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Speciale / Dal confino al divieto di dimora, storia di un’ingiustizia di regime

Dall’introduzione del “domicilio coatto” nel 1863 alle leggi emanate durante il fascismo, arrivando ai giorni nostri quando sempre più spesso è l’azione penale la risposta principale a istanze e bisogni prodotti da emergenze sociali.

31 Agosto 2015 - 11:24

Presidio in piazza San Francesco - © Michele LapiniC’è una cattiva consuetudine nel nostro Paese. Capita spesso che al ritorno dalle ferie agostane, il malcapitato possa ritrovare nella buchetta della posta un’avviso di raccomandata giacente. Non è necessario andare all’Ufficio Postale per capire che si tratta di una sanziona amministrativa, cioè di una multa.

Bologna, ha sempre avuto il vizio di essere un laboratorio di sperimentazione, un tempo era politico, da qualche anno a questa parte, andando a scemare il ruolo della politica, si è imboccata la strada della sperimentazione repressiva.

Quello che è avvenuto, dall’era Cofferati in poi, è che la Procura della Repubblica interviene direttamente, con suoi punti di vista e con provvedimenti giudiziari, nel conflitto politico e sociale. Sempre più spesso è l’azione penale, la risposta principale a istanze e bisogni prodotti da emergenze sociali, la più grave delle quali, in città, è quella abitativa.

Così, l’ultimo venerdì di agosto, a Gianmarco De Pieri, noto attivista del Tpo e conosciutissimo compagno di movimento, che abita, lavora, fa vita sociale a Bologna da più di vent’anni, alcuni agenti della Digos notificano un atto amministrativo diverso dalla multa. Si tratta di un provvedimento di “divieto di dimora”, così come è successo nei mesi scorsi a compagni e compagne di altri collettivi.

L’episodio da cui scaturisce il provvedimento risale al mese di giugno scorso e consiste in un’azione di resistenza a uno sgombero di una palazzina occupata. Un episodio di modesta entità lo ha definito l’avvocato di difensore di Gianmarco, a cui è stata collegata una misura cautelare, quantomeno, sproporzionata.

Non è solo questione di sproporzione. E’ questione di ingiustizia e delle più vergognose, come dice giustamente il colletivo di scrittori Wu Ming. Con le cose che scriveremo da qui a poco intendiamo dimostrare che provvedimenti come quello in questione facciano pari e passo con regimi dittatoriali e reazionari della peggiore specie.

Il “divieto di dimora” rientra tra le “misure cautelari personali non custodiali”. Si tratta, infatti, di una forma di privazione o limitazione della libertà di circolazione.

Il “divieto di dimora” consiste nella proibizione di dimorare in una determinata località e nella prescrizione di non accedervi, senza preventiva autorizzazione del giudice (art. 283, comma 1, Codice di procedura penale). Questa misura ha la sua ratio nell’allontanamento di un soggetto “per evitare inquinamento delle prove o reiterazione del reato”. Il “divieto di dimora” implica, poi, una vigilanza dell’ufficio di polizia territorialmente competente. Altro aspetto importante, la misura cautelare in questione, non è computabile come detrazione in un’eventuale pena definitiva che dovrà essere espiata.

Il “divieto di dimora” viene anche considerata come misura di prevenzione, che può essere aggiunta alla misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, nei casi di “particolare pericolosità e di ritenuta inidoneità delle altre misure di prevenzione”. In questo caso, rivive il vecchio “domicilio coatto” o “confino”.

Andiamo a sfogliare un po’ di storia.

Il 15 agosto 1863, motivata come lotta al brigantaggio, fu introdotta la cosiddetta legge speciale Pica che istituiva il “domicilio coatto” in Sicilia e in Campania. Nel maggio 1866 questa norma, divenne legislazione ordinaria per essere utilizzata con chiari intenti politici. La durata del “domicilio coatto” fu portata da un minimo di sei mesi a un massimo di due anni . In ogni capoluogo di provincia, per comminare questo provvedimento, fu istituita una commissione con prefetto, presidente del tribunale, procuratore del re e due consiglieri provinciali.

Nel 1871, una nuova legge modificò la durata del “domicilio coatto” prolungandola a cinque anni per i recidivi.

