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Quelli che… buttiamo via la chiave / Parte IV

Approfondimento realizzato da Zeroincondotta dopo le rivolte che in piena emergenza coronavirus sono scoppiate nelle carceri di tutta Italia, compresa la Dozza di Bologna. In questa quarta e ultima parte: l’amnistia, l’indulto e gli appelli per misure rapide e necessarie.

26 Marzo 2020 - 12:38

La diffusione drammatica del coronavirus ha investito anche le carceri italiane, sono esplose rivolte sono morti 13 detenuti. L’emergenza sanitaria sortisce l’effetto di rafforzare lo stato d’eccezione, a spese dei più deboli, repressione e contenimento sono ancora la ricetta. L’urgenza di una campagna per l’amnistia, l’indulto e per misure alternative alla detenzione.

Quella che segue è la quarta e ultima parte dello speciale realizzato da Zeroincondotta.

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Amnistia e indulto

Già nelle settimane precedenti i giorni della rivolta varie associazioni avevano cominciato a proporre un provvedimento di indulto per abbassare il sovraffollamento delle carceri evitando che la diffusione del coronavirus potesse avere un effetto devastante, qualora l’epidemia fosse arrivata all’interno degli istituti di detenzione.

Secondo queste sollecitazioni, con un indulto di due anni, uscirebbero quasi 17.000 detenuti, con un indulto di tre anni, come quello del 2003, più di 24.000.

A questi potrebbero aggiungersi più o meno altri 10.000 detenuti, e cioè circa la metà di quelli che sono stati messi dietro le sbarre prima della condanna definitiva, e che quindi, a norma della Costituzione, considerati non colpevoli. Molti di questi detenuti “non hanno le caratteristiche di pericolosità da mettere a repentaglio la tranquillità sociale”, “né possono inquinare le prove di delitti commessi, in molti casi, vari anni fa”, e “vengono tenuti dietro le sbarre quasi esclusivamente per indurli a confessare”.

In molti comunicati e petizioni è stata avanzata con forza anche la proposta di un’amnistia che finalmente la faccia finita con l’ipertrofia penitenziaria dispiegata in questi anni e ponga le condizioni per una nuova politica penale incentrata sulle garanzie e sui diritti dei detenuti.

L’amnistia e l’indulto sono istituti previsti da tempo e in passato sono stati utilizzati diverse volte. Tra il 1946 e il 1990, nel nostro Paese, ci sono state 17 amnistie e, nel pensiero giuridico, hanno rappresentato un mezzo per affrontare gli attriti e sanare le fratture tra costituzione legale e costituzione materiale. Alcune volte, come nel 1970 per il post “autunno caldo”, hanno avuto valenza politica e sono servite a ridurre la discordanza di tempi tra conservazione istituzionale e inevitabile trasformazione della società, incidendo sulle politiche penali e rappresentando momenti decisivi nel processo d’aggiornamento del diritto.

Più spesso le amnistie sono state ispirate da finalità di “deflazione del sistema penale” per riequilibrare situazioni che colpivano condotte che, per la loro esiguità, non risultavano “meritevoli”, di sanzione penale.

Nel 1992, nel clima nascente di giustizialismo che si stava propagando, l’amnistia e l’indulto sono stati trasformati da istituti giuridici in disprezzate bestemmie. Così è stato riscritto l’articolo 79 della Costituzione richiedendo, per la loro adozione, il voto favorevole dei due terzi del Parlamento. Un particolare che rende la loro approvazione più difficile della modifica della stessa Carta Costituzionale.

Se ci fosse un minimo di razionalità nella gestione della giustizia, si riprenderebbe in mano un uso corretto dell’amnistia e si appronterebbero interventi mirati e trasparenti in grado di evitare l’ingolfamento del sistema giudiziario e l’implosione del carcere. Sarebbero necessarie depenalizzazione e riduzione delle pene, che da anni crescono e ormai hanno raddoppiato quelle previste nel regime fascista.

