’è il bar delle guardie…’. ‘Ah beh, allora, andiamo… Ma cosa volete dal giudice’. ‘Vorrà ringaziarla’. ‘Veramente? L’ha
detto lui?’. ‘No, ma noi l’immaginiamo’. ‘Secondo me immaginate male, comunque già che ci siamo, andiamo. Andiamo al bar… Anzi, prima dal giudice e poi al bar…’. C’era una porta aperta. In fondo c’era il giudice. Alla porta c’eravamo io, il direttore e il maresciallo. Lui
girò la testa, guardò tutti e tre… e poi si rimise a scrivere. Allora il maresciallo disse: ‘Cazzo, Sa, avevi ragione. A questo non gliene fotte un cazzo che tu gli hai tolto il coltello dalla gola.
Direttore, noi andiamo a berci qualcosa’. ‘Sì, sì, andiamo a berci qualcosa’. Insomma, è andata così”.

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