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Speciale / Oltre la polvere, l’autogestione

L’approfondimento promosso da Zeroincondotta sui temi dell’autogestione, con i contributi di diverse realtà citadine: Lazzaretto, Crash, Tpo, Vag61, Bartleby, Xm24, Atlantide, Làbas e Hobo.

29 Aprile 2013 - 10:35

Nelle scorse settimane abbiamo pubblicato “Chiedi alla polvere”, un’inchiesta con mappa virtuale sugli spazi sgomberati e poi rimasti abbandonati a Bologna. Indirizzi, date e immagini che rendono conto della miopia politica e amministrativa con cui le amministrazioni affrontano il tema degli spazi.

Per fortuna, però, questa è solo una parte del racconto scritto, giorno dopo giorno e anno dopo anno, dalle esperienze di autogestione che animano la città. Elaborazione politica e conflitto sociale, sperimentazione culturale, libera socialità. Percorsi di autonomia che devono farsi spazio tra le regole del mercato, della burocrazia e della rappresentanza confrontandosi con le mutazioni della militanza e la produzione di soggettività, le risorse dell’autoformazione e la condivisione dei saperi, la difesa dei beni comuni e l’innovazione delle forme di comunicazione, le maglie della precarizzazione individuale e le opportunità di autoreddito, cooperazione e mutualismo.

Per proseguire il nostro lavoro di inchiesta, attraverso un ragionamento collettivo su questi e altri possibili temi, abbiamo invitato le realtà e i singoli interessati a portare un contributo alla presentazione di “Chiedi alla polvere” che si è svolta venerdì 5 aprile a Vag61, nell’ambito di una serata di autofinanziamento per Zeroincondotta: prendendo spunto dall’inchiesta già realizzata, abbiamo cercato di raccogliere esperienze e riflessioni per capire cosa significa praticare autogestione oggi e quali prospettive si possono delineare per il futuro.

Nelle pagine che seguono, una panoramica dei contributi delle diverse realtà intervenute: Lazzaretto, Crash, Tpo, Vag61, Bartleby (sgomberato più volte negli ultimi mesi), Xm24 e Atlantide (attualmente sotto attacco da parte del Comune), Làbas e Hobo (realtà protagoniste di recenti sgomberi e ri-occupazioni).

> leggi il testo dello speciale in questa pagina o scarica il pdf

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OLTRE LA POLVERE, L’AUTOGESTIONE

Giorgio (Lazzaretto)
Quella sull’autogestione è “una riflessione fondamentale perchè queste pratiche rappresentano l’unica alternativa possibile, di fronte alla crisi devastante e alla grande sofferenza che le nostra città manifestano”. Per questo “dobbiamo avere la capacità di riproporre l’autorganizzazione come modello che rappresenta l’unica soluzione possibile alla crisi e l’unica forma di progetto politico per il superamento di questo sistema”. Quello che sta avvenendo nelle nostre città “è chiaro a tutti, c’è un livello di povertà diffusa che, al di là dei dati, ufficiali è veramente allarmante”. In questo contesto, “i percorsi di riappropriazione degli spazi fanno sempre i conti con un’altra difficoltà immensa: anche quei settori di classe che decidono coraggiosamente, come hanno fatto gli utenti del piano freddo che hanno occupato con noi in questi giorni, di rifiutare la clandestinità della miseria, della non dignità e del rischio morire di freddo scegliendo di fare un’occupazione, una volta fatto questo passo poi si scontrano con il problema incredibile del reddito”.

Ormai è evidente “l’assoluta incapacità da parte delle istituzioni di dare delle risposte, neanche sul piano assistenziale”, ma allo stesso tempo la crisi e la trasformazione dei tessuti produttivi “liberano nel tessuto urbano tutta una serie di spazi che rimarranno inutilizzati, non solo pubblici”. Così la città “è piena di spazi di grandi dimensioni, una volta produttivi e che oggi sono diventati inutili a causa dell’evoluzione tecnologica”. Questo è un dato importante perchè “se partiamo dai dati reali di ricchezza di cui la popolazione dispone, vediamo bene che condizioni dignitose di vita passano soltanto attraverso il reperimento di alloggi dal costo proporzionato alla ricchezza reale della gente, quindi ovviamente a basso
costo, e attraverso forme di reddito che non possono assolutamente creare plusvalore”. Oggi la gente “è talmente povera che se deve delegare anche solo uno dei vari sistemi gestionali che il sistema gestionale impone, non ce la fa, è automaticamente esclusa. Deve assumersi in toto la responsabilità della gestione, del recupero e della manutenzione che uno stabile impone, questo significa autogestione”.

