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Lavorare nei centri per senza dimora ai tempi del Coronavirus

Le testimonianze raccolte da Zeroincondotta: “La situazione è pesantissima, difficile far mantenere le distanze” e tra gli utenti costretti a restare sempre all’interno “c’è più aggressività”. Ma “la retorica degli eroi della prima linea non ci appartiene”.

03 Aprile 2020 - 13:03

«Gli operatori di un dormitorio pubblico sono un po’ come gli infermieri di un reparto di rianimazione, dopo sei o sette anni ti conviene cambiare aria, vedi attorno a te troppi fallimenti, così come quei sanitari in prima linea vedono troppi morti… Hai bisogno di respirare… diventa necessario cambiare luogo».

Inizia in questo modo il racconto di un operatore che lavora a Bologna in una delle strutture di accoglienza per persone in grave disagio sociale. La situazione pesantissima, legata alla pandemia da Coronavirus, va ad assommarsi a una “normalità” già di per sé molto gravosa e problematica.

«Noi operatori siamo obbligati a confrontarci quotidianamente con persone che hanno uno stato di salute multi-problematico, conseguente alla vita che hanno fatto: si tratta di problemi fisici, di disturbi correlati all’abuso di alcool e sostanze, di disturbi psichici. Poi ci sono anche utenti operati o traumatizzati, o con patologie croniche (come il diabete) bisognosi di supporto farmaceutico e specialistico. I disturbi di natura mentale sono sicuramente i più numerosi, anche se non è facile stabilire se il disturbo psichiatrico sia la causa o l’effetto di una condizione di vita altamente stressante. Quindi, ci capita spesso di attivare azioni di prevenzione nei confronti di patologie che causano sofferenze e debilitazione della persona e di riduzioni del danno rispetto a comportamenti nocivi per la salute (alcool, fumo e droghe). A volte, ci tocca anche l’incombenza di distribuire agli utenti consigli legali urgenti. Poi c’è la deprivazione materiale che gli ospiti del dormitorio vivono da anni che si somma alla scarsità della rete relazionale. A noi spetta il compito di alleviare la mancanza del supporto dei rapporti familiari e sociali. Con gli scarsi mezzi a disposizione dobbiamo inventarci attività di inclusione e di riabilitazione psico-sociale. Sulle opportunità di lavoro per gli ospiti, che sono scarsissime, spesso ci tocca escogitare delle collaborazioni con realtà del territorio per realizzare piccole forme di reddito. Inoltre, dobbiamo stare sempre con le antenne ritte, per cogliere tutte le occasioni di borse lavoro».

Se questa è la consuetudine, è evidente che, in questa fase di emergenza Coronavirus, i provvedimenti presi per tutelare gli ospiti dei centri di accoglienza che fanno capo al settore del “disagio adulti” hanno dilatato l’impegno lavorativo e psicofisico di tanti operatori. Infatti, il piano freddo del Comune di Bologna è stato prorogato al 30 aprile, un mese in più rispetto alla scadenza solita del 31 marzo. Per via di questo provvedimento le strutture rimarranno aperte per ventiquattro ore al giorno.

«Sì, le strutture dell’emarginazione adulta saranno aperte anche durante le ore diurne per garantire la massima protezione dalla strada alle persone senza dimora che sono ospitate. Per esempio, il dormitorio “Beltrame-Sabatucci” questo tipo di accoglienza H24 ha cominciato a garantirlo per tutti gli ospiti già dall’inizio dell’emergenza. Dall’ultima settimana di marzo anche il Rifugio Notturno assicura la stessa apertura per tutte le persone accolte, fino al termine delle disposizioni straordinarie che sono state emanate. Prima, quasi tutte le strutture avevano entrate alle 19 di sera e uscite alle 9 del mattino. Solo alcuni servizi avevano già apertura a tempo pieno di 24 ore. Nei giorni festivi e prefestivi in qualche struttura gli orari di permanenza erano allargati di un paio d’ore. Sicuramente il Beltrame-Sabatucci è stato il centro di accoglienza che più ha sentito l’impatto delle disposizioni per il Coronavirus. Prima di queste settimane la sua reticolare struttura di sevizi prevedeva, oltre ai posti letto dedicati a uomini e donne dai 18 ai 65 anni che vivono una condizione di disagio sociale, un numero di posti dedicati a persone con maggiore fragilità anche sanitaria, a dimissioni protette su segnalazione dei servizi ospedalieri e a emergenze di Pronto Intervento Sociale (PRIS). Poi c’erano i posti della struttura aperta nel periodo del Piano Freddo, il servizio docce per esterni (aperto alcuni pomeriggi alla settimana) e il “Diurno Multifinzionale” con attività ricreative per frequentatori con accesso libero e ripetibile. Adesso tutto questo insieme di servizi e attività viene un po’ scombussolato da queste nuove disposizioni che prevedono la presenza continuativa di tutti gli ospiti e non è una cosa da poco».

Questo per gli utenti del centro di accoglienza significa un bel cambio di orizzonte nella loro giornata quotidiana.

