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Opinioni / “Perché Panebianco è razzista”

Si moltiplicano gli interventi contro le posizioni del docente di Scienze Politiche. Pubblichiamo una riflessione della ricercatorice Anna Curcio e un commento di Detjon Begaj, di Làbas: “Tra liberal-darwinismo e barbarie”.

15 Gennaio 2014 - 12:24

Perché Panebianco è razzista

Diciamoci la verità, siamo ormai talmente assuefatti ai commenti di stampo razzista che circolano quotidianamente sui mezzi d‘informazione a proposito degli argomenti più disparati che quasi non ci facciamo più caso. Ma poi ci sono momenti che il discorso si palesa fino al punto che diventa insostenibile, che occorre prendere parola, mentre rabbia e indignazione hanno finalmente la meglio. Certo precarietà e sfruttamento spingono spesso le nostre vite ai margine del possibile, dove siamo sopraffatti dalla necessità della sopravvivenza quotidiana. Ma si sa, il troppo stroppia. Così quando ho letto le dichiarazioni di Angelo Panebianco a commento della legittima e sacrosanta contestazione da parte degli studenti bolognesi, dopo l’editoriale apparso lunedì su il “Corriere della sera”, be’ ho messo da parte i miei guai e acceso il computer. Non, o non solo, in solidarietà ai lavoratori e alle lavoratrici migranti che della filosofia efficacemente e cinicamente riassunta come “Troppe ipocrisie sugli immigrati” sono le vittime designate, né semplicemente per un puro slancio etico. Prendere parola contro il razzismo imperante vuol dire soprattutto combattere lo sfruttamento e la precarietà di tutti i giorni. Perché le lotte, ben più che i professori universitari, mi hanno insegnato che combattere il razzismo vuol dire lottare per cambiare lo stato di cose presenti. Ma andiamo con ordine.

Nelle dichiarazioni rilasciate alla stampa la mattina di martedì 14 gennaio mentre si allontanava da Scienze politiche a Bologna dove era in corso la contestazione, Angelo Panebianco ha sostenuto, a mo’ di difesa, che l’editoriale del “Corriere della sera” non “riguardava certo i profughi” ma i “flussi di forza lavoro”. Così, se fino a quel momento era stato possibile non vedere, lasciarci distrarre da altre necessità, con questa dichiarazione l’ordine del discorso prendeva la sua forma più precisa. Ne andava dunque sottolineata la matrice profondamente razzista, per evitare che ancora una volta calasse su questi temi il silenzio. La matrice di fondo del discorso è presto detta: per i profughi non vale la pena sprecare analisi sulle pagine di un prestigioso quotidiano, basta un po’ di pelosa compassione e lacrime di coccodrillo all’indomani di stragi sempre annunciate; quella della forza lavoro è invece una materia ben più sostanziosa e, a differenza di quatto straccioni tutelati dalle leggi internazioni che non possono neanche essere messi al lavoro, chiama in causa l’organizzazione del lavoro e della produzione. Il razzismo, non mi stancherò mai di ripeterlo, non è un vizio ideologico dei vari Penebianco in giro per il paese, né una patologia sociale che colpisce la classe dirigente, il razzismo è un potente dispositivo di organizzazione del lavoro immediatamente contestuale alla produzione capitalista.
Ciò che Panebianco fa nell’editoriale contestato e poi nella replica successivamente riportata dai giornali è produrre differenze, invoca esplicitamente “interventi selettivi” in materia di immigrazione, per poi lanciarsi a stabilire una gerarchia tra migranti “buoni” e migranti “cattivi”. I primi sono quelli che si integrano, quelli che sono disposti ad annullare la propria identità sociale e culturale sullo sfondo del primato della whiteness e di un sistema di relazioni verticale. E soprattutto quelli che accettano senza batter ciglio forme feroci di sfruttamento sul lavoro. È per questo allora che, senza esitazione, dico che Panebianco è razzista. Ed è razzista perché ricorre al principio della razza – che non è un attributo biologico ma una costruzione sociale di marginalizzazione e discriminazione che chiama in causa l’appartenenza nazionale, la religione e più in generale comportamenti che si presumono naturali, non solo il colore della pelle – per costruire segmenti separati e tra loro in competizione della forza lavoro: una vera e propria tassonomia razziale per cui tanto più in basso finisci, ovvero tanto più sei considerato “cattivo”, tanto più potrai essere sfruttato e sottopagato sul mercato del lavoro. Un principio davvero semplice da capire. Tanto semplice quanto politicamente problematico se svelato. Ed è per questo che la strategia delle elite politiche, in questo paese e non solo, è sempre quella di mescolare le carte, di giocare tra “accoglienza” e “convenienza”, tra profughi e “clandestini”, tra migranti “buoni” e migranti “cattivi”.

