Culture

L’archivio di Zic, Carmilla e un libro dedicato a Laye

“Mala Brocca” sarà presentato nell’ambito di Carmillafest, che si svolgerà domani e domenica a Vag61: raccoglie “storie di ultimi e dignità” recuperate anche negli archivi di Zero in condotta e nelle prime pagine ricorda il migrante ucciso nel 2016 in un parco della periferia bolognese.

18 Ottobre 2019 - 14:59

Dedicato a Laye, che aveva il “cuore bianco”. Comincia così il libro “Mala Brocca – Storie di ultimi e dignità” (Pendragon 2019), che verrà presentato per la prima volta domenica a Vag61 nell’ambito di “Fantasie che mordono – Carmillafest 2019“, due giorni (19 e 20 ottobre) di dibattiti, musica e gastronomia popolare dedicata all’immaginario d’opposizione a cura della redazione della webzine fondata da Valerio Evangelisti. “Le storie raccontate in questo libro- racconta l’autore Valerio Monteventi– sono state recuperate negli archivi dei giornali Mongolfiera e Zero in condotta e del Centro di documentazione dei movimenti ‘F. Lorusso – C. Giuliani’ di Vag61, a Bologna. La foto di copertina del libro venne scattata negli anni Trenta e ritraeva mia madre bambina nel lavoro dei campi. Faceva parte di una famiglia ‘allargata’ di mezzadri, composta da 30 persone di cui 18 bambini. E’ stata per più di sessant’anni nell’ingresso di casa dei miei genitori. ‘Non bisogna vergognarsi di essere o di essere stati poveri, ma bisogna fare di tutto per non perdere mai la dignità’, mi ripeteva sempre la nonna Gemma, mia madre”.

La presentazione del libro: “Luigi ‘Luisìn’ Malabrocca era il più giovane di sette fratelli, pescatore d’acqua dolce e corridore in bicicletta. Diventò famoso alla fine degli anni Quaranta per un record ciclistico ‘al contrario’: si aggiudicò per due anni di seguito la maglia nera, quella che indossava l’ultimo della tappa. Vista la notorietà (e il premio in denaro) che ne derivava, da allora la sua missione da sportivo fu essere ultimo sempre, a ogni costo. A tale singolare figura d’atleta si è ispirato Valerio Monteventi nel raccogliere queste storie: storie di ultimi, di baracche, acque, fiumi e canali, di fughe ed espedienti per difendersi dalla miseria, ma anche di intellettuali, giornalisti e reporter che hanno puntato lo sguardo ai margini della società. A legare tra loro i dieci racconti (più uno), un filo rosso che corre lungo vent’anni di lotte per la dignità a Bologna e altrove, in mezzo agli ultimi e a coloro che, nonostante i tempi, ancora si impegnano per costruire un mondo più giusto. Un ciclista che decise di arrivare ultimo per essere ricordato. Un intellettuale che ha sempre frequentato le periferie. Il fotografo dei rom. Un aspirante pugile di Marrakech che infrange il suo sogno tra i senza casa di Bologna. Il lavoro nero e mal pagato e le capanne lungo l’alveo del fiume Reno. Le migrazioni del nuovo millennio, i muri e i fili spinati, le occupazioni e gli sgomberi. La città vista in ‘orizzontale’ di chi vive sdraiato su un marciapiede. Il presagio del poeta eremita: ‘Arriveranno gli ultimi o i penultimi… Antagonisti del nostro tempo e senza confini anagrafici di riconoscimento”.

