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“Parigi, come parlarne in classe?”

Contributo da parte della redazione di “Quando suona la campanella”. Il laboratorio Làbimbi: “Crocifisso nelle scuole? Vergognoso che politica strumentalizzi bambini a fini elettorali, alimentando la paura”.

18 Novembre 2015 - 14:05

Mappamondo a scuola“Quando accadono avvenimenti tragici come quello di Parigi, come affrontare in classe temi scomodi come la guerra, il terrorismo, la morte?”. E’ la domanda a cui tenta di rispondere la redazione di “Quando suona la campanella”, rivista on line legata alle sedi Cesp e Cobas di Bologna e al Cds70, che ha firmato un contributo sul tema “Non è facile, soprattutto se le classi sono quelle della scuola elementare, ma il problema dobbiamo porcelo. I bambini e le bambine difficilmente arrivano a scuola senza sapere nulla. Ogni giorno sentono e ascoltano ciò che accade nel mondo, spesso attraverso immagini crude e certamente non filtrate trasmesse dalla televisione o attraverso i dialoghi degli adulti. Arrivano a scuola sapendo che è accaduto qualcosa di enorme, qualcosa che ha prodotto su di loro effetti potenti a livello emotivo, anche se filtrati dai grandi. Come insegnanti allora ci chiediamo cosa fare. O cosa non fare. Non bisogna obbligarli a parlarne, non bisogna obbligarli a tacerne. La classe è la comunità sociale protetta in cui hanno la possibilità di dire quello che hanno sentito, quello che hanno provato, quello che hanno compreso attraverso il loro punto di vista sul mondo. Non si tratta di una comprensione – specie per i più piccoli – costruita sulla conoscenza dei presupposti e degli eventi, bensì di un’immagine emotiva che prova a dare un senso a ciò che è accaduto, magari anche solamente per rimuoverlo con più efficacia per non averne paura, neutralizzandone le angosce; si sono fatti un’idea. Il ruolo dell’insegnante è di comprendere se e quanto è forte il bisogno di buttare fuori, di mettere in comune con gli altri ciò che hanno visto e provato. Se questo bisogno viene riconosciuto, l’insegnante ha il compito di regolare il dialogo in modo che questo confronto avvenga nella maniera più comprensiva e calma possibile, di abbassarne i toni emotivi, di aiutare i bambini a tradurre ciò che vogliono esprimere e raccontare in modo che queste impressioni divengano patrimonio ragionato della classe. È importante anche che il bisogno di parlarne di alcuni non diventi l’obbligo di ascolto per altri che non si sentono pronti: la classe è uno spazio sociale in cui la partecipazione emotiva non può essere obbligata; non è facile per noi insegnanti, ma occorre andare incontro al bisogno di discussione ed elaborazione degli uni senza forzare il bisogno di silenzio di altri. Quando le parole dei bambini riportano le parole dei mass media è importante che chi fa la regia della discussione usi le sue capacità per disinnescare le potenti idee razziste o, come potrebbe accadere oggi, islamofobe, che possono facilmente essere veicolate come schemi semplificatori di ciò che è accaduto. Sappiamo quanti discorsi gli imprenditori politici del razzismo e della guerra producono e diffondono in questo momento. L’etere è inquinato di tali discorsi e chi dirige la discussione in classe deve essere pronto a disinnescare tali ordigni, a dare prospettive diverse dallo scontro generalizzato, dalla generalizzazione razzista, dal pregiudizio. Non si tratta di spiegare ai bambini la giusta visione della realtà, quanto di ricondurre le loro osservazioni ai principi generali di rispetto delle diversità – religiose, culturali, di qualsiasi tipo – come motori e fondamenti del nostro modo di guardare al mondo”.

