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Inchiesta / In provincia di Bologna ci sono 32.000 cassintegrati

A chi dice che la crisi è passata è bene ricordare che nei primi nove mesi del 2009 la cassa integrazione ordinaria in regione è aumentata dell’820%, quella straordinaria del 186%. Seconda parte della nostra inchiesta.

08 Novembre 2009 - 14:43

scioperoLA DISOCCUPAZIONE CRESCE TRA I GIOVANI
Il venditore di patacche più famoso d’Italia, quello che da 15 anni è in prestito alla politica e che attualmente si ritrova a fare il presidente del Consiglio o premier che dir si voglia, ha ribadito, anche di recente, che in Italia ci sono forti segnali di ripresa (più che negli altri paesi industrializzati): “il peggio della crisi è ormai alle spalle…”.
Ci piacerebbe sentire cosa ne pensano i giovani e i giovanissimi che fanno parte di quell’esercito di persone che ha perso il lavoro nel secondo trimestre 2009. Si tratta infatti di 404 mila “figli” che, insieme ai 152 mila “padri”, hanno portato la riduzione occupazionale di questi tre mesi a 556 mila unità (questi numeri, quantomeno preoccupanti, sono  stati snocciolati davanti alle commissioni Bilancio di Camera e Senato dal presidente dell’Istat, Enrico Giovannini). Alla fine di giugno, secondo i dati dell’Istat, il tasso di disoccupazione per i ragazzi e per le ragazze che hanno un’età compresa tra i 15 e i 24 anni è arrivato al 24% (superiore di 4 punti in percentuale rispetto allo stesso periodo dello scorso anno). Il peggioramento ha interessato in particolare i ragazzi, il cui tasso disoccupazione è cresciuto del 4,2% mentre quello delle ragazze è salito del 2,5%.
Il Mezzogiorno si conferma come il territorio del nostro paese con il maggior numero di disoccupati “giovani” (35,3 %). Ma il peggioramento più significativo, per quanto riguarda il segmento di popolazione giovanile, si è evidenziato nelle regioni del centro d’Italia. Con un incremento del 5,5% in un anno.

L’Eurispes, nel Rapporto Italia 2009, ha evidenziato il fatto che le misure legislative adottate nell’ultimo decennio hanno contribuito a peggiorare le possibilità occupazionali dei giovani. Le imprese, negli ultimi mesi, hanno ridotto drasticamente le nuove assunzioni indirizzate ai giovani. Anche le collaborazioni sono state tagliate e se un qualunque rapporto di lavoro è stato attivato, i giovani vengono impiegati con mansioni e condizioni economiche sempre meno gratificanti. Chi riesce a fare il primo passo è costretto ad accettare gli effimeri “succedanei” dell’assunzione. Si abbonda in percorsi di tirocinio che difficilmente conducono al lavoro “stabile”.

Da un’indagine europea realizzata di recente da un Istituto di Ricerca di Berlino, risulta che i laureati italiani sono quelli che in Europa hanno meno possibilità di realizzarsi nel mondo del lavoro. Anche nel settore della ricerca universitaria sono emarginati e relegati a ruoli eternamente precari.

Sulla precarietà, anche l’International Labour Organization dell’ONU (Ilo)  ha preso una posizione che contrasta con il pensiero liberista nostrano: “Oggi, come a metà degli anni Ottanta, il lavoro informale (precario e in nero) continua a pesare per il 60% sull’occupazione globale. I paesi che più di altri indulgono nel favorire o tollerare la precarietà del lavoro pagano un prezzo pari a circa il 2% del PIL. Non è solo una questione di giustizia sociale, ma l’economia informale rappresenta un ostacolo alla costruzione del valore aggiunto della produzione. Ci guadagnano gli stati che raccolgono più entrate fiscali da poter utilizzare per mitigare gli shock esterni, per stimolare l’economia quando come ora arriva la crisi”.

