Opinioni

Opinioni / Il valore della vita, lotta allo sfruttamento delle lavoratrici e le luci della Riviera romagnola

La marcia contro lo sfruttamento che si è svolta il 6 agosto a Rimini “ha rappresentato a livello qualitativo e quantitativo una novità all’interno del contesto del distretto del turismo”.

13 Agosto 2019 - 13:22

di Marco Caligari

“Stavo stretto stretto, e allora gli ho chiesto se potessi cambiare posto. Mi ha mandato dietro negli ultimi posti. Mi sono messo le cuffie nelle orecchie e mi sono addormentato ascoltando musica. Ho aperto gli occhi e ho sentito che stavano contando i morti ed ho capito che erano morte sei persone”. L’ascolto di questa testimonianza di Alagie Saho ha rappresentato il momento più emozionante e umanamente forte della marcia contro lo sfruttamento del 06 agosto 2019 a Rimini. Sono le parole pronunciate dall’unico superstite all’incidente avvenuto un anno prima durante di trasporto dei braccianti nelle campagne di Foggia, dove hanno incontrato la morte sei lavoratori. Tre di loro, Bafodè, Ebere e Romanus, erano persone che vivevano nella città di Rimini e sono andati a lavorare come braccianti nella provincia di Foggia. Un territorio caratterizzato dai ghetti per i lavoratori migranti e da decine di morti violente, dove il contesto culturale rende complessa la costruzione di percorsi di solidarietà, come mostra Alessandro Dal Grande, quando scrive che “anche quando parlano la stessa lingua, costretti come sono da un lavoro estenuante, incapaci di stringere legami, di aprirsi a una minima forma di relazione umana. La difficoltà nel costruire le storie di vita dei lavoratori stagionali nasce anche da quest’assenza di legami”.

La marcia era chiamata a ricordare la morte di esseri umani, che per la loro condizione di migranti africani o di persone povere non trovano la dimensione di rispetto sia in vita sia dopo la morte. In ospedale dopo l’incidente, Saho fu ascoltato da diverse operatrici sociali, tra cui Nicoletta Russo. “Come operatrice dell’accoglienza mi sono chiesta tante volte quale potesse essere la nostra di resistenza, in un sistema che ci vorrebbe vedere gestire numeri e non persone; che ci vorrebbe carrarmati, in grado di passare sui corpi umani che incontriamo con indifferenza”, con queste parole Russo esprime chiaramente la difficoltà umana e professionale di essere quotidianamente mossa da due principi contrastanti. Da un lato, la propria umanità e professionalità, attraverso cui costruisce una relazione con i richiedenti asilo politico e favorisce un processo di soggettivazione degli sfruttati. Dall’altro, le indicazioni delle leggi in materia di migrazioni, che producono meccanismi di colpevolizzazione degli stranieri e delle Ong. Ad ascoltare le parole di Russo, tornano alla mente le teorie di Achille Mbembe, che analizza come la proiezione della razza sulla società ma finisca per separare l’umanità nella società, oltre che produrre semplicemente segmentazione. Lo studioso camerunense sviluppò le proprie teorie all’interno di contesti coloniali dell’Africa. Non è legittimo pensare che tali processi di “disumanizzazione” si stiano sviluppando oggi giorno in alcune zone dell’Europa, ad esempio nel Mar Mediterraneo o nei ghetti dei braccianti in Puglia? Il medesimo appello di lancio della Marcia contro lo Sfruttamento evoca tale connessione, quando afferma che “da Salvini a Bolsonaro passando per Trump, è in atto una sempre più forte legittimazione della morte di chi è considerato altro, estraneo, straniero, nemico”.

Certamente comparare i campi dei braccianti agricoli in Puglia con il lavoro negli alberghi sarebbe un’operazione molto criticabile. Al medesimo tempo, è legittimo ricordare come la morte violenta di una donna rumena trovata nell’estate. Eva Ana Bocean il 19 agosto fu trovata agonizzante, da un passante, distesa a terra e morì poco dopo all’ospedale. Le furono trovate diverse emorragie e ferite ai polsi e alle caviglie. L’albergatore, le sue colleghe, e Riccardo Muzzioli, titolare dell’agenzia rumena rilasciarono le loro testimonianze agli investigatori. Il datore di lavoro e le colleghe riportano la medesima versione, ovvero che la lavoratrice vedeva i fantasmi e parlava del diavolo, conseguentemente fu descritta come una persona psichicamente disturbata. Una donna morta in dinamiche misteriose, reclutata attraverso un’agenzia internazionale e presente presso tale albergo senza regolare contratto fu considerata come persone pericolosa e non destò nell’opinione pubblica e nelle istituzioni un momento di riflessione e di lutto.

