Attualità

Rojava / Al di qua di Kobane

Sotto assedio dal 16 settembre la cittadina controllata dall’YPG, forza socialista, libertaria e femminista: “La lotta di queste donne e questi uomini è qualcosa che appartiene al patrimonio dei movimenti globali per la giustizia sociale”.

04 Ottobre 2014 - 17:19

di Gabe Carroll da ∫connessioni precarie

RojavaVenerdì 3 ottobre si è consumata un’altra giornata molto cruenta nell’assedio di Kobane, la cittadina kurda nella regione di Rojava, da due anni sotto il controllo delle Unità di Protezione Popolare (YPG), espressione siriana del PKK e del fronte KCK (di cui fanno parte anche il PJAK iraniano e il PCDK iracheno). Questa forza, di ispirazione apertamente socialista, libertaria e femminista, si trova sotto assedio dal 16 settembre. I combattenti dell’Isis, stanati in Iraq dai bombardamenti USA e bloccati (per il momento) negli scontri con Assad e quello che rimane dell’Esercito Libero Siriano, hanno ammassato decine di brigate (comprese quelle dotate di carri armati e altre armi pesanti) sulla cittadina kurda, che dista pochi chilometri dal confine turco. In due settimane di combattimenti le milizie salafite hanno perso centinaia di combattenti, infliggendo però pesanti perdite alle YPG, già in inferiorità numerica e dotate quasi solamente di armi leggere. L’Isis è stato fedele alla sua immagine, uccidendo civili nei dintorni di Kobane e decapitando prigionieri, offrendo così un assaggio di quale sarebbe il trattamento riservato alle popolazioni della regione, che includono non solo kurdi, ma anche cristiani arabi e assiri fuggiti da altre zone, molti dei quali sono entrati nelle YPG, facendola diventare ormai una forza multietnica e multiconfessionale.

Mentre nei dintorni di Kobane impazzavano scontri ferocissimi, su twitter c’è stata una discussione esplosiva ed erratica, che ha visto partecipare attivisti kurdi e internazionali, giornalisti, residenti delle zone colpite, falchi guerrafondai atlantisti e anche qualche sostenitore del califfato, più o meno mascherato. Molti in rete hanno ripreso le accuse che attivisti kurdi e rappresentanti delle YPG ripetono da settimane: la Turchia è complice del massacro in atto. La posizione della Turchia nei confronti dell’Isis è talmente ambigua che anche per il più esperto commentatore è difficile dare una spiegazione esatta dei comportamenti dello Stato turco, dovendo eventualmente tener conto anche delle supposte divisioni tra governo, esercito e intelligence. Certo è che il parlamento turco ha autorizzato giovedì l’uso della forza nei confronti dello Stato Islamico, ed Erdogan si è espresso sulla necessità di evitare che Kobane finisca in mani jihadiste. Questo potrebbe suscitare un sospetto pesante, ma per molti versi plausibile: la Turchia auspica che l’Isis faccia il lavoro sporco, annientando la Rojava autonoma creata dalle YPG e dal suo braccio politico, il PYD, evitando così la situazione creatasi negli anni ’90, quando la no fly zone Americana nel Kurdistan iracheno ha permesso basi d’appoggio sul confine iracheno al PKK nella sua lotta contro l’esercito turco. Questa interpretazione degli eventi è diffusa tra attiviste e attivisti kurdi.

