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Opinioni / ”Lo sapevate che Bologna
è governata dalla Questura?”

Riceviamo e pubblichiamo una lettera che racconta la storia della “mutazione antropologica” della classe politica cittadina e di imbarazzanti sindaci “sceriffi” in balia di questori e procuratori.

11 Agosto 2017 - 11:04

Lo sapevate che Bologna è governata dalla Questura?

Siamo un gruppo di compagni sulla sessantina o giù di lì. Non sempre avere quell’età è una sfiga, soprattutto se si ha ancora una memoria discreta per mettere insieme alcune storie del passato e fare il confronto con quello che sta avvenendo ai giorni nostri.

Per tutta la nostra vita, fin quando eravamo degli sbarbatelli, abbiamo frequentato i movimenti e quelle situazioni che, di solito, ne costituiscono le dinamiche: manifestazioni, occupazioni, picchetti, scontri di piazza, sit-in pacifici.

Una buona parte di noi ha partecipato anche ai percorsi dei centri sociali autogestiti e, in quel contesto, abbiamo subito o assistito a più di uno sgombero: d’inverno e d’estate, molto spesso in agosto.

Per diversi decenni abbiamo avuto a che fare con tutte le polizie possibili e anche quelle inimmaginabili, con la truppa dei reparti della Celere, con gli ufficiali dei Carabinieri, con i funzionari prima della Squadra Politica poi della Digos, con qualche furbastro che voleva giocare all’infiltrato.

In molti casi, le politiche delle questure e dei loro dirigenti le abbiamo sentite sulle nostre teste o sulle nostre schiene, le abbiamo pagate spesso con denunce o mesi di galera (a chi è andato peggio, anche qualche anno). Non ci riteniamo degli angioletti, quando c’era da darci dentro l’abbiamo fatto.

Sulla base di queste esperienze di vita vissuta “più o meno pericolosamente” ci sentiamo di dare un giudizio motivato sull’attuale gestione della Questura di Bologna, sul suo modo di concepire l’ordine pubblico, sulla sua guerra dichiarata ai movimenti, sulla volontà di determinare, attraverso scelte repressive, le politiche e gli interventi sulle emergenze sociali.

Lo facciamo dopo la giornata dell’8 agosto 2017, dei due sgomberi in contemporanea di Làbas e di Crash, due esperienze di autogestione con percorsi di sperimentazione sociale molto diversi tra di loro, ma che, nel corso degli anni, si erano conquistate, oltre al diritto all’esistenza, un ruolo importante in quel mondo che potremmo definire dell’”altra città possibile”. Chi ha deciso di cancellare con la forza aggressiva e la prepotenza questi due spazi occupati, è poco interessato alle differenze, preferisce la cultura del “napalm”, quella del bruciare tutto, comunque, per incenerire qualsiasi idea o progettualità fuori dal coro.

Sentiamo il bisogno di dire qualcosa perché, tra i tanti passi indietro che questa città ha fatto in questi anni, c’è pure il “degrado mediatico” che l’ha colpita. E’ mai possibile che, da quando ai piani alti di piazza Galileo c’è l’attuale questore, non si sia mai potuto leggere sui media mainstream, non diciamo una critica, ma un dubbio sull’invasione, ai limiti della sconvenienza, di “uomini in blu” durante le manifestazioni dei movimenti? Ultima in ordine di tempo, quella per il G7 sull’Ambiente, con la città occupata militarmente, con strade e vicoli presidiati da pattuglioni di divise di tutti i corpi di polizia per contenere “visivamente” un corteo ultra pacifico. E nessuna critica s’è vista neanche per un caso clamoroso come quello del camion lasciato entrare in piazza Maggiore durante un concerto, in barba alla marea di chiacchiere sulla sicurezza: tanto che alla fine si prese la colpa il sindaco (“Nessuno chiede scusa? Allora lo faccio io”), ad eclatante dimostrazione della mesta abdicazione della politica e dell’amministrazione di fronte al menefreghismo dei palazzi a fianco.

