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Opinioni / “La grande truffa della buona scuola”

Un’analisi da GlobalProject: “È necessario che si inverta la tendenza alla guerra tra poveri che il ministero è riuscito ad orchestrare”.

29 Agosto 2016 - 14:41

(di Andrea Salvo Rossi* da Globalproject)

Matteo Renzi @ZicAnche quest’anno, come ogni estate, il mondo della scuola è in subbuglio. Dopo tutto l’estate – quel periodo in cui “le scuole sono chiuse e i lavoratori della scuola sono al mare”, come vuole un adagio popolare – è il momento in cui ribollono le segreterie degli istituti e si decidono le sorti di decine di migliaia di precari sparpagliati per il paese che, terminata la loro corvée il 30 di giugno, aspettano di sapere quando e dove verranno spediti per il nuovo anno scolastico.  Quest’estate però, per non farsi mancare niente, si aggiungono altri due elementi:

– La spasmodica attesa di tantissimi neolaureati che non hanno la più pallida idea di come fare ad abilitarsi all’insegnamento (cosa che dovrebbe avvenire entro luglio 2017 per consentirgli l’iscrizione nelle graduatorie che si aggiornano su base triennale). Il famoso terzo ciclo di Tfa (l’ennesimo “ultimo” Tfa) si è inabissato dopo le promesse del Miur di un bando entro la fine di luglio. I famigerati percorsi di laurea abilitanti, nel frattempo, entrano ed escono dal cono dei riflettori a seconda dello slogan più funzionale alla Giannini (e a Renzi; e al Pd) in quel momento. Non si capisce come dovrebbero strutturarsi e come dovrebbero essere finanziati: l’università resta sempre quel cumulo di macerie post-Gelmini, in cui chiudono i corsi di laurea se un professore di troppo si prende la bronchite. Ad oggi è difficile immaginare l’istituzione di corsi finalizzati alla didattica che non passino per ulteriori soppressioni e accorpamenti, ormai talmente astratti e privi del benché minimo supporto epistemologico che potrebbe non essere lontano il giorno in cui tutti i curriculum umanistici saranno compressi nel mega-dipartimento delle “Materie a righe” e le scienze dure in quello delle “Materie a quadretti”. Questo a voler tacere – se anche ci fosse una forma di finanziamento sostenibile – dell’idea classista di spaccare l’università tra i pochi privilegiati (privilegi di classe e non di intelletto) che possono specializzarsi in percorsi di ricerca di base e la pletora di disperati che, nell’angosciosa ricerca del “posto”, saranno gettati nell’arena gladiatoria delle abilitazioni a numero chiuso. Abilitazioni che dovrebbero terminare con un anno di tirocinio (non pagato, va sans dire) al termine del quale il dirigente scolastico deciderà chi è promosso e chi torna alla casella iniziale senza passare dal via.

– Gli orali del concorsone. L’imbuto per i tantissimi abilitati del paese che, dopo aver già superato gli esami di abilitazione (e aver sborsato le migliaia di euro del caso), devono per l’ennesima volta essere sottoposti ad un telequiz mortificante, aleatorio nei programmi ed esoterico nei criteri di selezione (il Ministero non ha mai pubblicato le griglie di valutazione degli scritti, salvo poi – oltre il danno, la beffa – riservare una parte del test a domande volte all’accertamento delle competenze valutative dei docenti, cui era richiesto di elaborare su due piedi articolate griglie di valutazione che, invece, il Miur ha deciso di custodire gelosamente per sé). Il risultato? Che, complessivamente, saranno assunte meno persone dei posti messi al bando (in Campania erano già circa 200 i posti impossibili da coprire dopo gli scritti e la mannaia si sta abbattendo anche sugli orali). Purtroppo, in questo quadro assolutamente frammentario e caotico, il comparto dei lavoratori-scuola si mostra tutt’altro che unito. Ogni micro-categoria si accontenta stancamente di portare avanti la propria minuscola vertenza cercando di scippare qualcosa alle briciole che oggi sono destinate alla scuola pubblica. Gli abilitati Tfa chiedono (giustamente, beninteso) l’assunzione diretta senza concorso, in quanto già vincitori di concorso. Gli abilitati Pas premono sul valore dell’anzianità. I non abilitati chiedono di poter partecipare comunque al concorso (altrettanto giustamente) poiché il nostro sistema scolastico gli permette tranquillamente di lavorare come incaricati sottopagati in giro per il paese e, dunque, è difficile spiegargli perché sono abbastanza professori da andar bene come precari sfruttati, ma non abbastanza professori da aspirare alla stabilizzazione. I neoassunti denunciano l’oscenità dell’algoritmo ministeriale di mobilità – anch’esso non reso pubblico e, per la stessa ammissione del Miur, fonte di miriadi di “imprecisioni” (e sotto le imprecisioni di un software ci sono le vite delle persone che scoprono improvvisamente che, se volessero mantenere il proprio lavoro, dovrebbero trasferirsi a centinaia di chilometri dalla propria città e dalla propria famiglia). Questo piano micro-vertenziale diventa, occasionalmente, la vetrina del politico di turno: basti pensare alle roboanti interviste rilasciate dalla Gelmini che prometteva di battersi per i precari della scuola (come fosse una passante al Bar dello Sport e non una delle maggiori artefici del disastro in cui oggi siamo immersi) o le ultimissime pasquinate di Civati contro la buona scuola (deve essere un Civati diverso da quello che ha votato la fiducia alla 107: contro le prese in giro, tifiamo omonimia). Osceni intermezzi di questo disastro annunciato sono le notizie dei presidi che cominciano a familiarizzare con la “chiamata diretta”: da quelli che chiedono ai candidati un video a figura intera (come si trattasse di un concorso di bellezza o di un Reality) a quelli che scrivono a chiare lettere che il criterio di assunzione risponderà” all’ insindacabile giudizio del Ds”.