Ora, va da sé che il problema non è Angelo Panebianco in quanto tale, o meglio, il problema non è solo Angelo Panebianco, il reale problema che le dichiarazioni del professore bolognese celano ha a che fare con un più complessivo sistema di potere, che non ha colore politico, ma sostiene e legittima in modo bipartisan il razzismo, come dispositivo di sfruttamento che accompagna e sostiene il capitalismo sin dai suoi albori. Per questo, inoltre, il tentativo di Panebianco di smarcarsi dalle critiche degli studenti non funziona, perché il razzismo, come costante del capitalismo, non distingue tra fascismo e neoliberismo. Pinochet e i Chicago boys erano al contempo fascisti, neoliberisti e razzisti. E gli studenti evidentemente lo sanno meglio di lui, a meno che il professare non faccia il vago per convenienza.

Relegare il razzismo ad altri momenti storici o ad altre latitudini è senz’altro più conveniente che discuterlo nella sua attualità. L’attualità ci parla di un sistema di sfruttamento diffuso e strutturale che il razzismo alimenta e rende possibile nelle sue differenti gradazioni. Un dispositivo intrinseco alla produzione capitalistica che riguarda tutte e tutti, razzializzati e non. Il razzismo è, detto altrimenti, la sintesi più infame e violenta di uno sfruttamento che tutte e tutti conosciamo e viviamo. È per questo allora che combattere il razzismo non è mera solidarietà ma una lotta comune che ci riguarda da vicino, forse più di quanto a volte crediamo.

Anna Curcio

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Tra liberal-darwinismo e barbarie

Sull’editoriale del CorSera “Troppe ipocrisie sugli immigrati” e il referendum a 5 Stelle

Ad essere maligni, si potrebbe pensare che nella burrascosa giornata di ieri che ha visto protagonista l’ennesimo test alla macchina dell’iper-democrazia grillina (reato di clandestinità, tema a dir poco scottante e affatto coagulante nel Movimento), non sia un caso che il Professore alla facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna, nonché editorialista del Corriere della Sera, Angelo Panebianco abbia scelto di dire la sua rispetto ad un dibattito in cima alla lista dell’agenda politica e culturale italiana.

Certo è, come si legge da “beppegrillo.it”, come lo stesso Beppe Grillo ci tenesse molto a rassicurare (ma il terremoto di queste ore è sintomo che non è bastato) in fretta i 9.000 iscritti che hanno “cliccato” per il mantenimento del suddetto reato, precisando che il voto parlamentare non sfiora minimamente la disciplina dell’espulsione amministrativa.

L’inquietante superficialità con cui Casaleggio ha delegato la decisione di voto dei parlamentari grillini su una questione riguardante i diritti umani, la vita o la morte, la cancerizzazione selvaggia di chi è colpevole di uno “status” (non certamente di una qualche condotta di per sé offensiva), allo strumento della finta -e meno responsabilizzante possibile- partecipazione democrazia on-line (su cui sappiamo bene essere in coppia con Grillo l’unico garante/scrutatore dei “clic”), non disterebbe molto dall’altrettanta superficialità con cui il Prof. Panebianco definisce il concetto di “ipocrisia” come “mancanza di convenienza”.