Sgombero dell’ex-Telecom in via Fioravanti – 20.10.2015

Per non parlare degli sgomberi a ripetizione di alloggi occupati, dall’ex Telecom a via Agucchi, da via de Maria a via Solferino, da via Irnerio a via Gandusio che hanno voluto dettare i tempi per affrontare, soprattutto con l’azione repressiva, un’emergenza abitativa tra le più gravi che si siano viste sotto le Due Torri. Mettiamoci anche i manganelli che sono finiti ripetutamente sulle teste di persone che, in quei frangenti, si limitavano, per lo più, a forme di resistenza passiva. Il paiolo, però, non è ancora pieno. Da aggiungere ci sono il vergognoso assalto alla biblioteca del 36 di via Zamboni, con poliziotti in mezzo agli scaffali dei libri, e la distruzione del Circolo Guernelli, durante lo sgombero in via Gandusio, giustificato per un odore di gas che rischiava di scappare da tutte le parti. L’elenco non è finito: c’è anche l’aggressione preordinata agli attivisti di Làbas, durante una giornata del mercato di Campi Aperti (con lo spazio pieno di bambini e famiglie), per proteggere, successivamente, la sfilata di un gruppetto di fascisti che dal Baraccano se n’erano usciti con saluti romani, inneggiando al duce.

Perché le “versioni ufficiali” su questi episodi sono state sempre bevute dagli organi d’informazione bolognesi come se fossero necessari bicchierini di “olio di ricino”?

Poi c’è la cosiddetta ordinaria amministrazione, la sequela di sgomberi che hanno strappato spazi alla socialità e alla cultura per riconsegnarli alla polvere e al degrado, come da Zic documentato nell’inchiesta “Chiedi alla polvere“. C’è anche e non va dimenticato l’aumento esponenziale delle denunce e delle misure di “confino 2.0”, come i divieti di dimora o i fogli di via, fatte a volte in autonomia, a volte in joint venture con la Procura della Repubblica. E non è che in questi anni la conflittualità sociale abbia raggiunto livelli apicali. Quindi, le azioni repressive sono state applicate in una progressione inversamente proporzionale alle lotte.

Non sappiamo se, negli attuali addestramenti delle scuole di polizia, si usino metodi innovativi di tipo “wargamistico” , con simulazioni come il vecchio gioco da tavolo “Corteo”. Certo è che i poliziotti che si vedono in strada in questi periodi hanno un approccio da “tumultuosa situazione di piazza”. Forse c’è un po’ di nostalgia per cortei ben più vivaci, da fine anni ’70, rispetto a quelli più che tranquilli degli ultimi anni. Forse il lato manganellatore che si annida in ogni graduato della Celere freme ancora al pensiero di comandare drastiche cariche “contro masse di capelloni sovversivi”.

A tal proposito, pensiamo sia utile sottoporvi un articolo del Resto del Carlino dell’agosto 1976:

L’eterno problema degli hippies

Per l’ennesima volta abbiamo assistito allo spettacolo che gli hippies offrono ai cittadini. Da molto tempo siamo nauseati dalla loro violenza e dalle loro oscenità che ostentano proprio nella nostra piazza Maggiore, bivaccando sulla gradinata di S.Petronio.

Per quanto ne sappiamo, la città di Bologna fa il possibile per dar esempi di buona amministrazione, di moralità e di ordine. Dimostrazioni che possono più o meno riuscire. Per esempio, non è sufficiente lustrare la facciata della Basilica o rifare i tendoni del Palazzo del Podestà.

Occorre una pulizia ben più profonda, non superficiale ma morale, altrimenti non vi è coerenza.

Bisognerebbe veramente fare piazza pulita di capelloni, drogati e prepotenti. Ma se ciò non è possibile, si sia almeno coerenti: non si allontanino gli zingari dalla città, ma li si unisca a questi esseri esemplari. Tutto andrà a vantaggio del folklore di Bologna.

Come è possibile notare si tratta di una prosa non molto diversa da quella letta sullo stesso quotidiano nei mesi scorsi in articoli riguardanti la vicenda dell’Xm24.

Sgombero delle case occupate in via Irnerio – 03.05.2016

Ritornando ai corsi e ricorsi delle Questure, ci verrebbe da dire che, quello che vediamo oggi fa il paio con quello a cui abbiamo assistito, da piccoli, tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70. Contesti diversi, logica repressiva con le stesse finalità.

Nel 1969 ci fu una lunga vertenza contro i licenziamenti alla fabbrica di lucchetti Viro. Ogni giorno picchetti, rinforzati da lavoratori di altre fabbriche e da studenti, ogni giorno cariche della polizia ai cancelli per spalleggiare squadracce di picchiatori assoldati dal padrone. In uno di questi scontri vennero arrestati dei compagni studenti che rimasero in carcere diversi mesi.

Nel 1971 ci fu la grande occupazione di case Iacp vuote al Pilastro. I senza casa erano lavoratori e disoccupati, immigrati dal meridione con le loro famiglie. Nel mese di agosto ci fu lo sgombero con un grande spiegamento di agenti e carabinieri. Durante i momenti di resistenza attiva che ne seguirono alcuni compagni dei gruppi della sinistra rivoluzionaria vennero arrestati e si fecero un bel po’ di galera.

