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Opinioni / Il dibattito sul burkini è anche una questione di razzismo

“Le donne musulmane sono davvero libere di scegliere? Probabilmente no, ma vietar loro di andare a scuola velate o impedire il burkini ha l’obiettivo di togliere la parola, di rimuoverle dal dibattito tacciandole di inadeguatezza”.

27 Agosto 2016 - 18:48

(da Incroci de-generi)

Burkini @ZicIn Francia vietare alcuni tipi di abbigliamento, interdire precisi comportamenti nei luoghi pubblici, sanzionare usi e costumi di una parte della popolazione è prassi politica consolidata e radicata storicamente tra il XVIII e il XIX sec. Michel Foucault, in particolare ne “La società punitiva” ed in “Bisogna difendere la società” ci fornisce delle coordinate ancora valide per leggere il presente. Sono i seminari al College de France in cui Foucault traccia la genealogia del biopotere, in cui ci parla dell’articolazione del potere disciplinare in Francia e in Inghilterra. Anche gli apparati di potere del XX secolo, ci spiega, quando devono dominare le irregolarità, scelgono la strada della “moralizzazione della penalità”, che si traduce nella “penalizzazione dell’esistenza” dei gruppi irregolari, dal momento che la loro vita viene inquadrata “in una specie di penalità diffusa, quotidiana” (p. 210).

Il divieto di burkini (provvedimento recentemente introdotto da diversi Comuni francesi e sospeso ieri dal Consiglio di Stato, ndr) è uno strumento, una tecnologia di potere che mira a “introdurre nel corpo sociale dei prolungamenti para-penali, al di qua dello stesso apparato giudiziario” (Ibidem). Quando non c’è pena, però, c’è correzione, integrazione forzata, separazione netta tra normale e anormale, c’è imposizione di comportamenti e abitudini, una pressione strisciante, ma onnipresente, che può tramutarsi in violenza di stato quando a rendere operative le norme è la polizia. Questo tipo di norme presentano un doppio vantaggio per gli apparati di stato: si applicano sull’individuo, ma hanno un effetto deterrente più generale, così come un effetto persuasivo, che regola le abitudini della popolazione. Nel caso del burkini è chiaro, poiché al suo uso è interdetta la singola donna, ma la sua funzione manifesta è di orientare i comportamenti di molte, rendendoli ostili a culture differenti dalla propria.

Citare Foucault non è un vezzo, serve ad ampliare lo sguardo oltre l’armamentario teorico-pratico dell’emancipazionismo. Perché del resto il prodotto dei discorsi delle donne che sostengono il divieto di burkini (Ebbene sì,  il giro di parole è voluto perché fatichiamo a chiamarle femministe) lo abbiamo sotto gli occhi: la foto della donna obbligata a svestirsi dalla polizia francese sulla spiaggia di Nizza. È possibile leggere quanto accaduto solo nei termini di una violenza, pornografia di stato che i social amplificano con effetti devastanti sul piano del discorso diffuso nel corpo sociale. Si tratta sempre di un gruppo di uomini, e per di più armati, che ordina a una donna, che sta riposando da sola su una spiaggia, di togliersi gli indumenti ed eseguire forzatamente la loro volontà, mentre, poco distante, la figlia scoppia a piangere e le/i presenti applaudono alle forze dell’ordine e urlano a lei “tornatene a casa”.

Davvero si ritiene che sia questa la via per allargare i diritti? Davvero non ci si rende conto che così siamo tutte meno libere? Non sarà, invece, che gli apparati di potere funzionano solo grazie a una continuazione mistificata della guerra civile, mentre il razzismo continua a fungere da discorso giustificante l’esercizio del potere di interdizione-esclusione-assimilazione attraverso una gestione necropolitica delle popolazioni, perché non c’è in ballo solo il divieto di burkini, ma anche il Mediterraneo come mare di vita e non di morte.

Non è che l’occidente sia poi questo campione in libertà delle donne che ci raccontiamo, visto che molte hanno lottato tanto, ma molto è stato travisato, assimilato, molto è ancora da conquistare. Appoggiare uno “Stato” europeo che si spinge a legiferare su come debba vestirsi una donna ergendosi a paladino di libertà che non ha mai davvero garantito, sembra non solo eccessivo, ma anche fuorviante.