«Normalmente, gli ospiti del dormitorio si alzano ogni mattina alla stessa ora. Solo chi svolge un’attività lavorativa ha solitamente la necessità di svegliarsi prima. Gli ospiti escono dal dormitorio e iniziano il pellegrinaggio che li porterà a toccare una serie di punti della città, anche questi quasi sempre prestabiliti, tra cui la fila alla mensa della Caritas a mezzogiorno o una serie di posti conosciuti dove si possono raccogliere aiuti di diversa natura. Per chi è alcolista c’è il recupero dei cartoni di Tavernello o delle lattine di birra e ci sono i luoghi e le panchine dove ingurgitare questi liquidi. Per chi è tossicodipendente e ha un rapporto coi servizi, c’è l’unità di strada e la relazione con gli operatori del SERT. Alla sera, al rientro in dormitorio, molti degli utenti arrivano sfiniti (alcuni anche alterati, altri alticci) dopo un’ordinaria giornata di inattività. La povertà, sia economica che relazionale, che è la caratteristica che accomuna quasi tutti i nostri utenti, allontana e, di certo, non avvicina alla comunità. Solitamente tutti vivono in solitudine o al massimo in piccoli gruppi di poche persone Il fatto di dover stare tutto il giorno dentro ha sconvolto un po’ questa routine. Nelle prime due settimane i problemi non sono stati pochi. Abbiamo dovuto fare i conti con un prevedibile aumento del tasso di aggressività degli utenti, come operatori ci siamo trovati a dover gestire diversi diverbi e alcuni episodi di scontro. Soprattutto ha sofferto di più chi con l’alcool ha un legame di dipendenza. I tossicodipendenti hanno ricevuto da un servizio esterno succedanei o medicinali e hanno mantenuto un contatto via telefono con gli operatori del SERT. Si è lavorato molto per quanto riguarda la collocazione delle persone, cercando di trovare la condizione migliore tra rispetto delle distanze di sicurezza, presenza degli ospiti e spazi utili per la permanenza diurna. In molti si sono resi conto dell’impegno straordinario degli operatori per garantire agli ospiti del dormitorio un luogo dove poter rimanere per molte ore del giorno e della notte, per rispondere alla richiesta di muoversi il meno possibile dal posto dove si abita».

Altra questione importante è stata sicuramente il reperimento del cibo. La chiusura delle mense della Caritas e la prima indicazione dell’ASP di evitare l’accesso nelle strutture dei volontari impegnati nella distribuzione dei pasti, sottolineando che avrebbe dovuto essere garantita dagli operatori dei servizi, hanno sicuramente creato non pochi problemi.

«E’ vero, nei primi giorni, dopo queste disposizioni non sapevamo a chi rivolgersi per preparare almeno il pasto serale che solitamente portavano i volontari della Misericordia. Poi c’è stata la decisione del Cardinale Zuppi di farsi carico, attraverso la Caritas, dei due pasti per gli ospiti, sia a pranzo che a cena, cosa che a pranzo prima non avveniva in struttura. Per il pranzo la consegna arriva tramite pasti Camst in collaborazione con la mensa dell’Antoniano. Per la cena serale, siamo un po’ ingolfati con la distribuzione dei pasti. Anche in questi due momenti specifici dobbiamo fare molta attenzione per garantire la distanza di sicurezza. Si invita anche gli ospiti a consumare il pasto in camera».

Per quanto riguarda gli interventi di pulizia o l’arieggiamento delle strutture che prima venivano effettuati nelle ore di assenza degli utenti, oggi con il centro sempre occupato da persone e con in più la richiesta di operazioni più accurate, tra le quali si è aggiunta anche la sanitarizzazione degli spazi, come si sta procedendo?

«All’inizio delle nuove disposizioni la situazione era alquanto trafficata, spostare persone stando attenti a non ammassarle, far effettuare le pulizie e poi rifar circolare tutti e svuotare un’altra parte dell’immobile, non è stato un gioco da ragazzi. Da quando sono state installate all’esterno le tensostrutture, attrezzate con tende e tavoli, prima in via Pallavicini e via del Lazzaretto, poi a Villa Serena e davanti al Beltrame-Sabatucci, le cose si sono facilitate. Ora, durante gli interventi di pulizia delle strutture, si permette alle persone di avere un luogo dove rimanere. Spazio che, in generale, durante tutta la giornata, permette una sistemazione più ampia degli utenti, facilitando il rispetto della distanza di un metro. In particolare, i tendoni sono utili per la distribuzione dei pasti e per far defluire (quando il meteo lo permette) le persone all’esterno».