Questo vale anche sul piano produttivo. “E’ evidente che la crisi irreversibile di questo sistema, che non può far altro che peggiorare, non può essere risolta con gli strumenti che il capitalismo utilizza normalmente per autopreservarsi”. Luoghi “di lavoro e di attività scevre dalla produzione di plusvalore, possono trovare in questa fase anche settori di mercato che potrebbero accogliere le loro produzioni, si può immaginare un settore produttivo al cui interno non esiste il plusvalore, in cui l’unico costo è quello delle materie prime e del salario di chi lavora, questo significa in altri termini autogestione”. L’esempio è quello delle le Fa.Sin.Pat argentine, “dove gli operai si sono riappropriati degli strumenti e della gestione totale delle fabbriche, oltre 200 stabilimenti autogestiti lì stanno funzionando” e “non hanno perso il loro portato rivoluzionario, visto che ad esempio nel salario degli operai viene conteggiata una quota minima che su base quindicinale serve a finanziare altri percorsi di lotta”.

Quando le ricchezze “che l’Italia ha sedimentato saranno esaurite, allora cominceremo anche qui a renderci conto di quanto sarà difficile andare avanti”. In questa prospettiva, “come movimento antagonista ci rimangono poche scelte: o lasciamo che qualcun altro, come successo con il M5S, si appropri del malessere e lo gestisca nei modi che ritiene opportuni, oppure noi ci mettiamo nelle condizioni di costruire una proposta politica forte e condivisa che possa essere posta con decisione come alternativa non solo al nostro settore militante, perchè questo è quello che purtroppo ha sempre rappresentato l’errore delle esperienze di autogestione, ma che venga posto come alternativa credibile per tutta la società e soprattutto per i settori che via via dovranno subire il peso della crisi, è una sfida che non possiamo più procrastinare”. Per concludere, “è vero che sono state fatte cose meravigliose all’interno dei nostri spazi, è vero che questi sono l’immagine concreta e tangibile del mondo che vorremmo, che sono pervasi da una reale democrazia trasversale, che sono luoghi in cui le relazioni sono decisamente nuove e non condizionate dai processi
produttivi, dove l’integrazione avviene ai massimi livelli. Abbiamo già percorso al nostro interno un lunghissimo tratto di strada, il problema che ci rimane è portarlo all’esterno e farne uno strumento politico che ci consenta di divenire protagonisti del conflitto sociale che già esiste ma che nei mesi e negli anni immediatamente a venire sarà sempre più ruvido”.

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Milvio (Xm24)
“Dopo quello che successo negli ultimi mesi, sia con Bartleby che con il rapporto che l’amministrazione vuole avere con noi, servirebbe ricominciare a fare po’ di muso duro e ricreare dei rapporti di forza, sembra che questa sia l’unica cosa che capiscono. Non si tratta di fare la guerra ma di riorganizzarci tutti insieme in città, soprattutto per la difesa degli spazi. Perchè se non riusciamo a difendere gli spazi che ci sono adesso, il discorso di Giorgio viene meno: cercare di creare nuove realtà autogestite senza riuscire a difendere quelle che ci sono sembra una cosa piuttosto complicata”.

In questa fase l’amministrazione “non sa che peschi pigliare, non sa che risposte dare ai problemi sociali che ci sono in città. Noi invece, nei nostri spazi, è quello che facciamo da quando li abbiamo aperti, anzi è anche per questo che li abbiamo aperti”. Però è necessario ragionare “tutti insieme, lasciando da parte le differenze che pure è giusto che ci siano, altrimenti non ne usciamo fuori. Sentire l’amministrazione dire che possono fare quello che le pare perchè ormai non abbiamo più forza, è una cosa che fa male dentro. Forse abbiamo lasciato loro troppa corda noi, firmando troppe cose in questi anni. Oppure hanno preso troppo spazio loro, mentre noi ci distraevamo pensando ad altro”. La cosa fondamentale, in ogni caso, “è ristabilire rapporti di forza in città, altrimenti il modello diventa quello cofferatiano che ha creato quello che ha creato e che ancora stiamo pagando”.

