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“La lettera di Giulia, che racconta la sua storia di molestie all’Università”

“Una lettera di denuncia politica che non solo lancia un grido, ma racconta anche di auto organizzazione e di come uscire insieme da situazioni di violenza”, scrive Non Una Di Meno, che ha diffuso il testo. La studentessa: “Ho deciso di scrivere perché ciò che è successo a me non accada più”.

21 Novembre 2019 - 14:45

“Questa è una lettera di denuncia politica che non solo lancia un grido, ma racconta anche di auto organizzazione e di come uscire insieme da situazioni di violenza”. Con queste parole Non Una Di Meno ha pubblicato la lettera di Giulia, “una ragazza di Bologna che racconta la sua storia di molestie in Università, e che nonostante i suoi tentativi non è riuscita a farsi pubblicare dalla stampa. Per questo vogliamo farlo noi: contro ogni violenza patriarcale, verso il 23 novembre e oltre, perché nessun@ si senta più sol@!”. Giulia è un nome di fantasia, precisa Non Una Di Meno, “non solo per tutelare la privacy e la safety di chi scrive, ma anche perché storie come questa le abbiamo vissute tutt* e tutt* insieme ci vogliamo ribellare alla violenza”.

Questo il testo della lettera: “Mi chiamo Giulia, sono una studentessa dell’Università di Bologna e ho deciso di scrivere alla stampa perché ciò che è successo a me non accada più. L’anno scorso ero una matricola alle prese con un grosso esame, con qualche lacuna dalle scuole superiori e tante insicurezze in aula. Durante una lezione uno dei professori ci invitò a chiedere aiuto a ricevimento privato se ne avessimo avuto bisogno, come generalmente si fa in Università e come mi era già successo per altri esami: per me non c’era nulla di inusuale in ciò. A fine lezione mi avvicinai e mi chiese il numero per accordarci, dicendo che le e-mail erano troppo formali. Mi fidai e glielo diedi. Mi scrisse: molte faccine e nomignoli, mi sembrò strano, ma prendemmo appuntamento in un’auletta dell’Università. Per strada sono un po’ in pensiero, poi mi dico che sto andando nello stesso luogo dove faccio lezione tutti i giorni, che mi è familiare – mi tranquillizzo. Arrivata a ricevimento mi accoglie con parole amichevoli, mi stringe lungamente la mano e mi dice che avrei dovuto assolutamente dargli del ‘tu’. Fa apprezzamenti sul mio abbigliamento, mi dà un paio di buffetti sulle guance e mi invita ad accomodarmi. Mi chiede di leggere un testo, inizio. Lui un po’ mi corregge e si avvicina, un po’ mi loda e si avvicina ancora di più, con il suo viso sempre più vicino al mio, a pochi centimetri di distanza. Poi allunga le mani, prima su una spalla, poi sulla schiena, sale fino al collo – mi allontano – continua tra i capelli, sulla nuca – mi allontano ancora – ma lui non smette, anzi, scende un po’ più giù, sotto la maglietta. Impietrita, finisco il verso e mi congedo da lui. Uscita dall’aula mi sento sporca, tornata a casa non ne parlo con nessuno”.

Dopo poche ore “ricevo un messaggio: mi dice che avevamo passato un bel pomeriggio e mi chiede quando ci saremmo rivisti”, scrive ancora Giulia: “Mi sento uno schifo, ma devo a tutti i costi preparare l’esame a breve, forse mi sto preoccupando troppo, e poi voglio che rimanga una cosa da poco conto, in fondo non sono neanche sicura dell’accaduto, e poi non saprei come spiegarlo, e qualcuno potrebbe fraintendere. Rispondo. Tornata a ricevimento, stessa storia: gli stessi commenti, le stesse mani. Mi sorride, io mi sento morire, chiudo il libro e vado via. Quella sera ricevo da lui una buonanotte. Non lo dico a nessuno, forse mi sbaglio, forse è solo amichevole, devo preparare l’esame, non ci voglio tornare da quello, non so la grammatica, no, da quello non ci torno affatto, l’esame è vicino, ho bisogno di qualcuno che mi spieghi, di un professore che mi spieghi, forse ci torno, non so che fare, mi fa schifo, no da lui non ci torno. Lo rincontro per caso nei corridoi, mi chiede che fine abbia fatto ma io sono evasiva, vado via, ricevo un suo ultimo messaggio di rammarico. Passano i mesi, forse dimentico forse no, ogni tanto lo rivedo e faccio finta di nulla. Un giorno chiacchierando con un’amica venne fuori il discorso: anche a lei era successo. Proprio in quei giorni ci capitò per caso sotto gli occhi un manifesto che recitava ‘MALAconsilia, consultoria studentesca autogestita’ e parlava di uno sportello alla pari dove rivolgersi anche in caso di molestie in Università. Così abbiamo portato lì la nostra storia, abbiamo trovato ascolto e piano piano si sono aggiunte altre persone alla lista di studentesse che avevano vissuto la stessa situazione con lo stesso professore. Sarò franca: non è stato facile trovare gli strumenti in Università per risolvere questa situazione, ma, dopo mesi di lavoro insieme, quel professore non può più fare del male e nessuna studentessa dovrà più vivere quello che noi abbiamo passato. Non è semplice trovare la forza e le emozioni giuste per affrontare cose simili. Io ho deciso di raccontare perché per tutte noi è stato difficile e desidero che le cose vadano in modo diverso, per me e per ogni altra donna che possa trovarsi in situazioni simili. Non credete di essere nel torto come ho fatto io. Parliamone, rompiamo il silenzio perché insieme si può ottenere giustizia e cambiare davvero le cose. Come negli Stati Uniti il #meetoo partì dal grido di una singola donna, scrivo perché come me nessuna si senta più sola, scrivo perché ci sia un #metooUnibo, scrivo perché tutte ne abbiamo bisogno”.