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Opinioni / “Quale didattica può mettere in scacco confini e gerarchie?”

Dalla rivista del Cesp nuove riflessioni a partire dalle testimonianze che arrivano dai campi rifugiati in Grecia, dove per i più giovani “l’unica scuola possibile è una terra arsa dal sole e dai militari”.

26 Luglio 2016 - 15:44

(da Quando suona la campanella

Campo rifugiati in Grecia (foto Quando suona la campanella)Alessia, la giovane avvocata che due mesi fa ci raccontava le condizioni dei bambini e delle donne nel campo di Idomeni, ora è qui a Bologna e ci racconta ancora storie, ci tiene aggiornati, ci passa foto che le fanno arrivare via WhatsApp gli stessi rifugiati o i volontari che riescono ancora a mantenerei contatti. Non sono più le foto di Idomeni, il grande campo creato spontaneamente dai profughi bloccati questa primavera al confine tra Grecia e Macedonia. Ora sono foto che provengono dai diversi campi che li hanno sostituiti per iniziativa del governo greco (ad esempio, alcune di queste le ha mandate un ragazzo da un campo vicino a Salonicco). Questa istituzionalizzazione non si è tradotta però in un miglioramento: le immagini mostrano con evidenza come le condizioni materiali siano rimaste molto simili a quelle precedenti: tende improvvisate, servizi igienici scarsi e mal funzionanti… La gestione di questi campi è stata affidata dal governo greco ai militari, le cui camionette si vedono campeggiare a fianco delle tende e degli edifici sotto al sole; così l’immagine e la realtà della condizione di profughi viene ad assomigliare sempre di più a quella dei detenuti nei campi di internamento delle guerre novecentesche, con forti limitazioni della libertà e soprattutto con il divieto ai volontari delle organizzazioni internazionali di accedere ai campi e di alleviare le difficili condizioni di vita di queste persone, portando aiuto, solidarietà, sostegno, speranza, spezzando l’isolamento di queste comunità artificiali. Anche gli accessi dei medici sono fortemente contingentati: solo poche ore al giorno, e in queste condizioni di caldo asfissiante e di forte vulnerabilità delle persone la limitazione dell’assistenza medica si rivela pesante e porta conseguenze negative.

Ma sono soprattutto le prospettive che vengono a mancare. Alcuni profughi hanno finalmente potuto iniziare la procedura di pre registrazione per la richiesta d’asilo, ma si tratta di pratiche che avanzeranno solo tra mesi e mesi. Le nostre avvocate avevano presentato ormai due mesi fa un ricorso alla Corte europea per palesare le gravi violazioni del diritto di asilo patite da questi bambini e adulti, cercando in questo modo di favorire uno sblocco della situazione di stallo che si è creata da questa primavera quando l’Europa ha ripristinato la chiusura dei confini nazionali isolando i profughi in cammino. Il ricorso sta andando avanti, un’umile richiesta di giustizia che parte da donne avvocate impegnate a contrastare la realpolitik degli stati dell’Europa delle finanze con semplici penne e fogli protocollo. Ma ora sono le autorità greche che dopo aver negato i gli strumenti per permettere la richiesta di asilo a questi profughi stanno negando che i ricorrenti stessi siano effettivamente nei campi in cui si sono riusciti a registrare e in cui dichiarano di vivere. Dalla Merkel in giù, ogni soggetto istituzionale pensa ai propri interessi politici e burocratici, e il peso finale di questo enorme processo di scaricabarile è tutto sulle spalle di chi fugge dalle guerre.

In questo quadro ci sono e continuano a vivere migliaia di bambine e bambini, ragazze e ragazzi provenienti dalla Siria in guerra, dall’Iraq, da altri paesi. Sono giovani che sono lontani dai luoghi in cui sono nati da due, tre, a volte anche più anni. Molti non sono accompagnati perché stavano cercando di raggiungere i parenti ne paesi del nord Europa ma sono rimasti tagliati fuori dal ripristino delle frontiere. Ovviamente non vanno a scuola, chi è partito piccolissimo con la madre o è nato duranti queste fughe dalle guerre non ha mai frequentato una scuola; i più grandi, che studiavano regolarmente, ormai non ricordano più cosa fosse una maestra, una lezione, un quaderno. Ma imparano ugualmente, imparano moltissimo. É la realtà che vivono a formarli. Chi insegna come noi sa quanto maggiore è l’efficacia di una lezione svolta come esperienza, in maniera laboratoriale, con un coinvolgimento concreto ed emotivo; questi bambini stanno imparando letteralmente sulla propria pelle a sopravvivere senza una casa, senza diritti, imparano che essere ragazzi non ti garantisce alcuna tutela, che devi arrangiarti e che per le istituzioni sei solo un peso. Chi è senza genitori impara a nutrirsi di affetti provvisori, di adulti che si trovano anch’essi tagliati fuori dall’Europa, di volontari e volontarie che con le loro mani provano a difendere un’idea di umanità e a tutelare questa infanzia bandita.

