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Il calvario di Reuf, l’operaio albanese “ucciso tre volte”

Il 21 marzo 2002, in un cantiere dell’Università moriva sepolto dal terreno, smottato improvvisamente, un giovane muratore albanese che lavorava in nero. Questa è la storia della sua tragedia e dei patimenti dei suoi famigliari.

22 Marzo 2010 - 13:37

Nella giornata di ieri sono passati otto anni da quel 21 marzo 2002, dalla morte di Reuf Islamaj, operaio albanese di 29 anni, venuto in Italia in cerca di una speranza, che, come tanti altri migranti in fuga dalla miseria e dalla povertà, aveva accettato di lavorare senza protezione, senza sicurezza, senza alcun diritto in un cantiere edile di Bologna.
Reuf si occupava, come si dice in termini tecnico-progettuali, “dell’adeguamento igienico funzionale dell’edificio di Via Ranzani”. In poche parole  delle fogne delle nuove aule di una Facoltà universitaria in costruzione.
Il cantiere dove Reuf Islamaj morì, era quindi un cantiere dell’Università dove si poteva lavorare in nero: questa circostanza era paradossalmente considerata “normale” e, quindi, non ci fu molto scalpore sul fatto che si potesse morire sotto quattro metri di terra in un cantiere di una istituzione pubblica,.
Reuf Islamaj prestava la sua opera presso la ditta Logalba di San Pietro in Casale; era una ditta che lavorava in subappalto rispetto a un’altra ditta, la Guerra Costruzioni di Mercatale, di Ozzano Emilia; quell’azienda edile aveva ricevuto anch’essa un subappalto da parte della società Irnerio che, all’epoca, aveva come soci (più del 99 percento di capitale) la Fondazione Tosa Montanari e l’Università di Bologna. Quindi, la società Irnerio, di cui l’Università era socio di maggioranza, lavorava in un cantiere per realizzare un’opera per l’Università, con un’allucinante catena di subappalti all’interno della quale si era verificato il tragico incidente di cui Reuf (l’anello più debole della catena) era rimasto vittima. La cosa ignobile fu poi che il legale rappresentante della ditta Logalba ebbe il coraggio di dichiare, subito dopo la morte di Reuf, che l’operaio albanese era al suo primo giorno di lavoro: quindi era per quello che non era in regola. Che si trattasse di una grossolana bugia, di una becera menzogna, risultò evidente da tutte le testimonianze dei colleghi di lavoro che dichiararono come Reuf lavorasse in nero in quel cantiere da diverse settimane.
Non furono in molti ad alzare la voce contro quella morte, il Bologna Social Forum, qualche consigliere comunale dell’allora sinistra radicale, l’associazione italo-albanese “Skanderberg”: la scomparsa di un giovane operaio, venuto in questo Paese senza il permesso di soggiorno, per riempire le tasche di chi l’aveva preso a lavorare in nero, facendo ingrassare padroni e padroncini della nostra terra, era ormai considerata una costante del sistema economico legato alle “regole” della globalizzazione.
Fino all’omicidio “bianco” di Reuf Islamaj, istituzioni, media, classe politica ed imprenditoriale, coi loro atteggiamenti avevano chiuso entrambi gli occhi sul fatto che in alcune zone della periferia della ricca Bologna si tenesse una vera e propria tratta delle braccia. Il fenomeno del caporalato da sempre descritto come una caratteristica del nostro meridione degli anni Cinquanta e Sessanta, era invece spuntato nella Bologna del terzo millennio e coinvolgeva tanti lavoratori migranti che, ogni mattina, venivano reclutati e portati a sgobbare per pochi euro a giornata nei cantieri edili della città.
Ecco perché l’incidente mortale di via Ranzani, anche se avvenuto in un cantiere edile pubblico, non destò scandalo. D’altro canto, il Comune non aveva mai avviato una campagna di controlli sui luoghi di lavoro per verificare le condizioni di lavoro dei migranti e l’eventuale sfruttamento di manodopera “clandestina”.

LA PRIMA BEFFA
E non fu quindi un caso che, poco più di un mese dalla morte di Reuf, si verificasse la prima beffa alla sua memoria. In una sala della Provincia di Bologna venne organizzato un convegno sulle normative in materia di sicurezza nei cantieri edili: tra i promotori del convegno c’era la stessa ditta capofila del cantiere di via Ranzani, quel luogo di lavoro in cui le stesse normative erano state scandalosamente violate.

Per quanto riguarda l’aspetto giudiziario di questo tragico caso, Giuseppe Chimisso che da presidente dell’Associazione Skanderberg ha seguito l’intera vicenda ce lo racconta in questo modo: “La famiglia di Reuf in preda al dolore, con scarsa conoscenza non solo della lingua italiana, ma anche dei meccanismi giudiziari relativi alla tragica morte del figlio, è caduta inconsapevolmente in un becero e dispendioso meccanismo di “subappalto” della propria tutela legale che fa capo ad un’agenzia infortunistica e che viene passata a diversi legali. Ma questo non è tutto. L’infortunistica si è fatta riconoscere dalla famiglia, ancora stordita dalla tragedia, il 25% dell’indennizzo o del risarcimento futuro, al netto delle parcelle dei professionisti (medici, consulenti, avvocati) ed una penale, prima della quantificazione del danno da parte del Tribunale, di 25.000 euro in caso di revoca del mandato”.