Continua il testo: “Quando le parole che emergono sono quelle della paura e del terrore, è importante che chi fa la regia provi a razionalizzare e trasmetta in risposta il senso di fiducia che porta con sé la nostra convivenza, la pluralità democratica che vive nella classe, la solidità della società in cui viviamo. Non si tratta di minimizzare ciò che è avvenuto, ma di comunicare una fiducia nell’umanità che si contrappone allo scoramento che può farsi strada in questi momenti. E questo lavoro sulla fiducia, nel tempo, può riuscire a condurre i bambini e le bambine a decentrare il loro punto di vista – emotivo e geopolitico allo stesso tempo – per guardare giorno per giorno anche gli orrori che avvengono regolarmente in tante parti del mondo, con la forza di considerarli non delle calamità naturali lontane ma delle realtà storiche che ci appartengono, da contrastare e superare con la ragione e con la giustizia. È in queste circostanze che la classe può divenire una microsocietà dialogante che rappresenta – nei fatti – l’opposto del terrorismo, della guerra, del razzismo. Nella scuola elementare nessun insegnante ha il compito di fornire strumenti disciplinari di comprensione a breve termine di ciò che è accaduto (questi si sviluppano giorno per giorno lungo gli anni, e spesso ancora lasciano gli adulti privi di risposte). Se l’insegnante ha la capacità di offrire a chi ne ha bisogno la possibilità della discussione, dell’espressione dei pesi inespressi, della comunicazione “catartica” (se possiamo usare questo termine), allora la scuola diviene uno spazio di resistenza contro ogni fondamentalismo e di costruzione della società di domani”.

Un’annotazione finale: “Il ministero invita tutti, dalla scuola di base ai centri di ricerca, ad ‘un minuto di silenzio e ad un’ora di riflessione’. La nostra impressione è che il cordoglio per le vittime non debba essere organizzato dall’alto, e che il silenzio possa nascere – se questa è la forma che viene scelta – da una discussione in classe, ma possa avere anche la forma della parola, del racconto, della commozione. Allo stesso modo la discussione non viene prescritta, sono gli insegnanti di classe che hanno l’onere di comprendere se viene richiesta, da chi, come svolgerla (un’ora? 20 minuti? domani? tra una settimana?)”.

Proprio la scuola, però, in questi giorni è diventata teatro di polemiche dopo che la presidente del quartiere Santo Stefano, Ilaria Giorgetti, in risposta agli accadimenti parigini ha chiesto alle scuole di esporre il crocifisso. Una risposta arriva da Làbimbi, il laboratorio autogestito per bambini attivo a Làbas: “Leggiamo con sgomento che Ilaria Giorgetti, presidente del quartiere Santo Stefano, ha spedito ieri (lunedì, ndr) alle scuole del territorio una lettera in cui si invita ad affiggere il crocifisso ‘come forte espressione della nostra tradizione cristiana e del nostro sistema di valori”, dato che ‘la chiesa è un patrimonio civile di tutti gli italiani’. Questa è la risposta agli attentati di Parigi che lei propone alla cittadinanza, in linea con la tendenza opportunista della destra xenofoba nazionale. Per Làbimbi, i cui valori educativi sono ben diversi da questi, è vergognoso e inaccettabile che una rappresentante politica usi il proprio ruolo istituzionale a fini speculativi elettorali, strumentalizzando i bambini e le scuole, fomentando la paura, il razzismo e presunte guerre di religione che non hanno nulla a che vedere con la pacifica convivenza, il rispetto altrui, il principio di laicità che deve essere fondamenta del sistema educativo. Làbimbi ha conosciuto tanti bambini che hanno molto da insegnare a personaggi come lei, sappiamo dunque che questo quartiere può avere gli anticorpi per non cadere in tali provocazioni. Làbimbi ha aiutato con dei progetti concreti i bambini dei campi profughi di Suruc, al confine turco-siriano. Questi bambini scappano dall’Isis e spesso sono orfani di genitori caduti in battaglia. Questi bambini, per la maggior parte di sangue musulmano sunnita, chiedono più umanità. Non più religione”.