Editoriale

Editoriale / Chi strumentalizza chi?

E’ tempo di chiedersi perché politici, amministratori, opinionisti, magistrati e questurini si indignano tutti in coro per il ruolo dei collettivi indipendenti nel supportare occupazioni e lotte per l’abitare.

09 Dicembre 2014 - 10:57
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Occupazione di via Fioravanti 27 – © Michele Lapini

Cominciamo con uno sfogo: non se ne può veramente più.

Ci sono tre verbi che, in queste settimane, hanno sbaragliato tutti gli altri quando, sui media, viene trattato il tema delle occupazioni abitative. “Strumentalizzare” “speculare” “cavalcare” vengono usati, come e più del prezzemolo in cucina, da amministratori pubblici, politici, esponenti religiosi, editorialisti, magistrati e funzionari della questura.

 

Ce li troviamo ovunque, nei servizi e nelle interviste televisive, nei titoli e negli articoli dei giornali, quasi in ogni maledetto capoverso. E’ un cancan assordante: “chi promuove e organizza le occupazioni strumentalizza gli immigrati, specula sulla disperazione della povera gente, cavalca la miseria in una realtà sociale sempre più difficile e preoccupante”.

Ma perché in questo paese e in questa città sembra impensabile che si possa sostenere una lotta giusta e sacrosanta, senza secondi fini?

Perché i nostri governanti e i nostri amministratori, spesso intenti a mercanteggiare posizioni politiche con voti di fiducia, a regalare favori in cambio di tangenti, a utilizzare per fini privatissimi soldi pubblici, devono ritenere chi lotta per il diritto alla casa sia uguale a loro? O con la loro indecorosa forma mentis?

Oltre a molte denunce, diversi fogli di via e qualche arresto cosa ci guadagnano i cosiddetti “soliti noti”, “antagonisti“, “autonomi” o “esponenti dei centri sociali”?

I portavoce della Procura, gli assessori, i presidenti di quartiere, il sindaco Merola come fanno a non capirlo?

C’è poi un aspetto ancora più fastidioso. In diverse interviste l’assessora Amelia Frascaroli ha negato che ci possa essere qualsiasi atteggiamento attivo da parte delle persone senza-casa, le ha descritte come se fossero esseri non pensanti, incapaci di reagire alla propria condizione di povertà. Il vicario generale dell’Arcidiocesi di Bologna, monsignor Giovanni Silvagni, ha calcato la mano su questo filone di pensiero: “L’occupazione è un’azione provocatoria e violenta e del tutto ingiustificabile. Di solito non sono i poveri ad agire così, ma gli ideologi che sfruttano la povertà per le loro battaglie politiche”.

Diritto alla casa - © Michele Lapini
Manifestazione per il diritto alla casa – © Michele Lapini

La Frascaroli, in piena ossessione da “complotto dei collettivi”, parla addirittura di “metodo da rastrellamento”: “quelle persone le hanno tirate fuori di casa, magari perché sotto sfratto imminente, e portate a occupare”.

In primo luogo, ci sentiamo di dare un consiglio: prima di far uscire dalla bocca simili affermazioni, bisognerebbe verificare che il cervello fosse attaccato alla presa giusta. Come si fa ad usare la parola “rastrellamento”, sapendo che fa subito venire in mente le retate di uomini, donne e bambini fatte dai nazifascisti durante la guerra di Liberazione?

Ma, soprattutto, come si fa a rifiutare di capire che chi ha perso il lavoro, chi è sfruttato e senza diritti nelle piattaforme della logistica o nei cantieri in nero, chi con la precarietà deve farci i conti tutti i giorni, chi ha avuto lo sfratto perché non ce la fa ad arrivare alla fine del mese e non riesce a pagare l’affitto, non ha bisogno di qualche “agit-prop” che lo arringhi per spiegargli che fa una vita di merda? Lo impara dalla vita che è costretto a fare e, non da una, sia pur consumata, opera di persuasione.