IL PEGGIORAMENTO DEL POTERE D’ACQUISTO DEI SALARI
Sui media ufficiali, in questi mesi, c’è stata una forte attenzione a tutte le dinamiche e alle problematiche derivanti dalla crisi economica, ma, al tempo stesso, non c’è stata una minima informazione sul potere d’acquisto dei salari.
I salari, però, non sono evaporati solo dalle pagine dei giornali, ma purtoppo anche dalle tasche dei lavoratori dipendenti.
Il 3 novembre scorso l’International Labour Organization dell’ONU ha pubblicato uno studio dal titolo “Rapporto sul salario mondiale. Aggiornamento 2009”. Secondo questo studio “la crescita reale dei salari (il potere d’acquisto) era già rallentata drammaticamente nel corso del 2008, nel 2009 andrà sicuramente peggio”. Non bastano – secondo l’Ilo – i segnali di ripresa economica per risollevare la domanda solvibile di beni di consumo: “Il continuo peggioramento dei salari reali nel mondo, la deflazione salariale, priva le economie nazionali della necessaria domanda e incide negativamente sulla fiducia”.
Andrebbe poi aggiunto che l’attuale deterioramento dei salari non arriva dopo un periodo di “prosperità”: è ormai un decennio che assistiamo a politiche di moderazione salariale.
L’Ilo auspica l’applicazione del Patto Globale per il Lavoro, approvato in giugno, che prevede una serie di misure a sostegno dell’occupazione che i governi sono sollecitati ad attuare.
A questo proposito, l’Ilo propone di fissare un “salario minimo” a un livello relativamente alto, sostenendo che il “salario minimo è un importante strumento politico per la protezione sociale che va accompagnato da altre misure quali il sostegno al reddito e la riduzione delle tasse sul lavoro. I salari minimi, il dialogo sociale e la contrattazione collettiva rappresentano gli strumenti per evitare le spirali deflattive dei salari e il loro impatto negativo sulla società”.
Anche il legame tra salari e produttività viene declinato dall’Ilo in modo molto diverso da come la pensa Confindustria: “Le aziende dovrebbero essere capaci di guadagnare in competitività mediante un incremento di produttività, invece di perseguire la compressione del costo del lavoro”.
Non ci sarà quindi da stupirsi se Berlusconi prossimamente sposterà, per qualche tempo, le sue attenzioni sugli “pseudo studiosi comunisti” che sono annidati da anni (così come lo sono nella stampa e nella magistratura) negli organismi internazionali delle Nazioni Unite. Questi “sociologi rossi” sono anch’essi  una delle tante zavorre che ci tiriamo dietro dal ’68?

