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Roma / Cucchi, la superperizia spegne la luce sul caso

Sarebbe morto di fame e non di botte, secondo i consulenti della Corte. Ma non tutti sono d’accordo. Sarà scontro in aula il 19 dicembre.

14 Dicembre 2012 - 16:36

di Checchino Antonini da Popoff

Morì per le botte prese, Stefano Cucchi, e l’abbandono nel repartino del Pertini oppure morì di fame e sete, immobilizzato per via di una caduta? Morì per un cocktail di malapolizia e malasanità (innsecato dal proibizionismo forsennato) oppure si vuole semplificare il composto velenoso scaricando tutto sull’incuria dei dottori? Sarà certo scontro tra periti dal 19 dicembre nell’aula bunker di Rebibbia perché le versioni restano due anche dopo la superperizia che è stata appena depositata. Tra gli esperti ci sarebbe chi avrebbe evidenziato la presenza di sangue sui frammenti ossei prelevati da alcuni segmenti di vertebre che, a dire della famiglia, sarebbero state fratturate durante il pestaggio. Un elemento che confermerebbe l’ipotesi di lesioni contestuali ai giorni dell’arresto e poi della morte. In contrasto con quanto avevano sostenuto i consulenti del pubblico ministero. Le fratture sui segmenti L3 ed L5 della colonna vertebrale risulterebbero molto prossime all’orario in cui il trentunenne romano, arrestato il per il possesso di una minima quantità di hashish, è morto il 22 ottobre del 2009. Il geometra di Torpignattara è stato pestato prima di arrivare in ospedale? Se le fratture fossero di un periodo diverso si sarebbe visto solo un callo osseo.

Il “piano”, però, sarebbe quello di affibbiare alle pessime condizioni ospedaliere l’intera operazione ma questo non dà conto delle ragioni del ricovero di Stefano Cucchi. Una tesi cui il pm sembra essere particolarmente affezionato visto che ha passato l’estate a cercare tracce di una frattura antica, risalente al 2004, di Cucchi e che su quella frattura “per sbaglio” si sono concentrate per un po’ le attenzioni dei periti nonostante le fratture diverse e nuove fossero a una manciata di millimetri da lì. Perché è stato nascosto in quel reparto carcerario dell’ospedale? Cucchi stava in un reparto adatto a pazienti stabili e non con patologie acute in corso. Chi ce l’ha inviato non poteva non sapere. Così almeno la pensa il sostituto procuratore presso la Corte di appello Eugenio Rubolino che con queste motivazioni, e con un ricorso di 15 pagine, ha impugnato davanti alla Cassazione la sentenza di assoluzione di Claudio Marchiandi, l’alto funzionario del Prap (Provveditorato regione dell’amministrazione penitenziaria), che ha sollecitato di persona il ricovero di Cucchi. Il pg, convinto della colpevolezza di Marchiandi, punta all’annullamento della sentenza d’appello per riportare l’imputato in aula davanti a un altro collegio. Perché il funzionario è l’unico dei tredici imputati del caso Cucchi a essere già stato processato. Per gli altri dodici coimputati – 3 guardie penitenziarie, 6 medici e 3 infermieri, il processo riprenderà, appunto, il 19. Sarebbe proprio il funzionario del Prap, per il pm, ad essersi agitato per tenere il detenuto «lontano da occhi e orecchie indiscrete» «consapevole che con quelle patologie era impossibile altrimenti ricoverare Cucchi in quel posto».

Ma la superperizia di 195 pagine, anziché districare i nodi, sembra rendere di nuovo opaca la scena del calvario di Cucchi. Le agenzie battono da stamattina stralci della perizia: «La causa della morte di Stefano Cucchi, per univoco convergere e dei dati anamnestico-clinici e delle risultanze anatomopatologiche, va identificata in una sindrome di inanizioni (atrofia da malnutrizioni, ndr)». «Il quadro traumatico osservato si accorda sia con un’aggressione, sia con una caduta accidentale, nè vi sono elementi che facciano propendere per l’una piuttosto che per l’altra dinamica lesiva». «I riscontri clinici riferibili alle lesioni alle lesioni risalgono al pomeriggio del 16 ottobre 2009 non contrastano con un’epoca di produzione di poco anteriore». «Nel caso di Stefano Cucchi i medici del reparto di medicina protetta dell’ospedale Pertini non si sono mai resi conto di essere (e fin dall’inizio) di fronte ad un caso di malnutrizione importante, quindi non si sono curati di monitorare il paziente sotto questo profilo, nè hanno chiesto l’intervento di nutrizionisti (o altri specialisti in materia) e, non trattando il paziente in maniera adeguata, ne hanno determinato il decesso». La sera del 17 ottobre 2009 «presentava uno stato di denutrizione importante che, di fronte alla di lui manifesta volontà di digiunare e di astenersi dal cibo, doveva immediatamente allertare i medici curanti. Anche pochi giorni di ulteriore astensione da alimenti e liquidi costituivano rischio concreto di un irreversibile aggravamento delle di lui condizioni. Il pericolo di vita del paziente si rende poi manifesto il 19 ottobre: in questo momento un trattamento terapeutico appropriato avrebbe consentito probabilmente il di lui recupero». In ogni caso «tutti i sanitari della medicina protetta del Pertini ebbero una condotta colposa, a titolo sia di imperizia, sia di negligenza, quando non di mancata osservanza di disposizioni comportamentali codificate».

Ma non si deve dimenticare, ricostruendo il quadro, che Stefano il giorno dell’arresto, s’era allenato in palestra e il giorno successivo, alla scandalosa udienza di convalida cui arrivò con le carte sbagliate (risultava essere un albanese di sei anni più anziano e senza fissa dimora), era già messo male, parlava a fatica e aveva segni che parevano di percosse, che diverse testimonianze riferiscono che si sarebbe lamentato del trattamento subìto, che dal Pertini tentò di mettersi ripetutamente in contatto con l’esterno. Non sapeva che fuori un muro di gomma di burocrazia impedì ai suoi familiari non solo di vederlo ma perfino di conoscere le sue esatte condizioni.