Ma questo non avverrà per “gratuita concessione”. Diversi giuristi denunciano da tempo lo spostamento, sul piano del diritto penale, da un sistema giuridico basato sui diritti della persona a un sistema fondato prevalentemente sulla ragion di Stato.

Per questo una campagna per l’amnistia e l’indulto, al di là di una loro effettiva attuazione, è necessaria per provare a ridurre quel clima di “panico morale” che è stato alla base delle logiche giustizialiste e manettare che hanno avuto così ampio successo nel sistema politico italiano.

E’ evidente che è un movimento di opinione e di lotta che deve crescere nella società, al di là dei numeri che non ci sono in parlamento. E le basi per partire stanno nelle pressioni e nelle mobilitazioni per far sì che, intanto, il governo e la magistratura di sorveglianza adottino rapidamente misure alternative alla detenzione per alleggerire la situazione e fronteggiare l’emergenza legata al diffondersi del coronavirus

Antigone, per esempio, ha ritenuto che il minimo indispensabile fosse l’affidamento in prova e la detenzione domiciliare, estesi senza limiti di pena a tutti coloro che hanno problemi sanitari tali da rischiare aggravamenti a causa del virus; con la detenzione domiciliare per tutti coloro che già fruiscono della semilibertà. Qualcuno ha detto: “Perfino in Iran l’hanno fatto”.

 

Gli appelli per misure rapide e necessarie

Dopo i giorni della rivolta si sono ripetuti appelli e prese di posizione per fare pressione sulle Istituzioni ai vari livelli.

Un gruppo di artisti e personalità del mondo della cultura hanno sottoscritto un appello per costituire un Comitato che “lavori da subito alla raccolta di informazioni sulle vicende di questi giorni e che si proponga – nel rispetto ma anche nella sollecitazione delle competenze istituzionali – di fare piena chiarezza sull’accaduto”.

In un documento, uscito negli stessi giorni, dall’Unione Camere penali e dall’Osservatorio Carcere, si legge che “l’amnistia e, soprattutto, l’indulto sono le strade da seguire…. In questo momento, però, occorre immediatamente rafforzare il personale dei Tribunali di Sorveglianza, magari con i magistrati che in questo periodo non terranno udienze, per verificare quanti detenuti (e non sono pochi) hanno diritto ad avere gli arresti domiciliari, ovvero la misura (pena) alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale, anche aumentando, con decreto legge, il tetto della pena da scontare per accedere al beneficio”.

Un appello firmato da avvocati e giuristi ha chiesto un utilizzo estremamente cauto delle misure di custodia cautelare, la sospensione dell’adozione di ordine nuovi per l’esecuzione della carcerazione limitata ai casi di estrema pericolosità e sostituzione con gli arresti domiciliari o altri obblighi limitanti la libertà di circolazione, la sospensione dell’esecuzione delle pene nei confronti di detenuti anziani o in precarie condizioni di salute, la concessione con procedure accelerate di misure alternative al carcere come la detenzione domiciliare o l’affidamento in prova, la sospensione del rientro notturno per i semiliberi consentendo il pernottamento presso un loro domicilio. Si tratta di misure che sarebbero già attuabili con normativa in vigore e legittimate dal momento di straordinaria gravità soprattutto dal punto di vista sanitario.

A queste e a tante altre sollecitazioni il governo ha risposto un decreto che prevede “misure per arginare il rischio diffusione codiv-19 nelle carceri e tutelare la salute dei detenuti”

Il decreto legge approvato dal governo che rimarrà in vigore fino al 30 giugno 2020 assomiglia molto alla montagna che partorisce un topolino. Intanto sono esclusi tutti i condannati indicati dall’articolo 4/bis, i cosiddetti “delinquenti, professionali o per tendenza”, i detenuti “sottoposti a regime di sorveglianza particolare”, quelli che nell’ultimo anno sono stati sanzionati per infrazioni disciplinari, quelli privi di “domicilio effettivo e idoneo”, naturalmente quelli “coinvolti coinvolti nei disordini e nelle sommosse verificatesi negli istituti penitenziari dalla data del 7 marzo 2020” e, comunque, in ogni caso, “la pena da eseguire non sia superiore a diciotto mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena”.

