Editoriale

Editoriale / Gli utili, gli irresponsabili, le coscienze sporche

Qualche punto fermo su che diritto abbia un europarlamentare d’entrare in casa altrui, sulla ciarla per cui la contestazione a Salvini avrebbe favorito la Lega e sulla storia, che nessuno ricorda, del campo di via Erbosa.

10 Novembre 2014 - 13:40
Presidio Salvini (foto da twitter @Waggish_P)
Il blocco di polizia sabato al presidio contro Salvini (foto da twitter @Waggish_P)

Tra ieri ed oggi, molti “esperti di politica” sul web hanno scritto che la protesta contro la Lega Nord e la cacciata dal Campo di via Erbosa del suo segretario, Matteo Salvini, è stato un regalo ai “fazzoletti verdi”, che produrrà una sbaraccata di voti per i leghisti. Salvini sarebbe stato un abile professionista nel gettare l’amo e gli attivisti dei centri sociali degli “utili idioti”, dei dilettanti, nell’abboccare alla sua provocazione.
Fa specie che tra i tanti commentatori, più o meno raffazzonati, nessuno abbia voluto chiedersi se Salvini, al di là della sua sfida xenofoba e razzista, in quel Campo ci potesse entrare.

Noi pensiamo di no e, quindi, la responsabilità di quello che è accaduto è di chi, a Salvini e a Lucia Borgonzoni, ha dato l’autorizzazione a “compiere una visita ispettiva”, in quanto parlamentare europeo e consigliera comunale. La colpa, insomma, oltre che dei leghisti, è del Comune e della Prefettura.

Il cosiddetto “campo nomadi” di via Erbosa è un luogo dove dei cittadini di origine “sinta” abitano e vivono da più di vent’anni. Parliamo di sinti e non di rom, come strumentalmente hanno continuato a fare i giornali e i leghisti, cioè di persone stanziali. Si tratta di una popolazione di circa trentamila uomini, donne e bambini, che vivono sparsi tra il nord e il centro Italia, e i cui antenati arrivarono nel nostro paese all’inizio del 1400. Sono i depositari del più antico dei mestieri gitani, quello dei giostrai. Un lavoro che, però, sta scomparendo. Perciò si sono trasformati in rottamatori di oggetti recuperati tra i rifiuti o svolgono diversi lavoretti precari.

La maggior parte delle persone che abitano in via Erbosa sono nate a Bologna, lì sono residenti. Quindi il Campo, anche se è di proprietà comunale, è il loro domicilio e la loro dimora… è la loro casa.
Se un giorno un parlamentare leghista chiedesse di entrare in “visita ispettiva” negli gli alloggi di un condominio ACER, per vedere come il Comune ha speso i soldi dei contribuenti per dare una casa popolare a un immigrato o un meridionale, il permesso glielo darebbero?

Tutti i grandi soloni della legalità dovrebbero saperlo che per entrare in casa di qualcuno ci vuole il suo permesso, oppure lo fa la polizia con un mandato. In via Erbosa che i leghisti non fossero graditi lo avevano espresso in maniera colorita, ma indubbiamente chiara, gli abitanti del campo la scorsa settimana. Il fatto che ci siano voluti tornare, accompagnati dal loro leader nazionale, non legittima questo abuso. Nessuno che avesse l’autorità istituzionale ha voluto impedirlo.
Per fortuna, c’è stato qualcuno che si è preso la responsabilità di dire che, in questa città, il razzismo e la xenofobia non sono tollerati, che i fascismi, vecchi e nuovi, di Casa Pound, di Forza Nuova o delle Lega, vanno combattuti. E si è comportato di conseguenza.

Oggi, sempre di più, i partiti parlamentari assomigliano a una poltiglia indistinta. Le forme della politica istituzionale sono una delega in bianco ad alcuni “uomini soli al comando” che vedono la partecipazione, la rivendicazione dei propri diritti e il conflitto sociale come istanze da azzittire e smantellare. Le loro politiche e le loro prese di posizione ci vorrebbero convincere che siamo tutti sulla stessa barca, che non ci sono più i padroni e gli operai, che tutti siamo produttori e che non ha più senso individuare nei propri datori di lavoro degli avversari contro cui lottare.
Se proprio si vuole prendersela con qualcuno, bisogna farlo con chi ha i tuoi stessi problemi o con chi sta peggio di te.

In questi anni, nelle tante situazioni di crisi, si sono viste le difficoltà a costruire lotte. Troppo spesso abbiamo incontrato una diffidenza diffusa, una frammentazione lacerante e, nel mare della disperazione, logiche da “si salvi chi può”. Forze politiche come la Lega Nord hanno, a più riprese, tentato di iniettare il virus della guerra tra poveri, pescando in una situazione sociale, in cui, a causa delle politiche di austerità dettate dalla Troika, si sgomita tra lavoratori migranti e autoctoni, tra stabilimenti che si salvano e quelli che si chiudono, tra chi ha il posto fisso e chi lo ha flessibile, tra chi è in cassa integrazione e chi lavora in nero o il lavoro non ce l’ha. Il modo migliore per azzerare le rivendicazioni sui diritti negati è stato diffondere il più possibile vergogna e senso di colpa per non essere stati all’altezza e, al tempo stesso, indicare il nemico, non nel sistema di potere finanziario e produttivo, ma negli immigrati e negli ultimi.