Giulia (Xm24)
“Della legittimazione che ci danno le istituzioni non ci interessa, la legittimità ci viene dalle persone che frequentano i nostri spazi e ci vedono un’alternativa a questo modello di sviluppo, al capitalismo e alla delega del proprio pensiero politico”. E’ importante cominciare “un percorso di emersione sul territorio, ci sono grossi sfilacciamenti tra di noi ma questi possono essere rinsaldati facilmente per fare qualcosa di grosso impatto sul territorio”. E’ necessario “alzare un po’ i toni e fare in modo di diventare interlocutori
politici al loro stesso livello, visto che di politico questa amministrazione non sta facendo nulla”. In altre parole, “cominciamo a metter un po’ di paura a questa gente, perchè siamo stati fin troppo zitti”.

Paolo (Xm24)
“Serve uno sforzo fantasia, perchè è di fanta-politica o fanta-amministrazione che si parla, per individuare un riconoscimento di tipo diverso per le realtà che viviamo, ognuno con le proprie particolarità, ma che non rientrano nello schema classico dell’associazione o, se ci rientrano, non lo vedono nè come una tutela nè come una forma naturale di espressione dei meccanismi decisionali, di autogestione e politici che stanno dietro a queste firme, richieste senza possibilità di alternative dalle istituzioni”.

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Marzio (Bartleby)
“Che non vengano riconosciute le esperienze politiche a sinistra del Pd non viene dall’altro ieri, c’è chi questo lo ha vissuto in maniera molto più pesante di come lo stiamo vivendo noi”. Che per le istituzioni “gli spazi si possano sgomberare o tutta una serie problemi sociali non esistano sta anche nel gioco politico ed è un gioco che, bene o male, ci siamo scelti”. L’importante è “nelle lotte concrete che ci sono state in città e a livello nazionale ci siamo sempre stati, dalla logistica alla casa. E’ un dato che c’è, anche se non verrà valorizzato a livello main”. Dunque “non mi scandalizza essere sotto attacco, se ci attaccano evidentemente qualcosa lo abbiamo imbroccato.

Che le istituzioni non abbiano idea di come comportarsi sulla gestione della città è vero ma fino ad un certo punto”, la politica è sì “molto più debole e dà sempre meno risposte” ma “dentro la crisi del pubblico, dei poteri ce li ha”. Quando si dice che “tanti problemi sono stati assolutamente ignorati, questo apre ad esperienze come quelle che evoca Giorgio ma anche a tanta disperazione perchè questa è la crisi e noi dobbiamo stare lì, è un momento in cui bisogna prendere molto seriamente l’essere militanti, perchè bisogna davvero rimboccarsi le maniche e inventarsi molte cose anche nuove”. Quando si taglia il welfare
“la risposta del Pd, in concertazione con sindacati e cooperative, è quella della sussidiarietà”. Tutte le volte che “abbiamo occupato degli spazi, abbiamo fatto quello che secondo noi rappresenta il modo in cui dovrebbe funzionare la città, così come per loro il modo in cui dovrebbe funzionare è semplicemente l’impresa. Non si parla più di cosa fai nè di come lo fai, perchè laddove comincia la sussidiarietà è chiaro che c’è una logica di impresa, anche se con tanto lavoro gratuito e tanti diritti che vengono cancellati”.

Di fronte a questo scenario, “è necessario cominciare a confrontarsi su che tipo di riposte si danno. Il discorso sulle fabbriche recuperate in Argentina è molto interessante, è da un po’ che anche noi ragioniamo sul mutualismo e ora come ora, se si parla di welfare, non si può non parlare di produzione”. Dentro la crisi l’unica risposta delle istituzioni “è il mercato, ma se il mercato non funziona non interessa a nessuno”. Per questo “ragionare di produzione e ragionare di mutualismo oggi è sicuramente un terreno importante, dentro una riflessione su cosa vuol dire autogestione e autorganizzazione”, analizzando “lo scarto essenziale tra la sussidiarietà che propone chi governa e il mutualismo, che è una risposta dal basso”.