Antigone il 18 marzo l’ha commentato in questo modo: “Con questo decreto saranno pochissimi i detenuti che potranno lasciare le carceri, di gran lunga meno degli oltre 14.000 che andrebbero scarcerati per riportare le carceri a una situazione di legalità e rendere possibile il contrasto di casi di coronavirus all’interno degli istituti. Mancano inoltre, nel decreto del governo, norme che tengano conto delle condizioni di salute dei detenuti che, se dovessero contrarre il covid-19, potrebbero non salvarsi. A loro bisognava guardare con norme ad hoc”.

Gli avvocati delle Camera Penale di Bologna il 20 marzo hanno dichiarato: “Bisogna che l’Amministrazione penitenziaria e la sanità pubblica dicano con chiarezza come intendono affrontare l’emergenza nei luoghi di reclusione. Invitiamo a incrementare il ricorso alle misure alternative, se è vero che molti detenuti sono nei termini per accedervi… Il sovraffollamento del carcere va ridotto, al tempo stesso l’intollerabile carenza di magistrati e di personale amministrativo del Tribunale di sorveglianza non aiuteranno ad applicare quanto previsto dall’Ordinamento penitenziario. In tempi di quasi paralisi dell’attività giudiziaria bisogna pensare a un’applicazione urgente di magistrati per il periodo dell’emergenza e consentire agli Uffici e al Tribunale di sorveglianza di applicare la liberazione anticipata e le misure alternative, anche in via provvisoria. Tra l’altro, l’ultimo intervento normativo, il decreto legge del governo che ha introdotto un’ipotesi di detenzione domiciliare ‘speciale’, poteva essere uno strumento per collocare fuori dal carcere, ma sempre in una situazione di privazione della libertà personale, detenuti con una pena da scontare inferiore a 18 mesi, ma in realtà appare poco utile allo scopo, perché condiziona la fuoriuscita dal carcere per chi ha pena residua superiore a sette mesi alla disponibilità del braccialetto elettronico, molto raro da reperire, come dovrebbe sapere il ministro della Giustizia, e ‘scarica’ sul singolo magistrato la responsabilità della decisione”.

Intanto, in alcuni carceri i vecchi moduli per accedere alle misure alternative non vengono accettati e quelli promessi dopo la pubblicazione del decreto legge non sono ancora disponibili.

Insomma, se le rivolte dei giorni di marzo sono state l’estremo grido di aiuto di chi sta in carcere contro l’estraneazione totale dal mondo esterno, se sono state l’urlo scoraggiato di chi non voleva essere lasciato solo e dimenticato nel pieno di un’emergenza sanitaria, se sono state la protesta disperata di chi non voleva fare la fine dei “topi in gabbia”, occorre che chi sta fuori e non ha una concezione forcaiola del mondo non lasci quelle persone più sole e più dimenticate di prima.

C’è un vecchio detto che afferma che “le galere sono lo specchio di una società, non fanno altro che riflettere i suoi problemi e misurarne la febbre”. Bene noi non possiamo più permettere che la narrazione tossica del “buttare via la chiave e farli marcire in galera” e che ha trasformato il carcere in un buco nero separato dalla società sia ancora quella che va per la maggiore.

In molti dicono che l’epidemia del coronavirus (quando finirà) ci costringerà a rivedere il nostro sistema di vita. Quello che possiamo dire già da ora, comunque, è che una società che guarda a 13 persone, morte per “overdose” in mezzo a una rivolta, e fa finta di niente, risolvendo il tutto con una scrollata di spalle, non è una società in cui valga la pena vivere.