LA SECONDA BEFFA
Dopo tre anni, il 13 giugno 2005, si arriva finalmente al pronunciamento della magistratura: il giudice monocratico Melania Bellini condanna a otto mesi per omicidio colposo (pena sospesa) Carlo Giambanco, il responsabile-sicurezza nel cantiere della ditta Lo Galbo di San Pietro in Casale. Giambanco avrebbe dovuto versare anche un risarcimento di 60 mila euro ai genitori di Reuf (assistiti dall’avvocato Giovanni Scudellari di Ravenna) e altri 55 mila ai cinque fratelli della vittima. In più, dato che Reuf era in Italia senza permesso di soggiorno, il giudice ha condannato Giambanco e il titolare della ditta – Antonino Lo Galbo – ad un’ammenda di 3000 euro per l’ impiego di manodopera clandestina.
Alla vita di un operaio albanese venuto a Bologna per lavorare e tornato al suo paese chiuso in una cassa di legno è stato dato, dunque, un valore 115 mila euro.

L’infausto meccanismo di “subappalto” della tutela legale, denunciato prima da Chimisso ha prodotto, quindi, frutti amari. E’ ancora il presidente dell’Associazione Skandeeberg a parlare: “Nel dispositivo della sentenza il giudice monocratico ha scritto che così, come è stata formulata, la costituzione di parte civile è genericissima. Fondata solo sulla deduzione di parentel,a ha consentito di liquidare il danno morale, impedendo di attribuire una benché minima parvenza al ‘lucro cessante’. Il giudice è stato costretto a ripetere che la mancata allegazione di un più pregnante rapporto ha consentito di liquidare solo il danno morale, il dolore, di aver saputo del congiunto morto lontano e in quelle circostanze disgraziatissime. Oltre alla spese processuali, sono stat, di conseguenza, riconosciuti ai genitori solo 30 mila euro ciascuno, e 11 mila euro a ciascun componente familiare restante. Il giudice non ha potuto fare altro e, suo malgrado, un’altra beffa si è compiuta”.

LA TERZA BEFFA
Un mese più tardi la sentenza di condanna, il responsabile della ditta subappaltatrice ha venduto alla moglie l’immobile in comproprietà cambiando il regime patrimoniale (da comunione a separazione dei beni), consapevole di tutelarsi, così facendo, dai suoi creditori ed in specie dalla famiglia di Reuf
I parenti di Reuf, solo dopo più di cinque anni dalla sua morte, alla fine del 2007, sono riusciti ad avere otto assegni dalla ditta condannata al risarcimento, per un totale di 9.998,50 euro, e, successivamente, la ditta ha pagato un acconto di 30 mila euro mai giunto alla famiglia. Dopo di che, più niente. I responsabili della ditta tergiversano adducendo a problemi di liquidità per via della crisi; poi, nel marzo del 2009, si proclamano estranei a qualsivoglia altro risarcimento, dichiarando fallimento.
La famiglia di Reuf, inconsapevole, è caduta in un umiliante vortice e si domanda ancora il perché; i legali speravano di far revocare l’atto di vendita degli immobili per via giudiziaria, invano; sperano ora di inserire il credito che vanta la famiglia, nei confronti della ditta, presso il curatore fallimentare.
Giuseppe Chimisso ha cominciato a scrivere articoli sulla vicenda e li ha mandati a giornali albanesi; spera che siano pubblicati per poi mandare le fotocopie al Curatore fallimentare della ditta di Lo Galbo & C, così da fare presente che dell’argomento se ne parla ancora e rafforzare l’azione tardiva dei legali che si apprestano a richiedere “l’insinuazione dello Stato Passivo della liquidazione “ della ditta.
La povera famiglia di Reuf avanza ancora 85 mila euro, ne ha ricevuti circa 10 mila e non sa che fine hanno fatto altri 30 mila euro. Per quest’ultima cifra i legali hanno promesso che diranno qualcosa a Chimisso, fino ad ora però non hanno fatto sapere nulla.
Per di più, effetto dell’approssimazione che ha viziato dall’inizio l’azione di tutela legale, Irena Hoxha, sorella di Reuf, si è vista costretta a non essere più creditrice dei miseri 11 mila perché a suo tempo, nel 2007, non ha reiterato la domanda e nessun legale le ha consigliato di farlo.
Adesso, per i parenti di Reuf residenti in Italia e a Valona, l’ultima speranza di avere un qualche rimborso sta nel firmare la richiesta di credito nel fallimento della Lo Galbo & C. Se va bene, saranno considerati “creditori chirografari”.
In un fallimento, coi soldi che il curatore fallimentare riesce a raccogliere, ci sono i cosiddetti “creditori privilegiati” (tipo il Ministero del Tesoro per il pagamento delle tasse rimaste non pagate, i dipendenti per i loro stipendi o il locatore per gli affitti), per questi la legge fissa un rimborso prima degli altri. Per quanto riguarda gli altri, ai quali la legge non offre un privilegio, sono detti creditori chirografari. Se dopo il pagamento dei debiti privilegiati avanza un residuo, ricevono una quota calcolata facendo il rapporto tra l’ammontare del credito di ognuno di loro e l’ammontare globale della somma che avanza e da distribuire.
Insomma, sta nell’ordine delle cose, che se di questa vicenda nessuno se ne occupa a livello politico, la sfortunata famiglia di Reuf non riceverà più alcuno rimborso per la sua morte.

E così Reuf è stato “ucciso” tre volte. A otto anni dalla tragedia, il calvario continua. Quante volte dovrà morire ancora Reuf Islamaj?
Il 21 marzo, in via Ranzani, né targhe, né cerimonie, qualcuno per ricordare Reuf ha portato un mazzo di fiori.