Il tema dell’autogestione “e di una riflessione che dal basso riesca a produrre dispositivi di produzione e di vita in comune, sicuramente è un terreno che dovremo affrontare e sarà sempre più all’ordine del giorno. In Grecia autogestiscono gli ospedali e in Spagna si occupa in pieno centro per la casa e per molto altro, se prima o poi non ci arriviamo anche noi sarà per un deficit nostro, perchè la crisi picchierà sempre più forte”. Si deve aprire “un momento di riflessione e di confronto che chiami le cose con il loro nome, senza incrancrenirsi su una serie di differenze storiche tra di noi che hanno fatto il loro tempo e possiamo lasciarci alle spalle”. Di certo, rispetto al tema degli spazi in sè “bisognerà difendere quelli che già ci sono ed occupare ancora, perchè più ce ne sono di queste esperienze, più sono differenti e hanno diversi campi politici e sociali di applicazione della forza, più questo fa la forza di tutti”.

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Niccolò (Crash)
“Su alcuni passaggi sollevati non siamo d’accordo, a partire dal fatto che secondo noi il centro sociale non è e non dev’essere un’isola liberata, un luogo in cui i militanti si riconoscono come viventi rapporti che sono fuori da un sistema sociale. Per noi il centro sociale dev’essere attraversato dalle contraddizioni che caratterizzano la città in cui viviamo, deve assumerle, chiaramente con l’ottica di trasformarle. E’ sempre stato ed è tuttora un limite grosso quello di percepire il centro sociale come un luogo liberato, per noi è uno spazio da cui irradiare nella metropoli percorsi di lotta e di contropotere. Le forme di autogestione che mettiamo in campo nei nostri spazi sono sicuramente importanti da valorizzare, ma non devono essere assunte come modelli in miniatura di società a venire.

E’ un grosso rischio quello di perimetrarsi dentro confini chiusi e di autopercezione come alterità. In anni addietro, soprattutto quando il centro sociale è nato, ha rappresentato un’esperienza fondamentale. Le compagne e i compagni che hanno costruito i primi centri sociali meritano tutto il rispetto possibile, ma oggi bisogna immaginare passi in avanti e anche forme nuove in cui il centro sociale possa diventare hub, collettore”. Un ragionamento che riguarda la stessa parola “centro”: oggi che “la distanziazione tra centro e periferia entra in crisi, è importante porsi il problema di cosa vuole dire costruire centralità nella metropoli. Costruire un centro sociale, oggi, vuol dire costruire nodi e punti di conflitto che vanno a strutturarsi dentro l’università, dentro le scuole, nei quartieri o come nel bellissimo esempio delle lotte della logistica”. Dunque, “reimmaginare il fare centro come dimensione reticolare e diffusa della metropoli è la sfida che si pone, oggi, alle soggettività politiche”.

Nel caso di Crash, quella di aprire “un’esperienza di occupazione in epoca cofferatiana fu una scommessa, crediamo almeno parzialmente vinta, di costruire delle forme di antagonismo sociale e di massificazione delle lotte sull’opzione centro sociale”. Poi, negli anni successivi, “siamo usciti da quel periodo con un’occupazione che dura tutt’ora e non c’è mai interessato che il Comune o chi per esso non ci valorizzi e riconosca, anzi crediamo che più ambiti di mediazione si riescono a far saltare e meglio è”. In altre parole, “non ci interessa essere riconosciuti dalle istituzioni come luogo produttivo di non si sa bene cosa”, quello “a cui guardiamo non sono tanto le istituzioni ma come, dentro i rapporti sociali e dentro le lotte, gli spazi riescono ad emergere come livelli di contropotere”. Occorre “una tensione espansiva, che guarda al centro sociale sicuramente come punto fermo, ma comunque punto di irradiazione nella metropoli”.