I toni del dibattito rimandano piuttosto al razzismo e non al femminismo, posto che abbia ancora senso usare un vocabolo così monolitico per indicare un panorama tanto vasto e frammentato, spesso in totale disaccordo ed in contrapposizione da quando, in troppe, hanno smesso di lottare per un mondo più accogliente per tutte e hanno abbracciato le logiche disciplinari di Stato, trasformando il femminismo in un’ancella del capitalismo e del biopotere. Ad essere oneste, non è facile spogliarsi neppure da noi, in Italia è un azzardo anche il topless ed il postporno, quand’anche sia conosciuto, non manca di destare scandalo e di suscitare reazioni di ostruzionismo, se non di vera e propria censura .

Tuttavia il punto non è solo quanto e quando siamo libere di spogliarci. In “Bisogna difendere la società” Foucault afferma che ai tempi della biopolitica il potere di morte si esercita tramite il discorso sulle razze. Lo strumento attraverso cui si veicolano pericolose politiche neocolonialiste è oggi il nostro corpo, e non è la prima volta, il nostrano pacchetto sicurezza, o il finto decreto sul femminicidio, valga da esempio.

Tutto un altro discorso quello sulla costrizione delle donne musulmane: sono tutte davvero libere di scegliere? Probabilmente no, ma, come scrive Delphy, vietar loro di andare a scuola velate o impedire il burkini non solo sono misure con più effetti collaterali che vantaggi, ma soprattutto hanno l’obiettivo di togliere la parola alle donne e alle femministe islamiche, di rimuoverle dal dibattito pubblico, tacciandole di inadeguatezza per via del velo che indossano. Ma alla delegittimazione per via razziale se ne aggiunge un’altra, costruita attraverso i rapporti di potere che separano le donne che occupano posizioni apicali nella gerarchia sociale da quelle che invece vengono continuamente risospinte ai margini. Non sarà allora un caso che Wassyla Tamzali, avvocata ad Algeri ed ex-direttora del centro per i diritti delle donne all’Unesco, non solo si posizioni nettamente contro le femministe islamiche, colpevoli, a suo avviso, di voler islamizzare la società, ma accusi anche di connivenza le istituzioni pubbliche che finanziano le loro ricerche, biasimandole per questo. Insomma, alcune sono legittimate a parlare, a prendere posizione, a studiare, ad avere visibilità, a dettare le regole, ad andare al mare, altre no, devono eseguire gli ordini e tacere.

In ogni caso, noi non vorremmo parlare per nessuna. Vorremmo piuttosto ascoltare, immaginare un altro genere di incontri con le altre. Prima ancora di spiegare loro diritti che spesso non hanno una reale concretezza, preferiremmo chiedere da quanto tempo sono partite, come si trovano, che desideri o problemi hanno. Confrontarci, raccontare perché ci piacciano gli short di jeans e i tatuaggi sulle gambe, perché vogliamo vivere sole e non aver figli, perché l’autonomia economica e le pari opportunità sul lavoro ci stanno tanto a cuore, con l’onestà di non inventare, né promettere, paradisi di cui non abbiamo fatto alcuna esperienza. Piuttosto, vorremmo sottolineare come alcuni diritti presunti acquisiti stiano venendo meno, smantellati dalle politiche neoliberiste e neofondamentaliste cristiane: obiezione di coscienza all’aborto e alla contraccezione, contrasto all’educazione in materia di sessualità, arretramento nonostante gli sviluppi scientifici sul piano delle libertà riproduttive. Anche sul piano della violenza maschile contro le donne le cose non vanno poi tanto meglio. In Italia, una donna su tre subisce abusi in famiglia, quella stessa famiglia tanto propagandata come isola felice, luogo imprescindibile di realizzazione, che però è il luogo per eccellenza dove si registrano violenze e femminicidi, mentre il governo italiano continua a ignorare le raccomandazioni della Cedaw, cioè la convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne che pure ha sottoscritto. Insomma, l’elenco è lungo, ci sarebbero il gender backlash, il triste primato dell’Italia in omo-transfobia, gli effetti della crisi in termini di precarietà e isolamento delle giovani, la mancanza di un welfare basato sulla singola persona….quindi, è ancora tutta una rivoluzione da portare avanti, la nostra. Liberandoci dal ruolo di ancelle del biopotere, vogliamo farla insieme a e non contro le donne e femministe islamiche.

Lole Montale e Panta Rediviva