Ad essere benigni, invece, si potrebbe pensare che i risultati dei sondaggi proposti in ogni articolo de “ilcorriere.it”, in cui il lettore può cliccare su quale stato d’animo ha suscitato la lettura, non c’entrino nulla con la linea editoriale del maggior quotidiano italiano per tiratura (e diffusione).

Sondaggi in cui trionfa il “soddisfatto” al 78% rispetto l’editoriale di ieri, contro il 71% di “indignati”, qualche tempo fa, alle dichiarazioni del PD che definiva l’accoglienza “valore fondante”di Lampedusa. Vale la pena citare un buon 48% di altri “soddisfatti” raggiunto da un pezzo intitolato: “Salvini: gli immigrati disinfettati vengono da noi a rubare”.

Ad essere realisti, infine, il pezzo incriminato che ha acceso il dibattito nel web è pura spazzatura giornalistica di una gravità inqualificabile, aggravata dall’essere elaborazione di un docente universitario.

La giustificazione utilitaristica di una sorta di selezione bio-economica (con parametri basati su capacità lavorative “razziali”, natalità, religione) di chi può “entrare”, a dir vero, non è un ago nel pagliaio europeo, ma oltre a stimolare, nei modi in cui presentata, da un lato la memoria di deportazioni a fini schiavistici da epoche assai lontane fino ad altre fin troppo vicine, dall’altro la strenua difesa dell’identità cristiana (ma condannandone l’eccessiva solidarietà, freno dell’efficienza statale) , si riduce ad essere l’ennesima e inaccettabile speculazione sulla confusione e lo smarrimento che imperversa in Italia.

Chiunque infatti, oggigiorno, dagli intellettuali bipartisan agli iper-cittadini divenuti parlamentari, può presentare come degne di discussione strampalate, bizzarre, strabilianti soluzioni ai mali economici, sociali, politici e perfino (sic!) medico-scientifici.

Contro la presunta naturalezza del fare “selezioni convenienti” tra migranti come se si debba scegliere se importare un prodotto piuttosto che un’altro (magari per poi buttarlo via se non ci serve più o se ne si trova uno migliore), la risposta che riteniamo unicamente (e seriamente!) naturale è l’apertura delle frontiere della Fortezza Europa.

Il diritto ad una vita degna, il diritto alla libera circolazione, il diritto di essere liberi ed autodeterminarsi in qualsiasi tempo e spazio non sono barattabili, non possono classificarsi in “serie A” e “serie B” (nell’articolo “di un primo tipo e di un secondo tipo”), non possono nemmeno essere oggetto di una qualche “concessione” che decida tra “l’accoglienza forza-lavoro” e il respingimento in mare che significa morte, come recenti e meno recenti cronache ci hanno abituato.

E’ per questo che il nostro metro di giudizio non può essere né un insegnamento su presunte convenienze, né un sondaggio on-line, bensì quello che rende protagoniste le tantissime (e sempre di più) persone che mettono in gioco i propri corpi da anni contro i CIE e le strutture della non accoglienza, contro lo sfruttamento lavorativo dei migranti, contro i trattati-barricata della UE, contro ogni forma e livello di razzismo.

Ed è per questo che non abbiamo dubbi su chi vogliamo che siano i nostri compagni di viaggio e su chi sia, ancora una volta, nostro nemico (che sia virtuale, cartaceo o in carne ed ossa).

L’unico dibattito che ci interessa e che prendiamo in considerazione è quindi quello che, dal basso e con una quantità straordinaria di realtà, organizzazioni, associazioni e movimenti italiani ed europei stiamo costruendo sulla via della scrittura de “La Carta di Lampedusa”.

Detjon Begaj (Làbas Occupato)