Il tempo della crisi “non è tempo di resistenza, dentro una crisi gli attacchi alle condizioni di vita sono sempre più duri e violenti ed è anche facile immaginare un momento resistenziale, ma per noi la crisi è tutt’altro, è uno spazio di possibilità e le insorgenze del 2011 ci hanno fatto riacquistare la forza di parlare di rivoluzione”. Stare dentro questa crisi “per noi è starci in un’ottica belligerante e insorgente. Non tanto come dato ideologico, ma concreto, l’ottica in cui bisogna muoversi non è quella delle alleanze, chi lo ha sperimentato ha costruito percorsi che non sono andati molto in là”. Comporre “identità politiche e diversi percorsi come dimensione sradicata dai processi materiali è qualcosa che non serve. La sfida che abbiamo davanti è quella di comporre le lotte che ci sono e quelle che dobbiamo costruire ed implementare . Questa è davvero la dimensione strategica e progettuale che si pone per i movimenti a Bologna, in Italia e su un piano transnazionale. Dentro le lotte, lì sì è fondamentale limare e smussare le differenze e rilanciare in avanti, ma non prima di esse”. Tra le diverse realtà esistono “tante differenze che è anche giusto possano trovare spazi di confronto, però crediamo che partire da queste differenze per ragionare in avanti sia semplicemente non produttivo, è molto più importante partire dalle lotte, ragionare e sfidarsi su come comporre questo tipo di dimensione. Anche noi siamo convinti che la dimensione del centro sociale sia fondamentale, però negli ultimi anni abbiamo anche visto esperienze che si pongono il problema di come fare occupazione e autogestione ma su un piano più avanzato, come hanno dimostrato il movimento occupy e le acampadas”, capaci di “riappropriarsi di pezzi molto più ampi di terreno urbano e di
riproduzione sociale”. A questi si aggiunge un altro esempio, quello “a noi più vicino e che rappresenta un pezzo di patrimonio diventato comune, perchè abbiamo visto cosa ha voluto dire occupare per alcune settimane la cosiddetta libera repubblica della Maddalena”, in Val di Susa. E’ importante guardare a questi processi, è importante “avere quella tensione e guardare alla composizione delle lotte, è questo l’elemento strategico nella posta in palio decisiva”.

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Nico (Tpo)
“E’ poco interessante se i centri sociali siano isole felici e rappresentino alternative. Anzi, bene se anche dentro agli spazi c’è un po’ di ‘movida’, che però permette di essere enzima per il cambiamento fuori, è quello che ci interessa ora”. Tra le diverse realtà, “ognuna ha contribuito a rendere questa città un po’ migliore. Io continuo a chiedermi come i nostri spazi, che per forza di cose non sono più gli stessi di dieci o quindici anni fa, possano continuare ad essere enzima di cambiamento ed aiutare i conflitti. Questo è il nodo fondamentale”.

Questo sapendo che al momento “i rapporti di forza dei movimenti, in generale, siano ad uno dei livelli più bassi” di sempre, “al di là di alcune specificità che per fortuna ci sono state in questo Paese negli ultimi anni”. In particolare, “forse il tema della povertà non è risolutivo, ma posti come i nostri devono capire come rapportarsi con questo argomento specifico. Non so, ad esempio, se le nostre palestre ed i nostri sportelli, in questi momento, quale rapporto virtuoso possano avere ma potrebbe essere questo” un terreno da battere. Il tema da cominciare ad affrontare seriamente, di certo, è “come oggi possiamo attrarre a noi altri, cambiare i rapporti di forza attuali. Ovviamente partendo da un dato: in questa città ci sono posti sotto attacco e posti appena sgomberati e questi vanno difesi”, di fronte a questo scenari “ci si mette a disposizione di tutti gli spazi, veramente tutti”.

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Renato (Atlantide)
“La complessità che esce da questo dibattito mi sembra significativa. Non credo che tutte le esperienze siano uguali tra di loro, appunto perchè il reticolo del potere è diffuso i terreni di lotta sono tanti”. Il ragionamento “che abbiamo sempre fatto come Atlantide, anche nell’evoluzione della sua composizione di vari collettivi nel tempo, è stato quello di essere un luogo di attraversamento per portare all’esterno vari percorsi di conflittualità, di dissidenze e di lotte”. Le varie soggettività “devono avere la capacità di vedere la realtà che c’è fuori, quindi a partire dai propri bisogni, perchè la composizione sociale che c’è dentro gli spazi non è altra rispetto a quella che c’è fuori. Anche i nostri bisogni sono significativi di quelli diffusi e sociali che si possono intercettare. L’impoverimento riguarda anche noi, la necessità di riappropriazione, di reddito e di welfare dal basso riguarda noi come chi non attraversa i nostri spazi. Concordo sulla porosità di questa frontiera tra dentro e fuori e sul fatto che debba essere sempre aperta”.

Riprendendo alcune parti degli interventi di Marzio e Niccolò, “penso che gli spazi vadano visti come piattaforma per attraversare le lotte sociali, come un luogo di accumulo vitale e necessario per creare le proprie reti ma, appunto, rispetto al fuori”. Questo avendo di fronte “un piano istituzionale che magari non aggredisce sempre frontalmente e lo fa in modo modulare rispetto ai vari spazi, ma comunque li mette in discussione o tenta una loro normalizzazione”.

