Culture

Nazzareno Pisauri, un intellettuale non da salotto

Riceviamo e pubblichiamo il ricordo di “un compagno e bibliotecario che ha attraversato in modo appassionato e intelligente tutte le stagioni dei movimenti politici che si sono susseguiti negli ultimi cinquanta anni in Italia”.

28 Marzo 2016 - 12:58

di Vincenzo Bazzocchi

Nazzareno2-1_316x_1b8d20c8a405475cc49332ff3a47cccdMercoledì 23 marzo è scomparso Nazzareno Pisauri, figura emblematica di compagno e di bibliotecario, forse espressione la più concreta dell’esigenza inattuale di pensare questa endiadi.

Credo non gli sarebbe dispiaciuto questo duplice carattere, se uno degli ultimi articoli di politica culturale ospitato nelle pagine de La Repubblica è firmato con la esemplare qualifica di “bibliotecario”, lui che a metà degli anni ottanta era diventato Soprintendente per i beni librari e documentari e direttore dell’IBC della Regione Emilia-Romagna il decennio successivo. E ancor prima se nel novembre del 1966, giovane funzionario statale, accorse a detergere dal fango e dall’ acqua e approntare, anche come esperto, i primi restauri delle migliaia di volumi della Biblioteca Nazionale, danneggiati da una delle più gravi alluvioni dell’Arno. Con la sua formidabile capacità di mettere in racconto qualsiasi episodio di vita o di microstoria, amava raccontare che nelle strade di Firenze era stata l’autorganizzazione partigiana a prendere in mano la situazione caotica e disperata di quella tragedia. Qui giocava in lui la grande ammirazione per una consolidata tradizione resistenziale di ex partigiani approdati nell’Italia repubblicana al mestiere di archivisti o bibliotecari.

Non ricordo più dove ho incontrato per la prima volta Nazzareno, se nel bel mezzo di una di quelle feste notturne verso cui nel Settantasette bolognese slittavano progressivamente quelle ‘situazioni’ da appartamento, in cui passavano indifferentemente da Bifo a Umberto Eco, o l’anno dopo in occasione di un intervento conservativo rivolto ai documenti della biblioteca musicale di piazza Rossini, dove io facevo il mio apprendistato. Certamente l’ho conosciuto prima che mi proponesse di partecipare a un innovativo censimento analitico dei codici malatestiani della biblioteca di Cesena, da lui progettato e curato. Certo è che negli incontri dava sempre la sensazione che ci si fosse sempre conosciuti, in una sorta di tempo indeterminato, come se qualcosa di comune fosse già lì presente o comunque già intervenuto a prescindere dalla contingenza del momento.

Era stato tante altre cose ovviamente e una delle sue qualità principali forse era quella di congiungere cose apparentemente distanti e incompatibili, anche a costo di partire, si potrebbe dire parafrasando in qualche modo l’amato Gadda, da una “disarmonia prestabilita”, ovviamente introdotta da una battuta pungente o da un avvolgente tentativo di convincerti di qualcosa che si aspettava non ti fosse affine. Da dilettante sapeva suonare l’organetto, tra l’altro, mi deve aver detto, ma qui il ricordo è più incerto, di aver fatto parte da giovane di una band romana di rock&roll, conosceva bene Orazio e la storia medievale e ovviamente menzionava spesso Rousseau e Marx o leggeva non tanto di nascosto Machiavelli e Leopardi – giusto per fare alcuni nomi, i più vistosi e non essere costretto a dire che praticava il basso e l’alto con uguale competenza e inclinazione. Ma soprattutto l’impegno politico lo aveva visto a Bologna esponente di primo piano di Avanguardia Operaia e Democrazia Proletaria poi. Negli anni ’90 aveva aderito convintamente a Rifondazione Comunista, ma ho sempre pensato che la cosa cui tenesse di più, soprattutto negli ultimi tempi, fosse l’attività di redattore di Radio Citta 103 e poi Radio Città Fujiko, delle quali era stato fondatore e curatore settimanale delle rassegne stampa. Curava e presentava le trasmissioni culturali “La domenica del villaggio” e poi “Sempre libera”, in cui mixava in modo impeccabile e intelligente le parole degli approfondimenti politici, scientifici o letterari con brani musicali di ogni genere, dalla classica al pop. Insomma aveva attraversato in modo appassionato e intelligente tutte le stagioni dei movimenti politici che si sono susseguiti negli ultimi cinquanta anni in Italia: negli ultimi periodi girava la città accompagnato da un inseparabile registratore che ti metteva inopinatamente davanti per un commento o una impressione nelle più varie sedi del dibattito politico o nei più inaspettati frangenti delle manifestazioni di piazza, certo per cogliere l’immediatezza della parole da inscrivere nella langue del servizio che invariabilmente preparava per la trasmissione.