Buona scuola (foto Studaut - repertorio)

Da due anni le studentesse e gli studenti del paese si oppongono alla controriforma della legge 107 (la “buona scuola”). Lo fanno in piazza, nelle scuole occupate, lo fanno nonostante le denunce e le manganellate che arrivano puntualissime a ribadire la più totale cancellazione del diritto al dissenso nell’Italia renziana. Lo fanno – va detto senza mezzi termini – in totale solitudine. Con l’eccezione di qualche sparuto docente combattivo e di forme embrionali di sindacati conflittuali di categoria, le insegnanti e gli insegnanti di questo paese stentano a trovare forme di ricomposizione e di resistenza condivisa. Le responsabilità più grandi, ovviamente, si annidano nell’odioso ruolo pressoché poliziesco della Flc-Cgil che, negli ultimi due anni, ha scelto la strategia del “coma farmacologico” come strumento di dialettica con il governo. I sindacati confederali si accontentano ormai di fungere da ufficio informazioni per le tante figure dei lavoratori della conoscenza, quando non preferiscono allestire carrozzoni spilla-soldi senza tanti mezzi termini: basti pensare alle decine di corsi a pagamento istituiti in cambio di titoli, buoni per fare qualche punticino in graduatoria o, magari, prepararsi per l’ennesima selezione. Questo è un dato preliminare che va assunto come dato cronico: questo pezzo è semplicemente irriformabile e il punto dovrebbe essere l’innesco di un esodo organizzato dalla federazione e l’immaginazione di un percorso sindacale autonomo, di base, metropolitano e conflittuale, anche per i lavoratori della conoscenza. Nel frattempo c’è la possibilità che le 2 milioni di firme raccolte per abrogare i provvedimenti chiave della legge 107 (inserite all’interno dei Referendum Sociali) siano valide. Se il referendum sarà giudicato costituzionalmente accettabile, la primavera o l’estate prossima si potrebbe votare. Se questo scenario venisse confermato resterebbe, però, insufficiente. Ciò che si vuole abrogare è: l’obbligo di alternanza scuola lavoro, la discrezionalità dei presidi nelle assunzioni e negli aumenti di stipendio e i finanziamenti alle scuole private. Contro tutto questo non può bastare un’eventuale croce su una scheda. C’è bisogno che le categorie coinvolte si diano una svegliata definitiva e attraversino le strade e le piazze di questo paese, in modo forte e determinato. Solo a quel punto l’eventuale referendum ratificherebbe dal punto di vista giuridico ciò che il paese esprime dal punto di vista sociale. Se invece chi deve fare il concorso aspetta il concorso, chi deve fare il Tfa aspetta il Tfa, chi non ha vinto aspetta i ricorsi (andrebbe aperta una parentesi sui finti sindacati, in realtà studi legali privati, che si fanno pagare centinaia di euro per illudere i docenti precari che avranno il loro angolo di paradiso) allora niente: il referendum (se ci sarà) sarà l’ennesimo colpo di sole estivo.

È necessario che si inverta la tendenza generale alla guerra tra poveri che il Ministero è riuscito magnificamente ad orchestrare: dall’invidia orizzontale alla rabbia verticale. Il passaggio è questo e non esistono scorciatoie.

Ogni battaglia di fazione, per gruppetti, autistica è destinata a perdere. È destinata all’isolamento oppure – quando qualcuno proverà, sparutamente, ad alzare la testa – a prendere un sacco di botte per nulla metaforiche, come è accaduto ai docenti che a Napoli protestavano contro le deportazioni del piano mobilità. Agitazione generale del comparto scuola: insegnanti, personale ATA, studenti, famiglie. Rivendicazioni chiare e condivisibili, generalizzabili, non ombelicali. Cancellazione della buona scuola. Ridimensionamento del potere feudale dei dirigenti scolastici. Potenziamento delle strutture scolastiche che – a Sud – significa anche stop agli esodi dei docenti: sviluppare il tempo pieno, tenendo le scuole aperte al territorio e non solo alla platea, specie nei quartieri a rischio per lavoro nero, criminalità e dispersione scolastica, significa non dover mandare in Piemonte e in Lombardia le nostre intelligenze, perché è proprio sul territorio che servono (tra l’altro, qualcuno dica a quell’imbecille fascista di Rondolino che gli insegnanti meridionali chiedono questo, ma intanto – se vuole – siamo disponibili a segnalargli una breve bibliografia sulla Questione Meridionale, a partire da tal Antonio Gramsci, la cui memoria L’Unità non si stanca mai di insultare). Da lì, ripensare completamente la scuola a partire dalla sua funzione sociale e non dal mandato di sviluppo delle “competenze imprenditoriali” che le viene esplicitamente attribuito da dieci anni. Resistere per una scuola “libera, laica e solidale”, diceva una canzone di qualche anno fa.
Non ci meritiamo niente di meno.

* Precario-scuola di Napoli e attivista del Laboratorio Insurgencia