Sulla questione delle pulizie abbiamo sentito anche una delle addette che svolge la sua mansione in più di una struttura di accoglienza. Ecco la sua testimonianza: «Anche il lavoro delle addette alle pulizie si è complicato in quanto le attività previste devono avvenire alla presenza delle persone salvo i tentativi quotidiani di farle defluire negli spazi possibili. Le addette sono munite costantemente di guanti e mascherine per tutta la durata dell’intervento e ci è stata data indicazione di intervenire solo sugli spazi sgombri di ospiti. Molte operatrici che lavorano nell’ambito delle pulizie stanno svolgendo la loro attività con un bel po’ di ansia e anche di paura. Siamo costantemente a contatto con superfici e spazi da pulire frequentate da persone che hanno diverse problematiche anche fisiche. E ad alcune di noi è stato anche richiesto di sanificare questi spazi. In alcune situazioni ci è stato proposto l’utilizzo di tute protettive per dare una risposta alla nostra ansia di beccarci qualcosa, soprattutto dove il numero di persone accolte è aumentato. Inoltre, c’è da segnalare che, a fronte di questi aumenti di presenze all’interno dei centri, le ore di noi addette sono rimaste invariate su tutte le strutture nonostante ci sia stato richiesto di aumentare gli interventi di sanificazione».

Ritornando al nostro interlocutore principale, abbiamo voluto affrontare con lui il tema della sicurezza degli operatori e, in questa situazione di pandemia diffusa, il timore più che legittimo di potersi procurare qualche malattia.

«Per quanto riguarda la sicurezza degli operatori nel rapporto con gli utenti… Sono pochi gli ospiti che hanno a disposizione mascherine e l’elevato numero di persone presenti a volta fa veramente sfiancare per ottenere il rispetto delle distanze sollecitate. Per gli operatori sono in dotazione mascherine e guanti e c’è comunque, da parte nostra, un’attenzione che già veniva applicata in precedenza nei momenti di “normalità”. Noi siamo abituati a rispettare le precauzioni che oggi vengono richieste, purtroppo ci è capitato spesso di avere a che fare con persone malate di Aids o di tubercolosi o di epatite. In più, dove sono ospitate molte persone con problemi di salute, come al Beltrame-Sabatucci o al centro Rostom di via Pallavicini, è prevista la presenza di una equipe sanitaria composta da un medico, un infermiere e un operatore socio-sanitario, che fanno parte del cipartimento di Cure primarie del distretto dell’Ausl e operano coordinati con il programma di vulnerabilità del dipartimento di Salute mentale. Se si dovesse registrare una situazione sospetta, viene subito chiamato a gestire la situazione il dipartimento di Sanità Pubblica».

Veniamo, per finire, al Comune di Bologna. Di recente, rispondendo a una interpellanza in consiglio comunale, l’assessore al Welfare Giuliano Barigazzi ha detto che “ancora una volta la professionalità degli operatori e la collaudata rete dei volontari permette di affrontare una situazione straordinaria come quella che stiamo vivendo”. Voi come rispondete a queste rassicuranti “belle parole”?

«La retorica degli “eroi della prima linea” non ci appartiene e, per essere un po’ cinici, non è quella che ci dà da mangiare… La situazione è pesante, anzi pesantissima… Tra i volontari che frequentavano i centri e che svolgevano un ruolo di supporto al nostro lavoro, c’è chi è restato a casa, molto spesso invitato dalla sua associazione, perché anziano… Noi operatori, però, siamo molto concentrati e motivati per gestire l’attuale situazione da Coronavirus che è molto più complicata dei periodi di “ordinaria gestione”… Tra noi, comunque, c’è molta consapevolezza del nostro ruolo che, oggi più che mai, va oltre il mansionario previsto dalle declaratorie professionali… Il fatto di essere tanto presenti in struttura ci ha permesso, tra le altre cose, di discutere continuamente del nostro stato. Quando questa storia sarà finita, il nostro lavoro dovrà essere preso in considerazione e valorizzato per quello che è effettivamente. Tra le tante preoccupazioni che abbiamo non ci può essere anche quella della precarietà del nostro reddito e del nostro contratto di lavoro. O l’amministrazione comunale lo capisce oppure tra noi c’è la volontà di cominciare a costruire percorsi di lotta… Come non abbiamo mai realmente fatto… In tanti, a causa del Coronavirus, hanno versato lacrime di coccodrillo, accorgendosi fuori tempo massimo dell’importanza della Sanità Pubblica. Anche noi siamo un presidio pubblico fondamentale… e, ribadisco, pubblico, che non può essere sostituito dalla cosiddetta “sussidiarietà”… La presenza e il lavoro dei volontari da noi sono apprezzati, sono nostri amici, non li riteniamo “concorrenti”, ma il disagio umano che la società produce ha bisogno di una “lavoro di cura” che deve essere riconosciuto prima di tutto come un servizio della collettività. Nelle strutture di accoglienza, come del resto in tutto il paese, si naviga aggiustando ogni giorno la rotta, mitigando le virate troppo improvvise, cercando di evitare gli scogli e di non imbarcare troppa acqua. Ma per fare questo il lavoro dei “marinai”, necessario per portare avanti la barca, deve essere riconosciuto per il suo valore e questo, fino a oggi, non è stato fatto. Per questo, tante cose dovranno cambiare».