Questo al di là “del discorso associazione o non associazione, che non è tanto il punto. Noi le associazioni le abbiamo fatte e abbiamo fatto anche una convenzioni anche, ma la politicità e la conflittualità dello spazio non è mai venuta meno nel suo nucleo”. Il punto è quando “ti chiedono di trasformarti, in un’impresa culturale oppure in un servizio di welfare. A noi questo piano non è mai interessato, rifiutiamo il fatto di dover giustificare la nostra esistenza con il dover produrre qualcosa di certificabile da parte delle istituzioni, proprio perchè i nostri sono spazi di soggettivazione, di reti affettive, di crescita individuale e di riappropriazione di discorsi”. Esperienze che “possono essere o non essere riconosciuti dalle istituzioni, ma che hanno a che fare con una dimensione costitutiva di soggettività Lgbt e femminista. Ovviamente va riconosciuta questa dimensione interna molto importante del lavoro su di sè, ma ovviamente questo non può fermarsi sulla soglia dei tuoi dieci o cento metri quadrati perchè deve diventare il tentativo di contaminare le pratiche di movimento e di portare tutta una serie di discorsi anche nelle lotte sociali.

Quindi, più che ad un coordinamento degli spazi o ad una loro difesa fine a se stessa, bisognerebbe pensare a come gli spazi producono lotte che possano interconnettersi: come si tiene insieme la lotta femminista e Lgbt con le lotte sociali, quella per l’accesso ai saperi con le lotte della logistica, come una serie di segmenti di classe (che non può essere pensata in termini monodimensionali) si ricompongono e reintersecano per far saltare i piani di normalizzazione e di controllo. Questa è una sfida tutta politica, che si gioca nelle lotte sociali dentro, fuori e tra gli spazi. E’ chiaro, il tentativo di mettere in discussione uno
spazio è anche il tentativo di toglierti il terreno da sotto i piedi, ma la sfida è anche quella di ricrearselo altrove e non farsi fuorviare”. La posta in gioco “è il vero potenziamento che gli spazi sociali, in questa tensione verso le lotte sociali, possono darsi l’un l’altro”. Quello che conta “è la capacità effettiva di intrecciare le lotte e poi su questo rivendicare il tuo spazio e le tue pratiche di autogestione”. O si ragiona in questi termini, oppure “uno alla volta ci spazzeranno via tutti”.

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Martina (Làbas)
“Quando abbiamo aperto le porte di via Orfeo, quello che ci spingeva era cercare di portare alla luce quella contraddizione che c’è in città sul binomio tra legalità e legittimità, per cui le pratiche dell’occupazione vengono spesso stigmatizzate”. D’altra parte vediamo “quanto sia miope un’amministrazione che, in un momento di crisi, non riconosce spazi sociali che non portano avanti solo ‘servizi’ ma modi diversi di fare socialità, in un momento in cui la crisi impone a tutti una solitudine che è davvero un problema rispetto al quale, anche attraverso l’occupazione, cerchiamo di costruire un’alternativa e un’opposizione”. I centri sociali “non pensiamo che siano un’isola felice e che bisognerebbe chiudersi lì dentro, pensando di costruire una vita felice fra quattro mura. Il problema è come uscire, attraversare la città e riuscire a parlare alla società. Sicuramente, il punto di partenza è che davanti ad attacchi verso gli spazi di dissenso e di produzione altra, ci saremo e continueremo ad esserci”.

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Matteo (Vag61)
“E’ un dato non troppo distante dalla realtà e che deve farci riflettere, quello per cui il Comune parla di rapporti di forza” come nel caso dello sgombero di Bartleby e poi di Santa Marta. “Non lo fa casualmente” e di fronte a questo “noi dobbiamo pensare in avanti, pensare ai rapporti di forza non come partita che giochiamo in difesa, perchè se lo facciamo diventa una partita che andremo a perdere, in un momento in cui invece abbiamo molto da guadagnare”. Occorre “pensare ai punti critici che vivono dentro gli spazi e dentro le esperienze che portiamo avanti quotidianamente, sono convinto che ci siano tanti nodi che vanno indagati, tante questioni che vanno poste all’ordine del giorno nelle nostre assemblee e tante contraddizioni che vanno sviscerate”.