Le potenziali ramificazioni di questa situazione sono talmente tante da rendere quasi impossibile elencarle tutte. L’assedio ha già prodotto il più grande esodo di profughi della guerra siriana, tra i 160 e i 200 mila in poche settimane. Molti di questi sono tornati a combattere, ma quelli che rimangono in Turchia (la maggioranza) si trovano proprio sul confine, a guardare gli scontri con binocoli e periodicamente a manifestare contro i soldati turchi presenti, talvolta scontrandosi con loro e subendo cariche e idranti. Sono esplosi scontri in zone kurde della Turchia e il 3 ottobre sono stati caricati turchi e kurdi che manifestavano assieme a Kadikoy, un quartiere di Istanbul. Va inoltre ricordato che sembra esserci una grossa presenza di cittadini turchi dentro l’Isis (circa 800), mentre sono state diverse le segnalazioni di militanti filo-Isis presenti nelle piazze e manifestazioni in Turchia, per non parlare della rete di smistamento che l’Isis deve aver creato entro i confini turchi per permettere l’arrivo dei volontari e il loro passaggio in Siria e Iraq. Il conflitto a Kobane rischia di far esplodere alcune contraddizioni latenti del regime neo-ottomano di Erdogan e nel suo partito, riportando l’opposizione nelle piazze in numeri sempre maggiori. Diverse fonti confermano una nuova alleanza tra le YPG e i ribelli siriani del FSA, ma per il momento non sembra che questo possa cambiare la sorte di Kobane. Salih Muslim, comandante delle YPG, attualmente in Europa, afferma che le autorità turche hanno presentato un ultimatum alle sue forze: sciogliete la zona autonoma di Rojava e le YPG, in cambio del sostegno turco per evitare il massacro. Salih Muslim afferma di aver già rigettato l’offerta.

Il punto di vista dei movimenti nei confronti dell’esperienza di Rojava dovrebbe essere chiaro, ma nei due anni della sua esistenza l’attenzione che ha ricevuto è stata tragicamente poca. Solo da quest’estate, quando si è profilato il possibile annientamento delle YPG, si è cominciato a guardare con attenzione e a valorizzare la rivoluzione di Rojava. Adesso che il suo annientamento potrebbe realizzarsi da un giorno (o da un’ora) all’altro, la necessità di prendere posizione, di mobilitarsi e immaginare iniziative serie di sostegno economico, logistico, umanitario e politico si fa molto urgente, perché siamo già molto in ritardo. A chi non riesce a essere chiaro, a chi vuole disperatamente mantenere uno schema di antimperialismo vecchio di decenni e a chi, dall’altra parte, vuole superarlo troppo in fretta, vale la pena ricordare le recenti parole di Wu Ming: «il PKK è una forza di massa laica, socialista, libertaria, femminista in Medio Oriente. E guida una resistenza popolare all’Isis». Le bombe americane, che sembra siano cadute nella serata di venerdì 3 ottobre, non sono (e non saranno mai) da invocare o sperare, e le contraddizioni che tali interventi suscitano vanno affrontate con forza. Ma riconoscere che la lotta di queste donne e questi uomini è qualcosa che appartiene non solo alla cronaca mediorientale, ma al patrimonio dei movimenti globali per la giustizia sociale, come la lotta pluridecennale del popolo palestinese, è un atto dovuto e necessario, per poi agire di conseguenza. Non si tratta di costruire nuovi miti, o di ripescare vecchi immaginari di quello che veniva chiamato terzomondismo. Siamo di fronte a un conflitto segnato dall’attraversamento di confini: basta pensare non solo ai volontari dell’Isis, ma alle centinaia di kurdi residenti in Europa tornati a combattere in Iraq e Siria. Nonostante la strumentalizzazione politica operata da forze evidentemente reazionarie in Europa e negli Stati uniti e il ritorno della possibilità di un’invasione «occidentale» del levante, siamo già coinvolti, perché non siamo di fronte a una lotta di «altri» rispetto a noi. Di fronte a tutto questo la prospettiva di un blando «tifo per i nemici degli Usa» non funziona più.

La battaglia degli ultimi due giorni, che sta vedendo decine di morti, non ha segnato la caduta di Kobane, che potrebbe però avvenire nelle prossime ore, nonostante la resistenza eroica e solitaria delle compagne e dei compagni delle YPG. La loro scommessa è quella di costruire in Medio Oriente uno spazio di autodeterminazione egualitario, socialista, pluralistico, indipendente tanto dai macellai religiosi dell’Isis e di al Nusra quanto da quelli laici di Assad. Qui non si tratta di sostenere un’idea quando tra mille distinguo la si riconosce uguale alla propria, ma della attuale volontà politica organizzata, armata e non mediata di donne e uomini. Dobbiamo chiederci: i movimenti sono capaci di trovare i modi per sostenere realmente questa lotta? E se la risposta è no, allora, perché?