Prospettiva femminista

In merito alla condizione di colpevolizzazione della medesima vittima di incidente o violenza eterodiretta ci conduce la comunicazione di un’attivista di Non Una di Meno, attraverso le seguenti parole: “Viviamo in un’epoca in cui la vittima, sia essa un lavoratore pesantemente sfruttato, una donna stuprata, viene sistematicamente criminalizzata e colpevolizzata”, solitamente ci si chiede “se si fosse comportata in una maniera corretta, se avesse studiato per avere un lavoro migliore, se non avesse provocato con abiti succinti e atteggiamenti ammiccanti”. La dimensione di genere riveste una notevole importanza, visto che le lavoratrici che nel 2014 contano per il 59,4% degli avviamenti al lavoro sono prevalentemente assunte per mansioni di media o bassa qualifica quali cameriere, segretarie e addette al ricevimento; laddove gli uomini sono un’ampia maggioranza tra i portieri di notte, i cuochi e i maître d’hotel (Cpi Rimini, 2015, 35-36). All’interno della forza lavoro migrante, le donne sono il 77% degli assunti romeni, il 71,8% dei moldavi, l’80% dei polacchi mentre rappresentano una minoranza tra i senegalesi (11,9%) e tra i marocchini (36,1%) (Cpi Rimini, 2015, 53). In tale contesto, si inserisce l’ultimo caso di donna migrante che ha subito violenza da parte del titolare dell’azienda dove era impiegata. La lavoratrice racconta al segretario della Cgil: “Mi ha colpito sulla testa con una zuppiera di plastica mezza piena di besciamella. Poi mi ha strattonato tenendomi per il collo. È la storia di Boguslawa, percossa dal padrone dell’albergo perché riteneva il suo lavoro imperfetto”. In questo caso, la violenza di genere è evidente e la donna espone chiaramente i postumi, diversi giorni dopo aver subito l’attacco dell’uomo.

La marcia contro lo sfruttamento del 6 agosto 2019 ha rappresentato a livello qualitativo e quantitativo una novità all’interno del contesto del distretto del turismo, con diversi limiti, tra cui sicuramente la mancanza delle lavoratrici giunte a Rimini dalle nazioni dell’Est Europa. Un dato fattuale, a cui è difficile ora fornire interpretazioni. Una donna proveniente dalla Romania, in particolare da Cruj, mi ha narrato le sue condizioni di lavoro con le seguenti parole:  “Io lavoro dalle 7 e mezzo del mattino fino alle 10 di sera e faccio due ore di pausa nel pomeriggio, poi dipende sempre da come siamo messi. Ho diciotto camere da fare dalle 8,30 alle 13,30 e non riesco a fumare nemmeno una sigaretta… Dopo scendo giù in cucina e do una mano alla cuoca e lavo i tegami mentre l’altra lava i piatti, fino alle 3-3 e mezza; vado via e poi torno alle 6 e lavoro in cucina, aiuto cuoco o lavapiatti, fino alle 10 o 10 e mezza”. Un altro incontro dopo l’intervista mi ha dato l’occasione di apprendere che all’Ispettore del Lavoro aveva raccontato condizioni di lavoro legali e rispettose del Contratto di Lavoro del Turismo.

Le vertenze

Un secondo dato da raccogliere è relativo al fatto che i diversi interventi all’interno della marcia contro lo sfruttamento sono stati in prevalenza da attivisti di decine di associazioni, singoli antirazzisti e sindacati (Adl Cobas e Cgil). Oltre alla testimonianza del bracciante agricolo Saho, si segnala la mancanza della presa di parola di lavoratori per narrare la propria condizione di lavoro o vertenza lavorativa. In questa dimensione del corteo, rappresenta un’anomalia la comunicazione di un educatore sociale. Il lavoratore ha raccontato la mobilitazione dei propri colleghi contro il contratto di lavoro recentemente firmato dai sindacati confederali, ma aspramente criticato dai medesimi educatori sociali per diversi aspetti, tra cui il basso salario, che non li mette in condizioni di vivere una vita dignitosa e potersi percepire come soggetti qualificati e valorizzati dalle istituzioni locali. Al medesimo tempo, durante il corteo Stella Mecozzi (Mani Tese) ha comunicato come “non sia sufficiente una manifestazione”, ma “è necessario un intervento culturale quotidiano per far rispettare i diritti umani”. Tale considerazione di realismo, alla fine della manifestazione si intrecciata alla consapevolezza che le strade principali del distretto del turismo riminese, tra “gli aquiloni ed i gelati” non erano attraversate da un corteo contro lo sfruttamento con tale partecipazione da diversi decenni, raccogliendo la curiosità di alcune lavoratrici e tantissimi turisti. Nella parte conclusiva del suo intervento, il signor Saho ci conduce alla volontà di costruire la memoria collettiva: “Erano miei fratelli. Mangiavamo insieme e dormivamo insieme. Non posso dimenticare. Non voglio”.

Condividi