Vale la pena però ricordare più in dettaglio l’esperienza più strettamente intellettuale alla direzione dell’IBC, dove è stato amico e primo interlocutore professionale dell’ italianista Ezio Raimondi, a lungo presidente dello stesso istituto, sia del poeta Giuseppe Guglielmi, traduttore tra gli altri di Celine, Queneau e Deleuze. Pisauri ha sempre interpretato la politica dei beni culturali regionali guidato da una forte consapevolezza, quella di uno stretto rapporto delle istituzioni bibliotecarie, archivistiche, museali in dialogo tra loro e con il contesto da cui il loro patrimonio proveniva, inteso già questo non solo come territorio ma come bene collettivo.

Un tratto teorico della migliore tradizione archivistica veniva esteso da Pisauri, quasi in maniera programmatica, all’intero impianto della concezione del patrimonio culturale: ogni documento è il risultato di una fitta rete di relazioni che lo legano storicamente (e antropologicamente) alle ragioni e ai modi con cui il loro insieme si è costituito nel tempo. Questo per effetto di poteri politici, rapporti di forza sociali e modelli culturali che hanno determinato quella specifica forma materiale e linguistica e quella deliberata frammentarietà istituzionale.

Il progetto di un Servizio Bibliotecario nazionale, emerso in Italia a cavallo tra ’70 e ’80, prevedeva la costituzione di un catalogo condiviso unitario e utilizzava le tecnologie informatiche per innovare il sistema dei servizi delle reti bibliotecarie. Fu tra i primi in regione a capirne l’importanza, lui precoce nemico della pretesa neutralità dell’ informatica, soprattutto per estendere a tutte le istituzioni la cooperazione tra organizzazioni culturali diverse, l’integrazione delle risorse e dei servizi ma anche la possibilità di ricomposizione delle raccolte documentarie, che rischiavano, anche con l’automazione, di restare disperse in sistemi informativi e informatici non interoperabili. Fu così che coi finanziamenti regionali prese avvio oltre all’evoluzione cooperativa di tutta l’organizzazione bibliotecaria in rete, anche una serie di progetti conservativi e di catalogazione condivisa e secondo metodi scientifici di inediti complessi documentari:. archivi letterari (non solo di singole personalità artistiche e intellettuali ma anche prodotti collettivi di organizzazioni culturali), archivi di editori, importanti fondi storici iconografici e fotografie (per le quali promosse e sostenne la definizione del primo manuale di catalogazione italiano); l’acquisizione pubblica o il riordino di archivi compositi: come quelli dell’archivio europeo del Living Theater, di Santarcangelo dei Teatri (cioè l’intera documentazione del festival internazionale del teatro di piazza di Santarcangelo dei teatri) o la raccolta del premio “Riccione teatro”. L’urgenza di coniugare strettamente tutela attiva e contemporanea valorizzazione lo spinse a promuovere cataloghi e mostre significative come “Verba volant” sui manoscritti, “Disegnare il libro” sulla grafica editoriale del secondo dopoguerra, o addirittura esposizioni e cataloghi memorabili come quella dedicata nel 1993 a Majakowskij “Cari compagni posteri” o come “La menzogna della razza”, che con inediti documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista, ha costituito un vero e proprio strumento di ricerca storiografica.

L’ho incontrato ancora qualche volta, Nazzareno, dopo la pensione, una volta al Vag61, in qualche manifestazione pubblica, in occasione del mio pensionamento; sapevo che non stava più bene… ma è sempre troppo presto o troppo tardi, per aspettarselo.

Per i compagni, tutti quelli che l’hanno conosciuto in una delle innumerevoli versioni della sua esistenza o sono stati complici di alternative di vita non realizzate credo che Il marxiano “Nulla di umano mi è estraneo”, e forse nella sua variante più arcaica “Humani nil a me alienum (puto)”, dell’originale di Terenzio, che sicuramente gli devo aver sentito pronunciare, sarebbe il motto più adeguato per restituire in sintesi l’esperienza della sua vita activa.

Lui ha scelto “La libertà è la liberta di coloro che pensano diversamente” di Rosa Luxemburg.
Ma è lo stesso.