IN EMILIA- ROMAGNA IL SETTORE MANIFATTURIERO ESPELLE MIGLIAIA DI LAVORATORI
Esiste una sorta di Club per Supericchi che si chiama “High Net Worth Individual”, per accedervi occorre possedere un piccolo requisito: avere la diponibilità finanziaria di almeno 500 mila euro all’anno. A Bologna, le famiglie che potrebbero far parte di questa allegra congrega sono ben 14.458, per un patrimonio (senza contare gli immobili) di 23,9 miliardi di euro. Questi bolognesi che hanno la “sfortuna di avere tanti soldi” possegono ben il 25,7% della ricchezza regionale. In questo gruppo di “gruzzolari” (detentori di gruzzolo) ci sono famiglie che accumulano soldi da redditi immobiliari, ma anche da aziende che darebbero segni di ripresa. Se guardassimo distrattamente a questi dati, potremmo affermare che, nonostante la crisi, qualcosa si sta muovendo. Ma questa ricchezza concentrata, sta a dimostrare,  che a ricavarne benessere sono sempre fasce più ristrette di popolazione: si tratta di una ricchezza di pochi e concentrata solo in alcuni luoghi, che produce pesanti differenze e la distanza da chi, a causa della crisi, ha visto la sua vita stravolgersi (in peggio).
Noi, però, siamo infarciti del pessimismo  che contraddistingue i “distruttivi comunisti”; in fin dei conti, guardando la questione con l’ottimismo da “bicchiere mezzo pieno” si potrebbe affermare che i 14.458 bolognesi che se la passano bene son meno concorrenza per cassintegrati, lavoratori in mobilità, precari e disoccupati che devono pensare come arrivare alla fine del mese, tra sconti della Coop, aiuti delle parrocchie, domande per le riduzioni sulle tariffe pubbliche.
Eh sì, perché in Emilia-Romagna, rispetto allo scorso anno, non sono cresciuti solo i patrimoni in contanti (+ 4,18%), ma pure qualche altro fenomeno.
Nei primi nove mesi del 2009, la cassa integrazione ordinaria in regione è aumentata dell’820% e quella straordinaria del 186% (sono dati provenienti dall’ultimo rapporto congiunturale dell’Emilia-Romagna redatto da Unioncamere, Confindustria e Carisbo).
Secondo l’Osservatorio del Mercato del Lavoro della CGIL, in tutta la provincia di Bologna i cassintegrati sono 32.700.
Nel mese di settembre l’INPS ha autorizzato, nel nostro territorio,  1 milione e 986.965 ore di cassa integrazione ordinaria (il 50% in più di quelle che erano state autorizzate a giugno). Nel 2008 le ore autorizzate erano state 1 milione e 400 mila, nei primi nove mesi dell’anno 2009 sono salite a 8 milioni e 800 mila,
Nel terzo trimestre 2009 (da luglio a settembre) le aziende che hanno annunciato lo stato di crisi sono 1.151 nei paesi della provincia e 194 nella città di Bologna (per un totale di 1.345). Stanno adottando cassa integrazione ordinaria, cassa integrazione speciale, cassa in deroga e altri ammortizzatori sociali: in questi provvedimenti sono coinvolti 25 mila lavoratori nei paesi della provincia  e 7.700 per la città di Bologna.
Nella Zona Bazzanese i cassintegrati sono 6.000, così come nella Zona Persicetana; anche nella Zona di Casalecchio i cassintegrati sono 6.000 mentre le aziende in crisi sono 281; nella Zona Reno-Galliera le aziende in crisi  sono 197, i cassintegrati 5.000; nella Zona di Budrio in 4.000 sono coinvolti in provvedimenti di cassa integrazione, mentre nella Zona di San Lazzaro  sono 2.500 e in quella di Vergato1.500.
Se vogliamo entrare ancora di più nel dettaglio, a Calderara le aziende in crisi sono 99 e i cassintegrati 3.200; a San Giovanni in Persiceto le aziende sono 57 e i cassintegrati 850; ad Anzola 45 aziende in crisi, 900 cassintegrati a casa (di cui solo 200 alla Bignami Pollami); a Sala Bolognese le aziende sono 44, i lavoratori in cig 450; a Creavalcore ci sono 25 aziende in crisi con 600 cassintegrati; a Sant’Agata bolognese 18 aziende e 200 lavoratori in cig; a Pianoro 44 aziende in difficoltà per 1.500 cassintegrati; a San Lazzaro  di Savena sono 42  le aziende che utilizzano gli ammortizzatori sociali coinvolgendo 500 lavoratori; ad Ozzano Emilia le aziende in crisi sono 38, per un totale di 500 dipendenti in cassa integrazione (51 alla sola Calderini).
La cassa integrazione colpisce a macchia di leopardo, ecco alcuni esempi: a Casalecchio hanno dichiarato lo stato di crisi la Marzocchi (100 dipendenti su 140 in cig), la  Fanti (47 su 110),  la Morini (70 dipendenti); a Zola Predosa la Marzocchi (176 su 209), la Verlicchi (190 su 220), la Fini Compressori 130 su 230); a Bazzano la MecTrac (350 dipendenti in cig), la TTE (ha fatto contratti di solidarietà per 45 dipendenti), alla Mape 145 lavorano solo due giorni la settimana.