Ad esempio, “il rapporto tra fruitore e militante del centro sociale è una cosa che a me preoccupa tantissimo, il rapporto tra chi attraversa questi spazi e chi magari sta dietro al bancone o scrive un volantino rappresenta un nodo che dobbiamo analizzare e chiarire, così da ripensare la forma di organizzazione più funzionale ad alimentare le lotte e i conflitti dentro la città, perchè è quella la funzione che oggi dobbiamo pensare di avere”. Dunque “ha poco significato oggi porsi il problema di qual è il modo in cui ci si relaziona con l’istituzione per difendere uno spazio fisico. Ovviamente va difeso, ma non possiamo concentrarci su questo: dobbiamo cercare di colmare il gap che separa la partecipazione ai
concerti dalla partecipazione all’iniziativa politica”, esiste una distanza “che va colmata, cercando una forma di organizzazione che ecceda l’esistente. E’ ciò di cui abbiamo bisogno, perchè sappiamo che in questo momento non siamo il 99% in mobilitazione ma abbiamo le condizioni materiali di possibilità per diventarlo”.

Questo “senza alleanze a prescindere, ma perchè non c’è motivo di farlo: costruiamo reti e relazioni quando facciamo le cose insieme e siamo in grado di articolare discorsi collettivamente, in questo siamo forti e lo possiamo dimostrare tenendo come punto di partenza l’insoddisfazione profonda che abbiamo di fronte all’incapacità, oggi, di rispondere ad una crisi che morde tutti e morde anche noi”. Va tenuto presente “che l’unica parola che l’amministrazione ascolta è quella che viene legittimata dai rapporti di forza. Non è un male, è un bene. Ma questa è una partita che va giocata in attacco e non in difesa, guardando avanti perchè quella è la direzione”. In questo contesto, è importante “inchiestare la composizione che attraversa i nostri spazi, chiederci chi viene agli aperitivi o ai concerti. Il problema M5S, se avessimo letto questa composizione, ce lo saremmo posti mesi fa e non solo all’apparizione dei sondaggi elettorali”.

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Loris (Hobo)
“Nel 2013 non possiamo più parlare dei centri sociali come si faceva negli anni ’90, dopo occupy e i movimenti sociali fortissimi che abbiamo visto dal Cile al Canada, dopo i movimenti sociali che vediamo quotidianamente esplodere dentro la crisi globale di un capitalismo che non riesce più a raccapezzarsi e trovare vie d’uscita. Cosa ci dicono gli indignados? Cosa ci dice la pratica di stare all’interno una piazza rispetto agli spazi sociali? Queste cose ci dicono che dobbiamo ribaltare la logica, i centri sociali devono servirci come strumenti per l’immediata generalizzazione delle lotte, guai se percorrono strade di chiusure identitarie e di collasso all’interno di un luogo fisico”. Ad esempio, “noi abbiamo provato a costruire nei mesi un rapporto e una relazione, ad esempio, con le lotte dei lavoratori migranti che poi sono esplose nello sciopero della logistica del 22 marzo”, nel tentativo di “costruire delle dinamiche in cui realmente si ricomincia a parlare di ricomposizione delle varie figure”.

Nel frattempo, con le giunte arancioni “abbiamo visto dei modelli di governance sulle occupazioni. Da un lato ci sono i buoni che stanno alle regole, abbiamo visto ad esempio l’assessore Frascaroli che copia pari pari le iniziative di Pisapia a Milano: se stai nella mia compatibilità e nella mia cooptazione, allora puoi avere tutti gli spazi. Poi c’è una linea di demarcazione che separa dai cattivi, a cui invece puoi mandare la Polizia. Bisogna provare a far saltare questa logica e non soltanto all’interno della città ma anche, ad esempio, all’interno dell’università”. Bisogna “rompere le logiche di compatibilità e provare a costruire una primavera di eccedenze, che vada oltre noi stessi e possa costruire spazi di mobilitazione e di lotte sociali che possano finalmente guardare allo spazio europeo e transnazionale”, Infatti, “non c’è mattina in cui ci si svegli e non si senta di una lotta sociale che esplode, dal nord al sud Africa, dal sud al nord America. E’ un’epoca nella quale dobbiamo provare a ribaltare le logiche e guardare con altre lenti la realtà, vedendo i centri sociali come strumenti per aprire spazi che guardino alla costruzione di alternative”.