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La vita del medico di base in tempo di Coronavirus

L’inchiesta autogestita sul servizio sanitario bolognese nella seconda fase pandemica prosegue con una nuova testimonianza. Questa volta abbiamo intervistato un medico di famiglia: “Molti di noi sono stanchi e tirano avanti per senso di responsabilità. Ma le politiche sanitarie che si basano solo sugli spot devono finire”.

10 Dicembre 2020 - 11:03

Continua la nostra inchiesta autogestita sul servizio sanitario bolognese nella seconda fase della pandemia da Covid, che Zic.it ha avviato insieme all’Assemblea per la Salute del Territorio. “Le politiche sanitarie che si basano sugli spot devono finire”, dice il nostro interlocutore, “bisogna decentrare attribuzioni e poteri alla medicina del territorio, altrimenti parlare di prevenzione di prossimità, come fanno i vertici dell’Asl, è solo fuffa”.

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La vita del medico di base in tempo di Coronavirus

È ormai sera tarda. Sono da poco passate le otto e il medico sta terminando una telefonata con un suo utente che ha avuto contatti con una persona risultata positiva al Covid. Gli ha dato tutte le informazioni per come gestire in casa l’isolamento da quarantena. Il dottore deve poi trasmettere l’informazione l’Asl e sarò poi questa a dover comunicare ufficialmente la “disposizione di quarantena”.

L’ambulatorio è trasformato in una specie di percorso di guerra, con distanze, entrata e uscita ben segnate e divise. L’affollamento di solito abituale non c’è più. Si entra solo su appuntamento ed è prestata molta attenzione che non ci sia accavallamento tra chi è stato visitato e chi si deve fare visitare. Anche i tempi di permanenza nello studio del dottore sono contingentati e non si può sforare. Ad essere completamente tagliate sono le “chiacchiere di contorno” che nel rapporto tra medico e paziente non sono una cosa secondaria, ma, anzi, si rendono assolutamente necessarie per arricchire la professione sanitaria di quel carico di umanità che dovrebbe essere imprescindibile.

I movimenti del dottore e l’uso dei suoi strumenti di lavoro sembrano essere stati vagliati da un esperto di tempi e metodi per un’organizzazione produttiva fordista. Ma, in questi tempi di Covid, sulla durata delle visite non si può derogare. Il lavoro è tanto, gli incontri e i controlli sui sintomi delle “normali” malattie permangono quasi come prima. Sono quasi raddoppiate le vaccinazioni antinfluenzali. Poi c’è la miriade di scenari che la pandemia ha scatenato ed il medico di base, per forza di cose, è diventato un basilare interfaccia tra i cittadini e il servizio sanitario pubblico, senza avere, però, gli strumenti istituzionali e le deleghe dalla dirigenza dell’Asl per svolgere al meglio questo compito e dare risposte certe alle tante domande che vengono poste.

E’ proprio di questo di cui vorremmo parlare nell’intervista che siamo venuti a chiedergli.

In trenta secondi vengono messi i paletti: «Non voglio che le cose che dirò siano utilizzate per sputtanare il servizio pubblico. Proprio perché ritengo che il ruolo della salute pubblica sia fondamentale e, se ci sono delle cose che non vanno, il dichiararlo è necessario per far funzionare le strutture e i servizi al meglio».

In secondo luogo, l’intervista non si farà in presenza, ma per telefono: «Ci mancherebbe, io sono costretto a mandare via le persone in quattro e quattr’otto, castrando una parte importante del mio modo di concepire la professione, e poi dovrei rimanere qui a conversare piacevolmente con voi del più e del meno… non se ne parla».

Dopo circa mezz’ora, da due luoghi diversi, il colloquio riprende dalla questione del tracciamento dei contagi (uno dei temi che, con più assiduità, sono stati trattati nelle altre puntate dell’inchiesta aperta da Zic) e su quali sono i compiti di medico di Medicina generale.

Ricomincia il medico: «Quando vengo informato da un mio paziente che è stato in contatto con una persona risultata positiva al Coronavirus, per prima cosa gli do tutte le informazioni necessarie per svolgere al meglio l’isolamento domestico previsto. Come si deve comportare nei rapporti coi suoi famigliari, sull’uso delle mascherine e sul distanziamento anche in casa. Sul dormire separati dal coniuge o dal convivente. Su come utilizzare servizi igienici diversi, altrimenti, in caso non ci siano, su come sanificarli ogni volta dopo l’uso. Altrettante indicazioni le do su come cucinare in protezione e su altre cose che fanno parte della convivenza domestica. Tutto è abbastanza “semplice” se l’abitazione ha le caratteristiche per permetterti il rispetto del “protocollo”, ma sappiamo benissimo che per tutti non è così. Per esempio, io in questi giorni sono abbastanza angosciato per una famiglia di migranti, sono in cinque e tutti positivi. Vivono in un alloggio di poco superiore ai 50 metri quadri, come possono stare distanziati, dormire in camere diverse, usufruire dei servizi in modo differenziato e sicuro?».