Alessia ci raccontava della difficoltà quando si arriva in campi come questi a rapportarsi con tanta richiesta di affetto, assistenza, compagnia, curiosità che proveniva da questa infanzia sradicata e marginalizzata. E’ un’umanità giovane pronta ad emozionarsi per chi la degna di uno sguardo. “Inizi a far fare ‘vola vola’ a una bambina e subito arrivano decine di bambini che reclamano anch’essi il diritto a volare almeno per gioco afferrandosi alle tue mani, così lo fai con tre, quattro, poi quasi ti spaventi, incapace di alleviare, anche se semplicemente in maniera simbolica, con le tue povere forze, la carenza di relazioni umane, di gioco, di attenzione, di piacere che stanno accumulando queste generazioni di piccoli donne e uomini”. Più passa il tempo e più questo abbandono mette radici, si trasforma da uno stato di emergenza ad uno stato di quotidianità, viene vissuto come una condanna decretata dai paesi della ricca Europa. Popoli futuri che crescono tra confini e container. La terra dove i loro genitori hanno studiato, le loro scuole, sono irraggiungibili e crollate sotto i bombardamenti, le scuole dove vorrebbero andare, dove noi insegniamo sono patinate e irraggiungibili, l’unica scuola possibile per loro è questa terra arsa dal sole e dai militari.

Viene da chiedersi, mentre l’estate ci affatica, cosa fare. In questa estate nella quale anche noi insegnanti ci interessiamo ai destini dell’Europa monetaria, alla Brexit, ci chiediamo se il futuro ci riserva una nuova stagione di frontiere, confini, conflitti tra nazioni oppure un rinnovato trionfo dello strapotere della finanza. Difficilmente ci viene da sperare in una nuova primavera dei popoli. Come si fa a preparare una primavera dei popoli a scuola? Come si mantiene viva la speranza di un’utopia alla faccia dello strapotere delle finanze e delle derive nazionaliste? O almeno come si mantiene aperta la mente delle future generazioni ad un futuro di speranza? Qual è la didattica che può mettere in scacco i difensori dei confini e delle gerarchie, e aprire corridoi di passaggio per questi bambini e bambine, denunciando lo scandalo della loro privazione dei diritti?

Un compito storico certamente si pone alla nostra generazione di docenti europei: essere all’altezza del periodo che stiamo vivendo, spiegare e far capire ai giovani studenti, sempre più ricchi di radici che si diramano oltre i nostri “sacri confini”, che stiamo vivendo negli anni dell’esplosione delle frontiere, della marginalizzazione dei diritti di chi fugge dalle guerre, dalla povertà, negli anni dell’arroccamento dell’Europa. Saperlo non risolve un bel nulla, ma è una premessa indispensabile per non concedere a noi stessi e alla nostra società di riconciliarsi con questa realtà satura di ingiustizie. Essere in classe facendo finta di nulla sarebbe una vergogna. E insegnare matematica o diritto non può scusare nessuno: l’indecenza peggiore è quella di chi si sente fuori da ogni responsabilità etica perché si considera solamente un tecnico dell’istruzione. Insegnare da non riconciliati significa riportare dentro le scuole la dimensione sociale dell’esistenza, fare irrompere l’attualità, le grandi disuguaglianze, i legami nascosti tra le immense ricchezze dei pochi e le cortesi emarginazioni riservate ai bambini che vengono ricacciati fuori dalle frontiere. E farlo quotidianamente, cambiando il nostro habitus, il nostro stile di docenti, senza aspettare circolari o indicazioni dall’alto, senza bisogno di trasformare il desiderio di giustizia in un progettino. Bisognerebbe entrare in classe ricordando che – se l’Europa fosse stata diversa – in quella classe ci poteva essere una delle bambine di Idomeni, uno dei ragazzi dei campi di Salonicco, e insegnare come se ci fossero realmente quei ragazzi, in attesa del loro arrivo, evocando quell’arrivo che rimane l’unica risposta che da un secolo a questa parte si deve dare a chi scappa dalle guerre e la povertà: l’accoglienza solidale.