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L’epidemia nelle piccole fabbriche non è da zona gialla

L’inchiesta di Zic.it sulla sanità durante la pandemia prosegue con un’intervista a un medico del lavoro: ci parla del telefono che squilla ogni giorno, di alcuni focolai particolarmente gravi, del tracciamento che salta e dei protocolli di sicurezza che restano “un sogno”. Ed emerge il caso “allarmante” di una casa di riposo. Partecipa all’inchiesta: redazione@zic.it

18 Dicembre 2020 - 11:04

Continua la nostra inchiesta autogestita sulla salute pubblica con un’intervista a un medico del lavoro: i casi di lavoratori positivi al Covid-19 sono tanti, ma nessuno sembra preoccuparsene. Per partecipare all’inchiesta: inviare testimonianze e contributi all’indirizzo redazione@zic.it

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L’epidemia nelle piccole fabbriche non è da zona gialla

Tra le categorie di cittadini che attualmente procurano inconsistenti se non nulli interessi dal punto di vista mediatico e politico ci sono al primo posto i detenuti e, subito dopo, gli operai e, in generale, la grande massa degli addetti al lavoro dipendente.

Nella fase primaverile della pandemia da Coronavirus intere zone del paese, soprattutto al Nord, sono state asservite alle committenze delle aziende industriali, subendo i ricatti di Confindustria. Teoricamente dalla chiusura delle attività produttive erano state escluse le aziende di alcuni settori primari come il sanitario, l’alimentare e il comparto dell’energia, ma in realtà molte fabbriche si sono dichiarate “essenziali” e sono restate aperte. Molti operai sono stati costretti a entrare in officina con la paura costante di prendere il virus, hanno lavorato rischiando il contagio e in molti si sono pure ammalati.

Ma di reportage sulle tante situazioni di lavoratori “esposti”, di operai ammalati e, in alcuni casi, morti non se ne sono visti. A settembre un po’ di attenzione sui focolai di Covid-19 negli stabilimenti della logistica, poi più niente. Oggi, stando alla assoluta mancanza di notizie, sembrerebbe che lavorare in fabbrica sia una delle condizioni più sicure e tutelate (è un po’ come quando Marco Travaglio sostiene che in carcere per il Coronavirus si è molto più controllati e sicuri che fuori), ma che non sia così è abbastanza evidente.

E’ per queste ragione che, nell’ambito dell’inchiesta sulla sanità bolognese nella seconda fase pandemica, abbiamo deciso di intervistare un medico del lavoro che svolge la sua attività in una zona di territorio dove operano tante piccole aziende, molte di natura artigiana.

La prima domanda che rivolgiamo al nostro “medico competente” (questa è la definizione che si dà di questa mansione in medicina del lavoro) è abbastanza convenzionale: come stanno andando le cose?

«Male… Noi siamo in fascia gialla, ma non c’è un giorno che non ci sia un’azienda che mi chiami. Sono tanti i sono casi di positivi… e ce ne sono dappertutto».

E dire che le grandi aziende organizzano servizi di tamponi per i loro dipendenti e promuovono mediaticamente queste azioni.

«Certo, c’è la Confindustria che promuove il suo kit anti-Covid fai da te sulla cui affidabilità avrei parecchie cose da dire. E’ normale che le grandi aziende alla loro immagine ci tengono ma, nel nostro territorio, ci sono tante piccole fabbrichette satelliti che lavorano per le aziende dei marchi famosi. Si tratta di lavorazioni meccaniche e di montaggi fatti in condizioni di cui certo non ci si può vantare».

Ci sono casi più gravi?

«Sì, c’è un’azienda di Zola Predosa in cui sono positivi 12 dipendenti su 20. C’è un’altra piccola fabbrica metalmeccanica di Castel Maggiore in cui ci sono 15 operai positivi su 25. Oggi tutti i lavoratori sono in auto-isolamento. L’Asl li ha chiamati solo dopo 10 giorni che erano a casa. Questo isolamento fiduciario non lo ha pagato nessuno e i 10 dipendenti hanno dovuto prendersi le ferie».