Nei primi anni ’70 ci fu una lunghissima vertenza aziendale alla Ducati Elettrotecnica, una delle più grandi fabbriche del bolognese, di proprietà di una multinazionale, con l’occupazione in massima parte femminile. I picchetti delle operaie e degli studenti erano quotidianamente attaccati dai fascisti di “Mondo Libero” e dai crumiri del sindacato giallo aziendale. Dopo la prima passata, arrivavano i carabinieri a spaccare le teste con i calci dei moschetti. Ci furono diversi licenziamenti politici che colpirono i compagni operai più attivi (si tratta di cose che, in questi anni abbiamo rivisto davanti ai cancelli dei magazzini della logistica).

Nel 1969, ’70 e ‘71 la situazione nelle scuole superiori bolognesi, soprattutto nei licei, era abbastanza complicata. La nascita di un nuovo movimento studentesco che, in poco tempo, avrebbe avuto una grande esplosione, fu contrastata agli inizi da continue aggressioni e scorribande organizzate da squadracce di fascisti della Giovane Italia e del Fuan (le organizzazioni giovanile e universitaria del Msi). Quasi sempre, dopo i raid dei neri, con sprangate e teste spaccate, arrivavano, puntuali, i poliziotti che arrestavano i giovani compagni per “rissa aggravata”. Le celle del carcere minorile del Pratello videro un vero e proprio turn-over di ragazzi del movimento studentesco.

In quel periodo non mancarono gli assalti della polizia alle occupazioni delle scuole. Il più grave fu quello all’Istituto Tecnico Industriale Itis di via Saragozza. Ne seguì una resistenza a oltranza, con i cancelli della scuola barricati con i banchi. Quando riuscirono a fare irruzione, gli agenti pestarono a man bassa e quattro compagni del collettivo studentesco furono arrestati.

Se di quegli anni si potessero vedere gli archivi di polizia, sarebbe simpatico mettere sulla stessa bilancia il numero dei compagni che vennero arrestati e denunciati e il quasi zero assoluto degli squadristi in camicia nera.

Si arrivò al paradosso che i dossier sui fascisti, le informazioni sui campi paramilitari della Giovane Italia, sulle palestre dove i picchiatori si addestravano alle arti marziali, li redassero le strutture del movimento antifascista. Si scopri, invece, che negli scaffali della questura questo tipo di notizie non aveva mai trovato posto.

Delle giornate del marzo, delle rivolte del ’77, dell’assassinio di Lorusso, dell’assalto con chiusura di Radio Alice, dei carri armati nella cittadella universitaria, dei funerali alla cilena per Francesco, dell’arresto di centinaia di compagne e compagni e del carcere per diverse decine di militanti, ne abbiamo parlato tante volte che, in questo contesto, non è necessario approfondire.

Mentre è bene parlare delle inchieste post 7 aprile 1979 dove, con mandati di cattura stampati col ciclostile e imputazioni messe dentro a casaccio, vennero arrestate decine di compagni del movimento a cui venne fatta scontare un lunga pena in carcerazione preventiva, mai suffragata da una condanna al dibattimento e nei successivi gradi di giudizio.

Ci sono sempre stati pesi e misure diverse tra “rossi” e “neri”. Per i militanti dell’estrema sinistra rivoluzionaria ci furono arresti e condanne, molte delle loro organizzazioni furono annientate dalla repressione. Per i camerati dell’eversione nera, invece, l’impunità è sempre stata un tratto distintivo. Non siamo solo noi a dirlo, l’ha scritto pure l’Espresso qualche settimana fa: “Il terrorismo di destra era dentro lo Stato. Gli stragisti hanno trovato complicità e protezioni nei Servizi e negli apparati di polizia e di giustizia”.

Quante sono le stragi rimaste impunite? La questione dei mandanti per la bomba alla stazione di Bologna è cosa ancora aperta. Per l’anniversario di quest’anno è stata pure materia di polemica tra l’associazione dei familiari delle vittime e il procuratore capo bolognese.

Nei mesi precedenti la strade del 2 agosto 1980, tra Bologna e la Romagna si ramificò un’organizzazione fascista che già nel nome era un programma: Ordine Nero. Sotto le Due Torri la questura non se ne accorse e, quando fu aperta un’inchiesta, nessuno sa come andò a finire.