Dopo le informazioni, qual è il passaggio successivo?

«Informare l’Asl e prenotare un tampone in data utile rispetto ai tempi del contatto con la persona contagiata. Su questo aspetto bisogna fare attenzione: io, come medico di base, non ho il potere di disporre la quarantena per un “contatto stretto di soggetto positivo”. Pertanto, per poter fare un certificato non di malattia, ma che possa giustificare l’assenza dal lavoro, occorre attendere una “disposizione di quarantena” ordinata dall’Ufficio di Igiene dell’Asl. Ho diverse testimonianze che i tempi di questa necessaria disposizione dell’Asl non sono così certi».

Perché non un certificato di malattia?

«Perché l’Inps lo accetta, pure retrodatato, solo se il tampone dà esito positivo (anche nei casi degli asintomatici). Se il tampone è negativo la giustificazione è riconosciuta, ma la persona deve utilizzare le ferie (se le ha) o i permessi non retribuiti. Quindi si deve stare in casa, a volte anche settimane, fino alla programmazione di un tampone di guarigione e alla disposizione di fine isolamento, ma di fronte a questo “impedimento necessario” non c’è copertura economica. Per questi casi non esiste una “cassa integrazione”. Ed è ancora peggio per chi è precario o ha una piccola attività in proprio; per loro non ci sono nemmeno le tutele normative dei lavoratori dipendenti… E guardate che di casi di persone che, a causa di disguidi burocratici, rimangono chiuse oltre il tempo previsto ce ne sono diversi. Per esempio, si sono verificate situazioni per cui alla persona in isolamento domestico è arrivato a casa prima l’esito negativo del tampone e, dopo qualche giorno, il documento dell’Asl che dispone il suo isolamento. A me è capitato un caso limite di una signora messa in quarantena il 5 novembre che, seguendo tutto l’iter previsto, avrebbe potuto uscire attorno al 20 novembre, invece è rimasta chiusa impropriamente fino al 5 dicembre».

Quale sarebbe il modo per non incorrere in questi disguidi?

«Il decentramento delle attribuzioni e dei poteri, che l’Asl tiene in pugno centralmente, alla rete della medicina del territorio, cioè ai medici di Medicina generale. Se si fosse fatta per tempo questa scelta non ci sarebbero stati i casi che si stanno verificando di soggetti asintomatici, in isolamento da più di 14 giorni, che non si sono visti arrivare la certificazione di fine isolamento o hanno ricevuto la comunicazione di prolungamento della quarantena. E questo a dispetto dell’attestazione di guarigione clinica da parte del medico di base e dell’esito negativo del tampone. Altrimenti parlare di “prevenzione di prossimità”, come fanno i vertici dell’Asl, è pura fuffa».

A tal proposito, cosa ne pensa dell’esplosione del sistema di tracciamento dei contatti, ormai ammesso dai rappresentanti delle istituzioni e dagli stessi dirigenti dell’Asl?

«Nei mesi scorsi, quando tutti prevedevano il ritorno della pandemia su basi molto più allargate, si doveva rinforzare il servizio, ma non è stato fatto. Quando, a fine ottobre, il numero dei positivi è esploso, la scarsità delle risorse umane e organizzative impiegate ha fatto il resto… Hanno perso tempo e adesso versano lacrime di coccodrillo».

E’ un po’ come la questione dei vaccini antinfluenzali?

«Esattamente, è proprio così… Hanno fatto giustamente una campagna per promuovere le vaccinazioni. Questo era importante importante perché poteva rendere più facile per i medici la diagnosi differenziale tra influenza e Covid-19. Era prevedibile che questa promozione intensa, attraverso spot del Ministero in televisione e inserzioni sui giornali, avrebbe portato a un numero molto più alto di richieste di vaccinazione rispetto agli anni precedenti. Quest’anno, poi, andavano sicuramente fatte con più sicurezza e con più precauzioni igienica di quando fosse già stato fatto prima. Bene, dopo alcuni giorni dalla partenza della campagna di vaccinazione, le dosi dei vaccini si sono esaurite in un baleno. E la gente che si è vista saltare tutte le date di prenotazione con chi se l’è presa? Con noi che siamo la prima linea di contatto con l’utenza. Che dire? Molti di noi sono stanchi, ma tirano avanti per senso di responsabilità. Ma le politiche sanitarie che si basano solo sugli spot devono finire».