Capitano di frequente situazioni del genere?

«Molto spesso ci sono dei disservizi per quanto riguarda il rientro al lavoro. Le notifiche per il nullaosta che “libera” il lavoratore e gli permette di uscire dalla quarantena non arrivano».

Se non sbagliamo, i criteri per il rientro al lavoro previsti dalle direttive del ministero della Salute richiedono la certificazione di avvenuta negativizzazione da parte del Dipartimento di prevenzione della Asl, a seguito di due tamponi negativi effettuati a distanza di almeno 24 ore.

«Il secondo tampone, quello di conferma, ormai non esiste più. O sono i lavoratori che se lo fanno per conto proprio o sono le aziende che glielo pagano, ma il prezzo dei tamponi (i molecolari da 80 a 120 euro, gli antigienici 55 euro) disincentiva spesso i padroncini a prenotarli per i propri dipendenti. Così, sempre più spesso, succede che, dopo 21 giorni di isolamento, con la carica virale che si abbassa, viene concessa l’autorizzazione a rientrare al lavoro, anche se poi, a un controllo successivo, possono risultare positivi. Ci sono poi i casi dei “positivi cronici” che rientrano al lavoro e vengono collocati “in solitaria”, ma quando l’azienda è piccola e non ci sono gli spazi adeguati al distanziamento, le postazioni “in solitaria” sanno di allucinazione.

Il rispetto dei protocolli a volte è un sogno, le mascherine vengono usate nei momenti comuni, come in mensa o alla macchinetta del caffé, ma in quei casi vengono per forza di cose abbassate e le distanze tra persona e persona non ci sono mai.

Poi c’è gente che stava male ed è andata a lavorare lo stesso perché c’era un lavoro urgente da consegnare assolutamente».

A questo elenco di situazioni incredibili ci sono altri episodi significativi?

«Ci sono casi di lavoratori risultati positivi che, quando vengono chiamati dalla vigilanza dell’Asl per sapere con chi sono stati in contatto, non fanno il nome dei loro colleghi di lavoro perché il padrone gli ha detto che l’azienda sarebbe costretta a chiudere per mancanza di dipendenti e, di conseguenza, dopo la guarigione si troverebbero senza lavoro».

Anche i servizi di vigilanza dell’Asl però… non si fanno delle domande? E’ difficile che in una fabbrica lavori solo una persona.

«I servizi di vigilanza dell’Asl ormai non ce la fanno più e, da un po’ di tempo, alcune loro funzioni sui luoghi di lavoro sono state delegate alla Medicina del lavoro».

Sono in previsione altri avvenimenti che potranno aggravare la situazione?

«Fra un po’ ci sarà la chiusura di molte aziende per le festività natalizie e di fine anno, è da presumere che molti lavoratori immigrati dal Sud Italia o da altri paesi vadano a trovare le loro famiglie d’origine. Sarebbe necessario che il 7 o l’8 gennaio venissero fatti i tamponi di rientro. In diverse aziende li hanno già prenotati, ma molte di quelle più piccole sostengono “che non se lo possono permettere”… Sarà un bel casino».

Siamo alla conclusione di questa sconsolante chiacchierata, il nostro interlocutore ci chiede di parlare di un’altra vicenda.

«C’è un ultimo caso ed è quello che mi allarma di più, è quello di una piccola casa di riposo per anziani, dove metà degli ospiti sono risultati positivi e sono stati suddivisi sui due piani della struttura: in uno ci sono gli anziani non contagiati, nell’altro quelli positivi. La cosa drammatica è che su 18 tra operatrici e operatori, 14 sono in quarantena. La proprietaria ha chiesto di poter trasferire in ospedale gli anziani positivi più problematici, ma gli hanno risposto di tenerli per forza perché non c’è disponibilità nei reparti ospedalieri. E adesso nella casa di riposo non c’è nemmeno più il personale per distribuire i pasti agli ospiti e non si trova nessuno che se la senta ad andare a lavorare in quella situazione».

Insomma, come abbiamo già detto in altre occasioni, si fa proprio fatica ad affermare che tutto vada bene.