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Palestina / Prigionieri allo stremo, ma la protesta continua

Da quasi sei settimane i detenuti nelle carceri israeliane rifiutano il cibo, chiedendo il rispetto di diritti minimi come visite di familiari e legali, assistenza sanitaria, accesso a libri, giornali e tv.

25 Maggio 2017 - 20:26

Al 38esimo (a oggi trentanovesimo, ndr) giorno di sciopero della fame le condizioni di circa 1.500 prigionieri palestinesi stanno velocemente deteriorando. Di loro si sa pochissimo a causa del divieto di visita di familiari e legali imposto dalle autorità israeliane, nonostante la Corte suprema israeliana abbia cancellato con una sentenza il divieto.

Nemmeno la Croce Rossa può intervenire: dopo la visita al leader di Fatah, Marwan Barghouti, che ha indetto lo sciopero il 17 aprile scorso, nessuna informazione è fuoriuscita per l’ordine israeliano di non notificare al pubblico le condizioni di Barghouti.

Ieri (martedì, ndr) i familiari di alcuni prigionieri a digiuno si sono ritrovati davanti alla sede della Croce Rossa nel quartiere palestinese di Sheikh Jarrah a Gerusalemme: con loro le foto dei familiari detenuti e la richiesta di avere informazioni sulle loro condizioni. Non mancano le critiche: in molti denunciano che il ruolo di “mediatore umanitario imparziale” della Croce Rossa non ha portato ad alcun miglioramento della vita nelle carceri, dove le procedure mediche e di sostegno sanitario sono quasi inesistenti.

“Quando sono entrata nella stanza delle visite, non ho neppure riconosciuto mio figlio”, dice all’agenzia Ma’an News Umm Abada, la madre di Abada Dandis, in sciopero della fame per 22 giorni, interrotto a causa di un’emorragia interna. La donna ha potuto vederlo solo dopo l’interruzione: “Ero con mia figlia – aggiunge – Lo abbiamo cercato e alla fine lo abbiamo visto: era emaciato, esausto. Era chiaro che stava molto male”.

Sono sempre più numerosi i detenuti trasferiti in ospedali civili a causa delle condizioni di salute. Ma nonostante l’imminente pericolo, le autorità israeliane non intendono negoziare. Eppure, ripetono i prigionieri, le richieste mosse sono tutte in linea con quanto previsto dal diritto internazionale e dalla Convenzione di Ginevra: visite di familiari e legali, assistenza sanitaria, fine delle pratiche punitive dell’isolamento e della detenzione amministrativa, accesso a libri, giornali e tv.

Ieri Issa Qaraqe, capo del Comitato Palestinese per gli affari dei prigionieri, è stato molto duro: “Se qualcosa accadrà ad un qualsiasi prigioniero, nessuno sarà in grado di controllare la rabbia del popolo palestinese”. Ha poi aggiunto che un team speciale, voluto dal presidente dell’Autorità Palestinese Abbas, è stato creato per negoziare con Israele “e per porre fine a questa tragedia”.

Una tragedia che fuori interessa ben pochi: nei media internazionali si parla pochissimo dello sciopero, nonostante il numero di detenuti coinvolti, e i leader dei governi occidentali continuano a restare in silenzio. Ieri, durante la visita di Trump a Betlemme, il popolo palestinese ha protestato a Gaza e in Cisgiordania, evento eclissato dalle parole futili del presidente americano.

I prigionieri, però, non intendono cedere. In una lettera Karim Yunis, il detenuto da più anni in carcere, ha annunciato un’escalation della protesta, con alcuni prigionieri che ora rifiutano anche il sale e l’acqua: “I nostri corpi possono essersi indeboliti e non riusciamo quasi più a muoverci, ma il nostro spirito raggiunge il cielo. Nonostante la durezza della lotta e la sua ferocia, siamo determinati a continuare fino alla vittoria, non solo per noi ma per tutto il nostro popolo”.