Queste sono le ragioni per cui la Lega, cercando di imitare il Front National francese (magari imbarcando i fascisti di Casapound e Fratelli d’Italia), vuole fare incetta di voti nei settori popolari. Se è in crescita è perché sono mancate politiche adeguate ai bisogni dei ceti più deboli della popolazione. Le balle sulle contestazione dei centri sociali che provocherebbero valanghe di voti per i leghisti sono i tentativi di lavarsi la coscienza per chi queste balle le racconta.

Campo di via Gobetti, dopo la strage
Il campo di via Gobetti, dopo la strage del 1990

Detto ciò, va pure narrata la storia del Campo di Via Erbosa. Questo tipo di situazione abitativa provvisoria fu proposto alle famiglie dei sinti, dopo due attentati della Banda della Uno Bianca, nel 1990.

Il 10 dicembre 1990, a Santa Caterina di Quarto, in un accampamento di rom e sinti, la Banda dei fratelli Savi sparò all’impazzata colpi di mitraglietta contro le roulotte, provocando il ferimento di nove persone.

Il 23 dicembre 1990 i killer della Uno Bianca tornarono a sparare contro gli zingari, al campo di Via Gobetti, uccidendo Rodolfo Bellinati e Patrizia della Santina e ferendo anche un’altra donna.

Pochi giorni dopo la sparatoria, una zingara, presente nel campo al momento dell’agguato, fu chiamata in Questura a testimoniare. Tra i poliziotti presenti in Piazza Galileo riconobbe uno degli aggressori: era Roberto Savi, ma nessuno le diede ascolto. Tutti uguali davanti alla morte, ma non davanti agli inquirenti: la testimonianza portata in quell’occasione fu ascoltata come si fa con un bambino che sostiene di aver visto il lupo mannaro.

Ai funerali dei due nomadi uccisi dai killer della Uno Bianca erano presenti poche centinaia di persone. Fu una vergogna per Bologna. In quel momento affiorò visibilmente l’indifferenza sociale e il razzismo perbenista alla petroniana. E il freddo di una giornata terribile e triste si trasformò subito in gelo: forse per i più non valeva rendere omaggio a una coppia di zingari “brutti sporchi e cattivi”.

Negli anni successivi, come risposta istituzionale all’emergenza terroristica della Uno Bianca, il campo di Santa Caterina, divenne un centro di prima accoglienza per immigrati rom Jugoslavi. Rimase aperto fino al 3 aprile del 2000, quando, nell’incendio della loro roulotte, morirono due bambini: Alex e Amanda.

Nel campo di via Erbosa, invece, furono trasferiti i parenti dei due nomadi assassinati in via Gobetti. Dovevano restarvi per un periodo limitato di tempo, prima di essere inseriti in un percorso che li avrebbe portati all’assegnazione di alloggi ERP. Sono ancora lì.

In questi vent’anni e più abbiamo visto come l’emergenza sia sfociata in un’emergenza permanente, quella repressiva come quella dei percorsi di inserimento. La mancanza di dialogo e di mediazione, l’autoreferenzialità delle istituzioni, la settorializzazione e il mancato coordinamento degli interventi pubblici, hanno solo raffinato i meccanismi permanenti dell’esclusione e dell’emergenza istituzionale, funzionale solo a se stessa.

L’espulsione è stata la strategia primaria dell’esclusione, ma pure l’eternizzazione degli interventi è stata la strategia lenta, sistematica e giustificata dalla logica del meno peggio per continuare ad escludere.

Abbiamo assistito per decenni a un intervento pubblico privo di prospettive e di progettualità, che ha nutrito le dinamiche dell’esclusione, prolungando all’infinito i tempi della sua azione, annullando nel “sistema campo” le persone. E’ stato un intervento pubblico che ha “assistenzializzato”, ricattato, penalizzato, quasi a volersi vendicare dell’accoglienza.

I campi nomadi sono diventati dei centri perversi e distorti dai quali non si esce mai. La maggior parte degli interventi sono stati degli insuccessi, causati da false informazioni, corrispondenti alla propria percezione e non basate sul sapere ascoltato.

Nell’ultima fase, gli interventi sono stati marcati fortemente dalle logiche securitarie. A causa di notizie di ogni genere, tese a dimostrare la natura non correggibile degli zingari, si è rafforzata una logica della sicurezza che ovviamente ha guardato qualsiasi cosa meno che la sicurezza dello zingaro, dell’immigrato, dell’altro.

Chiamando continuamente in causa la legalità/illegalità, dentro la quale possono trovarsi o meno gli zingari, è stata legittimata l’impostazione di interventi basati principalmente sul controllo. La mancanza di proposte per il lavoro e la discriminazione dei redditi informali hanno, poi, impedito, nei fatti, quei percorsi di mobilità sociale, di cui si parlò più di vent’anni fa, quando il campo fu istituito.
Di questo si dovrebbe parlare, altro che delle banalità lette in questi giorni.

In quel dicembre insaguinato del 1990 l’intento dei killer della Uno Bianca era l’eliminazione fisica e la correzione con il terrore di soggetti concepiti come diversi, non omologabili, nemmeno degni di essere ascoltati. A tanti anni di distanza, sui siti e sulle pagine fecebook dei leghisti, si leggono ancora dei propositi che i fratelli Savi fecero diventare una macabra realtà.

E nella sinistra da salotto c’è chi dice che il problema sono i centri sociali… ma per favore…