Nei primi anni ’90, in contemporanea alla nascita dei primi centri sociali, riprese corpo una pratica di sgomberi (molti dei quali in agosto) come risposta alle occupazioni. Nel frattempo, la città veniva sconvolta dai raid omicidi della banda della Uno Bianca. Nel palazzo della Polizia di Stato erano talmente strabici che non si accorsero che quella banda era composta in massima parte da poliziotti. I fratelli Savi e i loro complici furono scoperti, ma mai nulla saltò fuori sulle coperture che sicuramente avevano avuto e sugli eventuali mandanti.

La questione dell’ordine pubblico ritornò a essere centrale con le manifestazioni del movimento no-global. A Genova, al G8 del luglio 2001, ci fu una scia di sangue e di terrore, prodotta dall’assassinio di Carlo Giuliani, dalla “macelleria messicana” della scuola Diaz e dalle torture nella caserma di Bolzaneto. Tutti i poliziotti che erano stati protagonisti di quelle nefandezze rimasero impuniti o fecero carriera. Addirittura, a Bologna, un sindacato di polizia fece stampare delle magliette con la scritta “A Genova io c’ero” e un anfibio che schiacciava la testa di un manifestante.

Sgombero dell'ex Telecom in via Fioravanti - foto Zic
Sgombero dell’ex Telecom in via Fioravanti – 20.10.2015

Quello che successe nella città ligure non servì neppure a dare una ridimensionata a determinati comportamenti degli uomini in divisa, anzi molto spesso le cose peggiori furono prese ad esempio per “comportamenti virtuosi”. Se non fosse stato così, non si vedrebbero, ancora oggi, manganelli impugnati dalla parte opposta al manico, per fare più danni quando si abbattono sulla gente, o strani adesivi con slogan intimidatori sugli “strumenti di lavoro” di alcuni addetti alle forze dell’ordine.

Siamo arrivati, così, ai giorni nostri e tante delle cose più inquietanti viste nel corso di quasi cinquant’anni ce le siamo trovate concentrate in molti interventi della forza pubblica contro i conflitti sociali nella nostra città.

Fin dal suo insediamento, ha circolato la chiacchiera che l’attuale questore abbia simpatie di destra. La cosa, di per sé, non è nemmeno troppo preoccupante. A Bologna abbiamo assistito a un lungo susseguirsi di alti dirigenti della Polizia di Stato con amici potenti nei partiti di destra, prima nell’Msi e poi in Alleanza Nazionale. Si diceva che era una scelta politica del governo centrale per appianare il potere politico della sinistra che a Bologna, dal dopoguerra in poi, era sempre stato al governo della città. I vertici politico-amministrativi di Palazzo d’Accursio spesso ci andavano anche a braccetto con quelli del Palazzo di piazza Galileo (il caso più eclatante fu l’accordo tra il ministro dell’Interno Cossiga e il sindaco Zangheri per fare arrivare gli M113 in via Zamboni il 13 marzo 1977), ma ognuno svolgeva il suo ruolo e suoi compiti con chiarezza (politici e di governo, repressivi o di prevenzione). Anche i movimenti avevano chiaro contro chi protestare e/o rivendicare, contro chi battersi o difendersi e, quando era il caso, con chi politicamente interloquire.

La cosa grave dell’oggi è che la politica e la capacità di amministrare in autonomia il bene comune non esistono praticamente più. Il futuro della città e le sue linee di sviluppo sono dettati dai poteri economici e finanziari, mentre il governo dei problemi e, soprattutto, delle emergenze sociali è legato agli interventi una volta della Procura della Repubblica, una volta della Questura. I conflitti e le contraddizioni sociali non si confrontano più con la politica, che è ormai insussistente, ma quasi esclusivamente con linee repressive tese a cancellare ogni tipo di aggregazione che non sia omologata. I Patti per il lavoro o per il welfare municipale sono diventati marginali rispetto ai Patti per la sicurezza. Il confronto con le categorie sociali o con le esperienze di cittadinanza attiva è stato subordinato alla collaborazione tra le forze dell’ordine, la Polizia municipale e i principali istituti di vigilanza del bolognese, con l’obiettivo di aumentare “il grado di siurezza nelle due città e il controllo del territorio”. Un tempo si parlava di “Mille luci sulla città” per aumentare le occasioni culturali, gli spazi di ritrovo e la partecipazione. Oggi vanno per la maggiore progetti come ”Mille occhi sulla città” che, secondo le parole del questore, sono uno strumento in più di vigilanza del territorio. Fino a poco tempo fa si parlava di “bilancio partecipato”, per coinvolgere i cittadini alle scelte dell’amministrazione della città, adesso si sproloquia sulla “sicurezza partecipata“, con tanti attori che dovrebbero fornire informazioni, con tante sentinelle che, raccordate con le forze dell’ordine, dovrebbero avere gli occhi da confidenti.