Il 30 giugno 1889, entrò in vigore il Testo unico delle leggi di Pubblica Sicurezza. Ufficialmente era stato predisposto per fronteggiare la mafia, le sue prime applicazioni, invece, andarono a colpire le lotte sociali e i moti popolari che si stavano sviluppando in tutto il paese. Vennero messe sotto stretto controllo le manifestazioni e le riunioni pubbliche di socialisti, repubblicani e anarchici. Per via della genericità dei capi d’accusa, previsti nelle norme del Testo Unico, le autorità di polizia ebbero gioco facile nell’assumere un atteggiamento arbitrario per colpire socialisti ed anarchici.

Il 19 luglio 1894, per contrastare l’insurrezione dei Fasci siciliani, furono approvate altre misure eccezionali di Pubblica Sicurezza. Queste colpirono duramente la libertà di riunione e di associazione per “organizzazioni tese al sovvertimento dell’ordine pubblico” e prevedevano l’applicabilità del “domicilio coatto” a persone ritenute pericolose per l’ordine pubblico e che propagassero la loro contrarietà agli ordinamenti sociali esistenti.

La misura del “domicilio coatto” per motivi politici tornò ad essere usata frequentemente negli anni dal 1915 al 1918. Venivano colpiti i sospettati di spionaggio, di antimilitarismo e di pacifismo. In quelle categorie rientravano coloro che erano malvisti dalle autorità come operai e socialisti. I colpiti dal “domicilio coatto” furono portati nelle isole di San Nicola, Ponza, Ventotene, Lipari, Favignana, Ustica, Pantelleria, Lampedusa, Capraia, Gorgona, Elba, nella colonia di Porto Ercole, e nella colonia penale di Assab in Eritrea.

Con il regime fascista, i concetti di sospetto e di sovversione, divennero gli strumenti di misura dei rapporti tra Stato e società. Nel 1925, il “domicilio coatto”, rinominato “confino di polizia”, fu ripristinato, attraverso la promulgazione di una legislazione eccezionale. Il “confino di polizia” era un provvedimento amministrativo che imponeva, per la tutela dell’ordine pubblico, l’obbligo di abitare in un luogo diverso dal comune di residenza per un periodo da uno a cinque anni. La nuova legge di pubblica sicurezza del 1926 rafforzò il potere di intervento preventivo e repressivo della polizia e ne allargò i margini di discrezionalità negli interventi.

Con il nuovo testo unico del 1931, le leggi di pubblica sicurezza furono adeguate al Codice penale e al Codice di procedura penale, dilatando il potere della polizia tanto che altre leggi furono sospese in modo del tutto discrezionale in nome dello stato di emergenza.

Dopo il 25 luglio 1943, il governo del generale Badoglio emanò tre circolari per la liberazione dei detenuti, dei confinati politici e degli internati.

La prima, del 27 luglio 1943, escludeva gli anarchici, i comunisti e le persone ritenute pericolose per la loro influenza sulle masse.

La seconda, dell’8 agosto 1943, ampliava la liberazione anche alle “persone influenti”, con esclusione dei comunisti e degli appartenenti al movimento anarchico.

La terza, del 21 agosto 1943, estendeva la liberazione a tutti, con esclusione delle “persone originarie da territori invasi dal nemico” (Sicilia e Venezia Giulia), a meno che non indicassero di essere accompagnati presso parenti domiciliati nel resto d’Italia.

Infine, con un decreto luogotenenziale del 10 dicembre 1944, furono abrogate le disposizioni relative “all’attività nociva agli interessi nazionali”.

Arriviamo così ai giorni nostri. E lo facciamo con un estratto del documento della campagna “Libertà di dimora”: “Ciò che questa misura tenta di colpire e dissolvere è quindi anche tutta quella rete di socialità attivata nella città in cui si vive e attraverso la quale si cerca di resistere collettivamente alle conseguenze e ai costi della crisi che invece si vorrebbero abbattere interamente sul singolo atomizzato, reso solo e docile. (…) Il divieto di dimora è emesso dalla Procura in via preventiva, cioè senza processo e senza che i reati ipotizzati siano verificati e dimostrati”.

Insomma, non c’è tanta differenza con quello che è avvenuto in passato.