Questa, invece, l’introduzione con la dedica a Laye: “La pozza di sangue è ancora lì per terra sul prato, nella parte del parco della Lunetta Mariotti, alla prima periferia di Bologna, dove la vittima ‘alloggiava’ e, insieme un gruppo di giovani africani, passava le sue giornate. L’omicidio è avvenuto un sabato sera, nel mese di luglio del 2016. Abudullaye Sall, detto Laye, per il suo carattere, era un po’ l’animatore di quel gruppo di ragazzi senegalesi senza casa. Spesso cucinava e, alle volte, nel parco ci dormiva. Quella notte, su quell’erba, ci ha lasciato la vita, accoltellato da un disperato, con cui aveva appena condiviso la cena contro il parere degli altri che non avrebbero voluto averlo tra loro. Qualche giorno prima, Laye, aveva preparato pesce e riso per tutti, anche per i tunisini che da un po’ tempo si era preso a cuore. Insisteva perché stessero a mangiare con loro, in quel parco che era come la sua casa, anche se molti della comunità senegalese non erano d’accordo. A ucciderlo è stato un nord-africano di circa 40 anni, era uscito da poco dal carcere e non sapeva dove andare, Laye l’aveva invitato fermarsi con loro, avrebbe potuto lavarsi, mangiare, dormire e pregare. L’omicida prima l’hanno visto svegliare Laye e, successivamente, infierire su di lui con un grosso coltello da cucina. Sui social i cretini si scatenano: ‘Un negro in meno’, ‘Che si ammazzino pure tra di loro’… ‘Questa è feccia, meno male che si eliminano da soli’. Il giorno successivo invece, insieme a molti ragazzi senegalesi, arrivano sul luogo del delitto tantissime persone: musicisti, giovani che frequentano i centri sociali, amiche e amici italiani della vittima”.

Continua l’introduzione: “Laye viveva a Bologna dagli anni Novanta. Era passato in tanti posti, dagli spazi autogestiti ai bar di periferia, dalle sale musicali a un laboratorio di afrobeat. Erano gli stessi luoghi frequentati da tutti quelli che erano andati in quel parco per ricordarlo. Era come se ci dovesse essere un abbraccio riconoscente per tutto quello che aveva saputo trasmettere. Sì perché, in qualsiasi situazione dove ci fosse qualcuno con voglia di vivere e condividere, prima o poi quell’omone, dal fisico possente e dal carattere un po’ guascone, arrivava, per danzare, suonare, fare ballotta e, soprattutto, sorridere. Lui sorrideva sempre, anche quando c’era davvero poco da ridere, perché la vita può far male ma se la vivi con gli altri allora duole di meno. Nella cultura africana il fiume è il simbolo del viaggio verso una destinazione vicina o lontana e costituisce il confine spirituale tra i vivi e i morti. Il canale che costeggia il parco, in quel giorno d’estate, era completamente secco. Non c’era acqua e, per ricordare Laye, si usarono le parole. «Aveva un grande cuore bianco», disse un suo amico senegalese. Secondo la cultura islamica, ‘l’uomo con il cuore bianco è colui che ha un cuore pio, puro, in cui non ci sono peccati, ingiustizie, astio e nemmeno invidia’. «Laye era pulito, generoso e senza cattiveria… era questo e tanto altro». Giusy, una sua amica dell’afrobeat, lasciò questo messaggio: «Laye, caro Laye, ultimo degli ultimi, la tua casa era la strada, di questa Bologna stanca ed annoiata che giudica e pregiudica, che ha troppa fretta per conoscere, che consuma e crepa. La tua famiglia eravamo noi, che storcevamo il naso e sbuffavamo quando sei arrivato con la tua presenza ingenua e scoordinata, col tuo chiasso stonato. Noi che facevamo attenzione ai tempi e ai controtempi e un po’ meno ai tuoi sogni e ai tuoi bisogni. Laye, gigante buono che col passare del tempo ci hai insegnato pian piano ad accoglierti, a sorriderti e ringraziarti. Non sei tu ad aver imparato a stare a ritmo, non sei tu ad aver imparato ad intonarti, ma siamo noi, tutti noi che abbiamo imparato ad amarti. Grazie Laye di questa grande lezione. Adesso ascolta la nostra musica, prendi pure finalmente il mio tamburo e suonalo fino a spaccarlo, e poi canta sempre insieme a noi, Laye»”.