Nel “Patto per Bologna sicura” gli ambiti di intervento previsti prefigurano un’idea di città da incubo: l’integrazione delle informazioni sugli immobili occupati; la lotta al commercio abusivo; il contrasto all’uso di sostanze psicoattive, il potenziamento del sistema di videosorveglianza.

Preannunciano più sicurezza, ma creano paura e stati di panico, costruendo allarme sociale verso i soggetti sociali più deboli.

Sgombero via Agucchi – 09.12.2015

Ogni giorno di più questa città, che fino a ieri si è chiamata Bologna, ha sempre di più le sembianze di una delle tante “Treviso” che pullulano il territorio italiano, rappresentate da tanti insignificanti, oseremmo dire imbarazzanti, sindaci che vogliono giocare a fare lo “sceriffo” (Merola è uno di questi).

A Bologna si è passati dalle emergenze securitarie di cofferatiana memoria, come la guerra ai lavavetri, al meroliano racket dei venditori abusivi di birra. Sotto la mannaia della “legalità” sono finiti, di volta in volta, cingalesi, albanesi, pakistani, tunisini, bosniaci, occupanti di case, centri sociali, collettivi universitari e, naturalmente, i rom.

Dai semafori ai negozi, dalle piazze alle osterie l’attuale forma del governo della città si basa sulla chiusura e sul divieto.

Chi di noi, fino a un recente passato, ha creduto che la sinistra fosse il luogo naturale della solidarietà, dell’umanesimo e dell’uguaglianza oggi prova una certa disillusione. E questo perché la nostra idea era di costruire le condizioni per andare verso un mondo migliore dove anche i più svantaggiati potessero contare.

Perciò, di fronte a quello che stiamo vivendo, non crediamo sia eccessivo parlare di una vera e propria “mutazione antropologica”, di un processo di regressione e d’imbarbarimento, di perdita delle ragioni fondamentali che stanno alla base di percorsi di giustizia sociale. Che fine hanno fatto la solidarietà verso chi è in difficoltà e l’aiuto al proprio simile che soffre?

Il sistema politico-amministrativo a cui siamo assoggettati mal sopporta situazioni di disagio e di emergenza sociale quando l’oggetto dell’urgenza umanitaria sono popolazioni “troppo” diverse dalle nostre.

Questa logica è inquietante: dà il segno dell’ipocrisia e della malafede, non tanto di chi proclama apertamente la sua ostilità razzista nei confronti dei profughi e dei migranti, quanto di chi, pur dichiarandosi pubblicamente favorevole a una società multietnica e multirazziale, fa di tutto per avversarla.

Quante volte, in questi anni, abbiamo visto rappresentanti del Pd e del centro-sinistra comportarsi come (e, a volte, peggio) di esponenti della destra. Si tratta dei fautori dell’approccio “realistico”, pragmatico fino al cinismo e, per scelta, privo di coinvolgimento emotivo. E’ stata la glacialità della “responsabilità pubblica” che ha creato un mare di danni.

I pubblici amministratori non sono persone “normali” che si possono permettere metodi solidali, per interesse politico devono indossare la tuta mimetica della legalità. Le discriminazioni e gli abusi, l’innalzamento di muri veri o virtuali sono il dazio da pagare, senza dimenticare che anche perbenismo e populismo sono lì a richiedere la loro gabella.

P.S. Oggi vanno di moda i consulenti. Ce ne sono di tutti i tipi e per tutte le stagioni. Dicono che il consulente per chi deve fare il questore a Bologna abbia alcuni punti fissi, imprescindibili.

Del dialetto bolognese è necessario imparare, in tempi rapidi, il detto “Fèr al bâl dal sgamber”, che sta per “fare il ballo dello sgombero”, cioè: fare piazza pulita, risolvere in modo duro una determinata situazione.

Ma bisogna stare attenti a non esagerare con la durezza nella giornata dell’8 agosto, perché in quella data, nel 1848, scoppiò una delle rivolte popolari più importanti del Risorgimento italiano contro gli austriaci. Il pretesto al moto fu una richiesta, fatta da due ufficiali asburgici al bancone del Caffè dei Grigioni, di avere un “caffè tricolore”. Questo appiglio fu letto come uno scherno dagli altri avventori e da lì partì una rivolta di popolo contro gli invasori, guidata, nelle prime file, dalle balotte dei facchini, che ebbe come centro la Montagnola e la piazza antistante che venne poi chiamata “VIII Agosto”.

Insomma, a ben vedere, qualcosa di molto meno grave della “frittata della legalità” vista qualche giorno fa all’ex caserma Masini e in via della Cooperazione.