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Sante, un compagno senza tempo

Difficile raccontarne le molte vite, tenute insieme da un chiaro tratto distintivo di granitica coerenza e che solo una penna approssimativa può ridurre a un certificato penale. Come orientarsi tra libri, canzoni e un film sbagliato.

24 Marzo 2021 - 17:00

di Valerio Monteventi

La mattina dello scorso 11 marzo, davanti alla lapide di Francesco Lorusso in via Mascarella, il gruppo di compagni che, aldilà del Covid, aveva voluto esserci (come ogni anno) venne raggiunto da una bella notizia: “Sante è uscito dall’ospedale… è stata dura ma, anche in questo caso, ha resistito e ce l’ha fatta”.

Così, quando lunedì pomeriggio hanno cominciato a circolare i messaggi della sua morte, siamo rimasti increduli e attoniti.

Sono passati molti anni da quando ci conoscemmo con Sante. Era il lontano 1995 e lui era uscito in regime di semilibertà, dopo 27 anni di carcere. Era arrivato a Bologna per via di un lavoro in una coop sociale che si occupava del reinserimento di detenuti. Erano i tempi in cui l’aggettivo sociale si poteva ancora combinare con l’esperienza di una cooperativa che aveva quelle finalità e Sante quella possibilità l’aveva adoperata per scoprir una nuova città e farsela sentire sua. Fu da lì che si fissarono i cardini dell’inizio di un nuovo percorso di vita che lo portò, negli anni successivi, ad aprire il Mutenye, un locale in via del Pratello che qualcuno ha descritto come “il riparo per destini ribelli e in fuga dall’oblio”. Dietro al bancone di quel pub Sante era diventato una della anime della strada che si è resa famosa per le osterie e per la sua socialità, ma soprattutto per la festa popolare del 25 aprile. I suoi racconti di lotta, di liberazione e di libertà, hanno accompagnato per anni i brindisi di generazioni di attivisti dei movimenti, di artisti dell’underground, di semplici sognatori o anche solo di “resistenti della buona birra”. Le serate al Mutenye sono state per tanti fuori sede, ritornati dopo la laurea ai paesi d’origine, ricordi indelebili di un ambiente unico.

Anche Sante, fin dagli anni della sua gioventù, era stato un fuori sede fuori dal coro, dalla provincia di Taranto si era trasferito a Torino per sfuggire alla miseria. Qui, diventato operaio, si era avvicinato al Pci e alle sue organizzazioni giovanili. Poi era stata la rivolta operaia di Piazza Statuto del 1962 a fargli imboccare un’altra strada, quella rivoluzionaria, alternativa al processo di istituzionalizzazione del partito comunista. Negli anni successivi si formò quella che lui ha sempre chiamato “la banda”. Insieme a Pietro Cavallero e altri due giovani organizzarono rapine per finanziare i movimenti di liberazione anti-coloniali del sud del mondo. In una di queste azioni, presso una banca di Milano, scoppiò un conflitto a fuoco con agenti di polizia, ci furono morti e feriti. La notizia rimbalzò su tutti i giornali e le cronache del tempo si occuparono a lungo di quella che venne chiamata la banda Cavallero. Quando furono arrestati, al processo, la condanna fu durissima: ergastolo. Dopo la lettura della sentenza gli imputati si alzarono in piedi e, con in alto il pugno chiuso, intonarono “Figli dell’officina”, un noto canto della tradizione anarchica.

Per Sante furono decenni di carcere duro, dovette subire il “circuito dei camosci” delle carceri speciali, ma in prigione, attraversando le proteste e le rivolte, maturò in maniera compiuta la consapevolezza della sua militanza per cercare di fare dell’inferno detentivo un luogo di solidarietà e di lotta.

In più, attraverso la scrittura e la poesia, seppe dare voce alla denuncia sociale sull’indicibile ingiustizia delle prigioni. Nel 1972 scrisse il libro “L’evasione impossibile” in cui venivano raccontati gli abusi, le violenze e le sofferenze del sistema carcerario, ma dove veniva affermata pure la necessità di battersi sulle condizioni dei detenuti e sui diritti da sempre negati.

In anni recenti, durante la presentazioni di un suo libro a Vag61, Sante parlò del fornelletto con cui i detenuti scaldano il cibo in cella. Non si trattò di una “normale” concessione dell’Amministrazione Penitenziaria, ma il risultato della rivolta del 15 aprile 1969 nel carcere di San Vittore di Milano, alla fine della quale perse la vita un detenuto. Insieme al “fornello da campeggio” furono conquistati alcuni altri obiettivi fino allora rifiutati, come la possibilità di tenere in cella più di un libro e carta e matita per scrivere.