QUEL “PATTO PER ATTRAVERSARE LA CRISI” NON RISPETTATO DAI PADRONI
cassaintegrazioneLungo la via Emilia, la Giunta guidata da Vasco Errani ha promosso un “Patto per attraversare la crisi” che prevedeva l’impegno degli industriali a mantenere gli attuali livelli occupazionali, ma molte imprese hanno sgattaiolato rispetto agli accordi firmati ai tavoli di trattativa regionali.
Per quanto riguarda la CNH di Imola, la fabbrica di trattori e macchine movimento terra del gruppo FIAT al centro di una dura lotta nei mesi scorsi contro la dismissione del sito produttivo, dopo l’accordo raggiunto tra sindacati e direzione del gruppo, l’azienda era tenuta a garantire la rotazione dei lavoratori in cassa integrazione, ma non lo sta facendo.
Alla Dimac di Ponte Rizzoli (Ozzano) i lavoratori stanno attuando un blocco ad oltranza dello stabilimento con l’obiettivo di salvare i posti di lavoro. Dopo la richiesta di mettere tutti i 65 dipendenti a zero ore in cassa integrazione straordinaria, l’azienda, in seguito alla mobilitazione dei lavoratori, era arrivata a proposte più “miti”: per 25 operai la cig a zero ore, mentre per gli altri addetti la cassa a rotazione. Ma la Fiom e la RSU di frabbrica chiedano che la cig a rotazione coinvolga tutti i lavoratori, per far sì che l’elenco di un gruppo di dipendenti a zero ore, stilato dall’azienda, non sia l’anticamera di licenziamenti per esubero di personale.
Ha dichiarato fallimento la Res&Dev di Loiano, azienda che operava nel settore elettronico. I 47 dipendenti che erano in cassa integrazione straordinaria a zero ore dal mese di agosto, sono adesso definitivamente fuori dallo stabilimento. La cosa curiosa in questa vicenda è che il padrone della Rev&Dev, mentre portava i libri in tribunale per il fallimento, è entrato nel consiglio di amministrazione di un’azienda che era stata sua fornitrice e ha rilevato un’altra fabbrica che opera nel territorio della provincia di Bologna. Che tutto ciò puzzi di imbroglio ne sono convinti in tanti.
In queste settimane, in più di un’occasione, i cittadini bolognesi hanno visto nelle strade e nelle piazze del centro storico, gli striscioni dei lavoratori e delle lavoratrici di Phonomedia, la società di call center con sede a Casalecchio, che ha dichiarato la situazione di crisi. La proprietà ha mal sopportato questa “visibilità negativa” causata dai suoi dipendenti, ma gli stessi hanno rammentato che scioperi e manifestazioni sono causati dal fatto che, dal mese d’agosto, la maggior parte di loro non riceve lo stipendio. E in attesa che parta il confronto tra organizzazioni sindacali e impresa al tavolo di crisi della Provincia, i dipendenti qualcosa sulla tavola tutti i giorni ce la devono mettere.
“Il silenzio è colpevole”, da questo slogan scritto sullo striscione che i lavoratori della Caterpillar di Minerbio utilizzano durante gli scioperi, emerge quale sia il loro stato d’animo e la loro rabbia nei confronti della direzione aziendale che, quatta quatta, cerca di far calare sulle loro teste la mannaia dei licenziamenti. L’azienda fa parte della omonima multinazionale con sede a Minneapolis, nello stabilimento di Minerbio si producono macchine per la pavimentazione e per l’asfaltatura. Rispetto  a quello che avviene in tante altre fabbriche della provincia, la Caterpillar ha ben pensato di andare controcorrente: nelle altre imprese stanno falciando i posti di lavoro a partire dai settori delle produzione, la Catterpillar invece ha lasciato fuori dai cancelli i progettisti (a cui ha disabilitato il badge di entrata allo stabilimento) perché intende trasferire il settore della progettazione negli Stati Uniti. Ma i lavoratori sanno che produzione e progettazione sono due funzioni che devono restare collegate. Davanti ai cancelli della fabbrica il bisogno dell’unità tra operai e impiegati viene ribadito con chiarezza: “Se vengono licenziati i progettisti. La stessa sorte toccherà subito dopo agli operai”.
Un’altra situazione paradossale è quella della Fini Compressori di Zola Predosa. Dopo mesi di scontro tra lavoratori e azienda sui piani di ristrutturazione della proprietà che prevedevano un forte ridimensionamento dello stabilimento bolognese con lo spostamento di reparti in altri luoghi e in altri paesi, Fini accettava di non mettere in mobilità (quindi fuori definitivamente dalla fabbrica) 130 lavoratori sui 230 rimasti (un primo gruppo di dipendenti era già stato espulso negli anni passati), ma di attuare la Cassa integrazione in deroga (in seguito a un accordo avvenuto al tavolo di crisi della Regione). I lavoratori sono tornati in sciopero e a presidiare i cancelli lo scorso 5 novembre, perché hanno scoperto che durante le giornate di cassa integrazione l’azienda smontava e portava via macchinari.

