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Opinioni / La sentenza sul divorzio della Cassazione non è una faccenda da vip

Da Sconnessioni Precarie: “Sostituire al criterio del tenore di vita quello dell’autosufficienza e trasformare l’assegno divorzile in un contributo soltanto assistenziale significa cancellare il riconoscimento del doppio carico di lavoro svolto dalle donne”.

03 Giugno 2017 - 11:54

(da Sconnessioni Precarie)

Senza famiglia. Ovvero il matrimonio e il divorzio ai tempi del neoliberalismo

Trattata come una faccenda di gossip su vip ricchi e annoiati, la recentissima sentenza della Cassazione sugli assegni divorzili è passata quasi sotto silenzio, reputata al massimo come una sorta di «lezione» in fondo meritata per le donne che si sposano per convenienza e perché non hanno voglia di lavorare. Lo scarso rilievo dato alla sentenza è ancora più sorprendente se si pensa che molti giuristi vi hanno riconosciuto una «svolta epocale nel diritto di famiglia». La sentenza definisce in effetti l’indirizzo da seguire in sede giudiziaria e non riguarda perciò solo un manipolo di celebri milionarie che d’ora in avanti dovranno rinunciare alle proprie rendite di posizione, ma coinvolge migliaia di donne e uomini di ogni condizione e provenienza. Non si tratta neppure, in realtà, soltanto di una faccenda giurisprudenziale che tratteggia una diversa disciplina del matrimonio e del divorzio. Con questa sentenza, infatti, la Corte di Cassazione registra con lucido cinismo l’inesorabile dissoluzione della famiglia, ma si adegua soprattutto alla tenace necessità di tenerne in vita le vestigia per garantire la riproduzione dell’ordine patriarcale.

Il matrimonio – come pure, di conseguenza, la sua fine ‒ continua a essere considerato come un «atto di libertà», nonché «luogo degli affetti e di effettiva comunione di vita». Il numero di divorzi parla però del matrimonio come luogo di conflitto e di oppressione. Affetti e comunione, infatti, possono essere liquidati senza troppe difficoltà in nome di quello che la Corte definisce un nuovo «costume sociale», tant’è che l’impresa addirittura «esistenziale» della famiglia è sempre «dissolubile, previo accordo, con una semplice dichiarazione delle parti all’ufficiale dello stato civile». La necessità di riabilitare l’importanza del matrimonio ai tempi della morte della famiglia va di pari passo con l’esigenza di diluire la densità dei vincoli tra ex marito ed ex moglie quando il contratto matrimoniale viene ufficialmente e definitivamente rescisso. La famiglia 2.0 che risulta da questa brillante interpretazione del «costume sociale» è quindi un’impresa in cui ciascuna «persona singola» può decidere di investire facendosi carico in ogni caso, secondo un criterio di «auto-responsabilità», del rischio della sua possibile dissoluzione.

Indubbiamente il «costume sociale» a cui la Corte fa riferimento lo hanno cambiato in larga parte le donne, che hanno lottato singolarmente e collettivamente per conquistarsi un destino al di fuori delle mura domestiche e dagli obblighi riproduttivi imposti dalla famiglia. La media italiana di 90mila divorzi e di 85mila separazioni all’anno ‒ la cui somma risulta di poco inferiore al numero complessivo dei matrimoni ‒ non deve perciò sorprendere. Il modo in cui la Corte prende atto di quella trasformazione è tuttavia indicativo di una tensione tutta interna all’ordine patriarcale: mentre la famiglia si sgretola sotto i colpi della libertà praticata dai soggetti che ne dovrebbero sostenere le fondamenta, in primo luogo le donne, viene riaffermata un’idea di matrimonio come forma puramente normativa in modo da inscrivere quella libertà in una logica in definitiva mercantile, facendone l’attributo di individui senza un sesso. Siamo di fronte a un matrimonio senza famiglia. Il primo effetto della sentenza è infatti quello di stabilire che, finito il matrimonio, si ritorna a essere «persone singole», sicché con l’obbligo di solidarietà ‒ cancellato dalla semplice dichiarazione di cessata attività ‒ viene anche meno quello di un risarcimento relativo alla propria condizione precedente. Sostituire al criterio del «tenore di vita» quello dell’«autosufficienza» e trasformare l’assegno divorzile in un contributo soltanto «assistenziale» significa cancellare con un colpo di spugna il riconoscimento del doppio carico di lavoro svolto dalle donne, come d’altra parte ha già fatto senza alcuna vergogna ma tra molte lacrime la ministra Fornero con la sua riforma del sistema pensionistico. Non importa a che cosa le donne abbiano dovuto rinunciare, quante ore abbiano dedicato al lavoro riproduttivo, quanto questo abbia intensificato il loro sfruttamento quotidiano. Non importa se non hanno mai lavorato fuori di casa, o se hanno lavorato part-time per tutta la vita per badare alla famiglia. Non diversamente dai rapporti di lavoro – sempre più individualizzati e privati di qualunque risarcimento sociale – anche quelli matrimoniali vengono formalizzati secondo la logica autoimprenditoriale della responsabilità di sé e del rischio individuale.