Lasciato il bancone del Mutenye “per raggiunti limiti di età”, Sante ha continuato ad occuparsi di carcere e di repressione dei movimenti di lotta, costituendo insieme a un gruppo di compagne e compagne a lui molto vicini un’associazione intitolata a Bianca Guidetti Serra, l’ex partigiana che era stata per tanti anni la sua avvocata. Aveva pure cominciato a frequentare con una certa assiduità i NoTav della Val Susa e i NoTap del Salento, nei luoghi dove questi consolidati movimenti di resistenza popolare si stanno opponendo da anni a progetti di distruzione ambientale dei territori.

Foto di Giulio Cicanese

Tutte le volte che i media mainstream hanno parlato di Sante Notarnicola hanno cercato di etichettarlo in vari modi, riducendo la sua vita a una sorta di certificato penale.

Di certo non tentò di capirla il regista Carlo Lizzani con il suo film “Banditi a Milano”, con protagonisti Gian Maria Volontè nel ruolo di Cavallero e Don Backy in quello di Notarnicola. Da buon intellettuale organico al Pci, Lizzani nella sua pellicola cancellò gli ideali originari della banda e la militanza attiva dei suoi componenti nella sezione Banfo, relegando le azioni del gruppo ad un semplice effetto degli sconvolgimenti economici e sociologici di quegli anni. Del resto, per i fatti di Piazza Statuto, il Partito i suoi distinguo li aveva già fatti, descrivendo i protagonisti di quella rivolta come “scalmanati” e “irresponsabili” al di fuori di ogni controllo.

Perciò se si vuole comprendere le “tante vite” su cui si è formata l’esistenza di Sante Notarnicola, tenute insieme da un chiaro tratto distintivo di granitica coerenza, è molto meglio rivolgersi ai libri che ha scritto (L’evasione impossibile, Con quest’anima inquieta, La nostalgia e la memoria, Camminare sotto il cielo di notte, Liberi dal silenzio, Un luogo dello spirito, L’anima e il muro, La farfalla, Versi elementari) o al romanzo di Claudio Bolognini “I ragazzi della barriera” (“l’unico libro onesto scritto su di noi” lo commentò Sante).

E’ bene ascoltare alcune canzoni, come quella di Gianfranco Manfredi:

“Liberiamo Notarnicola… fuori tutti i prigionieri politici… cancelliamo dalla terra il lavoro salariato fuori tutti i prigionieri politici… Liberiamo il nostro corpo, liberiamo l’immaginazione, liberiamo la ragione, il canto, la creatività… siamo tutti prigionieri politici”.

Oppure il “Bandito senza tempo” dei Gang che Marino Severini descrive così: “Il bandito senza tempo della nostra canzone non è mai protagonista, non è visibile, eppure c’è sempre quando la storia svolta e scarta di lato… E’ un bandito dell’ultima fuga, ma che non perde l’occasione per vivere delle sue idee. Un bandito che sta dall’altra parte, quella dove il potere sa di non potere mai arrivare…”. E non è un caso se il giorno in cui il cantante dei Gang e Sante si incontrarono a Vag, prima di un concerto del gruppo, ci furono momenti di grande emozione.

E poi c’è il brano degli Assalti Frontali “la nostalgia e la memoria”, dove Sante fa il “menestrello” e usa la sua voce per narrare “I ragazzi di Piazza Statuto, col selciato tra le mani”:

Guardare vorrei / per una volta ancora / la vecchia casa / col cesso sul ballatoio, / ritrovare per un momento solo / i vent’anni miei, / Guardare vorrei / per una volta ancora / la vecchia casa / col cesso sul ballatoio, / ritrovare per un momento solo / i vent’anni miei, / colui che per primo / mi chiamò terrone / e m’insegnò poi / che fare il crumiro / era il crimine più grande. / In ultimo vorrei / ritrovare la mia generazione, / la più infelice / la più dura / la più cara.

Sante ha dato tanto per tanti dando tutto di se stesso, per questo, alla notizia della sua morte, in tantissimi l’hanno ricordato con un pensiero, con una foto o postando una sua poesia. Tanti altri hanno lasciato un semplice e sincero “ciao Sante… addio”.