CONFINDUSTRIA UTILIZZA LA CRISI PER TAGLIARE GLI ORGANICI E AUMENTARE LA PRECARIETA’
Quello che sta accadendo nelle fabbriche della Provincia e della Regione è qualcosa che non si è mai visto durante le crisi passate. E’ sempre più evidente che gli industriali stanno facendo pressione sugli enti locali per avere riduzioni di tasse, semplificazione delle procedure, facilitazioni con le banche, finanziamenti a tassi agevolati per anticipare le somme della CIG ai lavoratori,  ma, al tempo stesso, non intendono garantire il posto di lavoro ai propri dipendenti, anzi… E’ ormai chiaro il tentativo di Confindustria di utilizzare la crisi per ridemensionare fortemente gli organici un tempo occupati nei vari comparti manifatturieri, per smantellare interi reparti produttivi e trasferirli all’estero, per precarizzare ai massimi livelli la mano d’opera che resterà nelle aziende alla fine dei processi di ristrutturazione.
La cosa paradossale è che chi parla di segnali di ripresa o del fatto che i periodi più bui della crisi sarebbero ormai dietro alle spalle, non è minimamente interessato alle condizioni di vita dei tanti soggetti (più deboli) che dalla crisi sono stati massacrati. I lavoratori e i loro redditi, sembrano non essere una questione legata ad una eventaule ripresa economica. Non sembra nemmeno preoccupare il fatto che la riduzione in uno stato di povertà di centinaia di migliaia di persone possa produrre sommovimenti sociali non facilmente controllabili. Molto spesso per confutare questa equazione si porta ad esempio la situazione del milione e duecento mila americani che, a causa della crisi, ha perso la casa e non per questo la situazione di essere senza tetto li ha portati ad organizzare rivolte.
Le proposte che i sindacati hanno avanzato fino ad ora sembrano molto deboli: i dirigenti della CGIL locale insistono nella richiesta di raddoppiare le 52 settimane di cassa integrazione ordinaria e portarle a 104, mentre il segretario della CISL parla di allargare la cassa integrazione ordinaria alle imprese artigiane e di utilizzare i contributi del Fondo Sociale Europeo per aiutare i cassintegrati a riconvertirsi sul mercato. Nessuno che parli di salario garantito o di reddito di cittadinaza, nessuno che proponga qualcosa di serio per tutelare i precari, nessuno che metta in piedi (in maniera organica e permanente) casse di resistenza o strutture di mutuo soccorso per sostenere le lotte e i singoli lavoratori colpiti. Non a caso, i dirigenti della Cisl dicono che più che organizzare scioperi per rilanciare le imprese, bisogna guardare al futuro con progetti di sviluppo, confondendo sempre di più il ruolo che dovrebbero svolgere (difendere gli interessi dei lavoratori) con quello di reggicoda degli interessi confindustriali.
Del resto, il vuoto di iniziative di lotta e di battaglie politiche e sociali non può essere surrogato solo con le arrampicate sui tetti e sulle gru. Queste “inusuali” proteste che si sono ripetute dopo la vicenda della INNSE stanno a significare che la forma di lotta sindacale tradizionale (lo sciopero) ha perso la sua efficacia, quando sono i padroni a chiudere i reparti e a fermare la produzione; che le manifestazioni sindacali classiche non riescono a rompere il muro di omertà che i media hanno costruito nei confronti del disagio sociale che stanno vivendo i lavoratori. Certo, dall’alto della gru, gli operai della INNSE hanno tracciato un nuovo orizzonte di speranza, riattivando per qualche settimana la solidarietà e diverse situazioni di resistenza operaia. Ma il ripetersi per emoluzione delle successive arrampicate sui cornicioni, sulle terrazze, sui tetti di aziende e uffici pubblici, insieme agli scioperi della fame e agli incatenamenti è stato più il segno di una disperazione che si sta allargando, piuttosto che l’inizio di una nuova ondata di lotte e di conflittualità sociale.
Alla solitudine che prova un cassintegrato o un operaio che ha perso il posto di lavoro o una precaria a cui non è stato rinnovato il contratto, fino ad oggi non sono state trovate tante alternative, reti di solidarietà territoriale per sostenere le lotte e le persone che sono rimaste colpite non ne sono nate molte. Se un tempo bastava l’identità di classe per far scattare la molla della partecipazione alle lotte, oggi è attraverso l’auto-aiuto e il muto soccorso che si possono sostenere le forme della resistenza sociale, assolutamente necessarie… quasi come l’ossigeno per respirare.

> Leggi la prima parte dell’inchiesta: Come sarà l’atunno?