Difficilmente la dichiarata dissoluzione della famiglia e del suo carattere vincolante, potrà dissuadere molte donne dal ricorrere al divorzio, anche se l’alternativa a una situazione insoddisfacente, quando non opprimente e violenta, potrà essere la miseria o l’ingresso obbligato nel mercato del lavoro a qualunque condizione. Le donne hanno ormai un’idea troppo alta delle loro libertà. È però significativo che i giudici della Corte, sentinelle comodamente sedute del matrimonio neoliberale, abbiano subordinato la possibilità di vedersi riconosciuto un assegno divorzile di mera sussistenza alla dimostrazione ‒ da parte della richiedente ‒ della mancanza di «mezzi adeguati» per garantirsi l’autosufficienza e dell’impossibilità di «procurarseli per ragioni oggettive». Tra queste ragioni vi è anche il «sesso», che tuttavia non riguarda una considerazione degli effetti della divisione sessuale del lavoro sulle donne, ma si riduce a un criterio tra gli altri di definizione dell’“occupabilità” individuale. Come se non bastasse, per dimostrare l’impossibilità oggettiva di essere autosufficiente la donna deve anche dare prova del suo attivo impegno nella ricerca di un lavoro e, così, della propria «auto-responsabilità economica». L’assegno divorzile diventa di conseguenza il corrispettivo “privato” del «reddito di povertà» o di «dignità» erogato dagli enti pubblici locali per fare fronte al generale impoverimento del lavoro: un assegno della miseria che, secondo un criterio analogo a quello del workfare, dovrebbe imporre alle donne di entrare o rimanere a qualunque condizione nel mercato del lavoro per garantirsi l’autosufficienza e nulla più.

Sappiamo però che, tra quelle 90mila donne che tutti gli anni sono coinvolte in un divorzio, molte l’assegno non lo chiedono neppure, o almeno questo lascia intendere il fatto che solo nel 10% dei casi esso viene effettivamente erogato. Che la famiglia non sia più un destino che le donne abbracciano e danno per scontato è il fatto da cui bisogna partire per comprendere non soltanto questa sentenza, ma anche la centralità che il matrimonio e i ruoli che esso prescrive alle donne tutt’ora mantengono sul piano ideologico e istituzionale. Il neoliberalismo «libera tutti», obbligando ciascuno e ciascuna a vendersi al meglio, come individuo, sul mercato. In questa prospettiva, per gli uomini e soprattutto per le donne la famiglia rischia di essere niente più che un onere, un segno “meno” nella tabella contabile della propria occupabilità. D’altra parte, il matrimonio è necessario per garantire la riproduzione sociale: non soltanto perché il lavoro riproduttivo che le donne continuano a svolgere al suo interno è parte integrante di un welfare ormai del tutto monetizzato e privatizzato, ma anche perché ‒ proprio per questo ‒ i ruoli sessuali che esso prescrive e la loro organizzazione patriarcale sono necessari affinché il neoliberalismo possa riprodursi come ordine. È però significativo che la restrizione dei casi in cui l’assegno divorzile può essere considerato «un diritto» sia vista dalla Corte come la condizione di possibilità affinché il coniuge economicamente favorito possa, una volta sgravato da ogni obbligo di solidarietà, “rifarsi una famiglia”.

In ultima istanza, la sentenza della Corte di cassazione è l’altra faccia della sistematica limitazione della libertà di abortire o della ridicola incentivazione della maternità attraverso estemporanei piani nazionali per la fertilità. Se le donne vogliono essere libere, la loro libertà non può però essere usata per mettere in questione le posizioni, le gerarchie e i rapporti patriarcali di potere ma va addomesticata e governata dalle universali leggi del mercato. Se invece vorranno compiere la «scelta esistenziale» di entrare a far parte di un’impresa matrimoniale, questa, almeno finché dura, dovrà funzionare come un utile piano assicurativo privato, corredato di qualche misero ma fondamentale vantaggio previdenziale o fiscale, che garantisca le condizioni di riproduzione di cui sempre meno le istituzioni si fanno carico. Che poi quelle condizioni continuino a gravare prevalentemente sul lavoro delle donne – erogato gratuitamente oppure appaltato per due soldi a una migrante – è quanto va sistematicamente nascosto affinché il mercato possa essere popolato da individui economici impegnati a valorizzare il proprio capitale umano. La Corte di cassazione vuole essere all’altezza dei tempi, mostrando contemporaneamente in che direzione i tempi dovrebbero muoversi. Tuttavia, nonostante la Corte non se ne sia accorta, le donne, singolarmente e come marea, stanno andando da tutt’altra parte.