Le occupazioni degli immobili sfitti e abbandonati nascono dagli stati di necessità delle persone. Sono causate dalle mancanze e dagli errori decennali di una classe politica che ha governato questa città, dall’assenza di una politica abitativa a sostegno delle fasce più deboli della popolazione, da chi ha favorito e agevolato la speculazione edilizia ed urbanistica. Poi ci si è messa pure la crisi e tutto l’assetto sociale, così ostinatamente difeso dai vari custodi dell’ordine, è saltato.

L’agire di chi occupa è chiaro, nelle cause, negli obiettivi e nelle forme. Solo un osservatore sterilizzato, mosso da fini strumentali e, badate bene, toccato soprattutto nei suoi interessi, può oscurare tutto ciò e parlare d’altro.

Di fronte alla disperazione e allo sconforto che vengono dalla negazione di un bisogno elementare come è quello di avere un tetto sotto il quale dormire, esprimere solidarietà dovrebbe essere un concetto elementare. Invece, le voci della città che conta sono altre: “pur comprendendo i vari disagi e i problemi delle famiglie che sono senza una casa, il ripristino della legalità va affermato come principio”.

Non occorre essere uno studioso di diritto, basterebbe uno studente di giurisprudenza dei primi anni che abbia fatto l’esame di Diritto Costituzionale, per capire che il principio di legalità non è il più importante dei valori possibili. Sappiamo bene che l’occupazione è un atto illegale, ma il diritto all’esistenza, alla dignità, alla casa, sono garantiti nella Costituzione e in molte carte e trattati internazionali. Non abbiamo indecisioni ad affermare che questi diritti sono più importanti e stanno alla base del principio sacrosanto di giustizia sociale.

Chi è stato al governo della città di Bologna negli ultimi trent’anni si è limitato a ragionare sul fatto che il 70% della popolazione bolognese è rappresentato da proprietari di casa e ha costruito, in tal modo, un muro di indifferenza nei confronti del restante 30% che non la possiede.

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Occupazione via Albiroli 1 – © Michele Lapini

In un mercato immobiliare stretto tra povertà e speculazione, gli interventi pubblici in tema di affitto sociale sono stati scarsi e disorganici: si è voluto favorire il concetto della casa in proprietà (costringendo migliaia di famiglie a indebitarsi con le banche per una vita), non si è voluto riconoscere che vivere in affitto dovrebbe essere riconosciuto come un diritto, per chi si sposta per studio o per lavoro, per chi esce dalla casa familiare e vuole vivere da solo o con amici, per chi mette su famiglia, per chi vuole abitare in una particolare zona della città, per chi non ha i soldi per comprarsi una casa, o anche, semplicemente, non vuole farlo.

Dalla seconda metà degli anni novanta, la fascia degli esclusi e dei dimenticati dalle politiche di welfare si è fatta sempre più ampia: immigrati, nuclei familiari monoreddito, giovani coppie, anziani rimasti soli, giovani senza possibilità di certificazione del reddito, precari, lavoratori e studenti provenienti da altre regioni. Tutti questi soggetti, non trovando adeguate politiche pubbliche, sono stati spesso costretti a situazioni alloggiative vergognose che hanno alimentato la rendita speculativa.

Poi ci si è messa anche la crisi e la situazione si aggravata sempre di più. Negli ultimi anni c’è stato un incremento di circa il 40% degli sfratti, dei quali più del 90% sono per morosità, perché gli inquilini non ce la fanno a pagare. Per via della recessione, le banche si sono “mangiate” un migliaio di appartamenti. I pignoramenti per insolvenza a chi non riesce a pagare le rate del mutuo “prima casa” sono aumentati più del 20%. Ad essere colpiti soprattutto sono coppie separate e persone che hanno perso il posto di lavoro o sono in difficoltà con la loro attività professionale.

Di fronte a questi scenari Frascaroli, Silvagni, la Giunta, la Curia, l’Acer e tutti coloro che li sostengono si sono mai chiesti se hanno fatto quello che era necessario?

La Curia bolognese è una dei più grandi proprietari della città. Ha diversi immobili e luoghi adatti ad ospitare persone senza-casa che sono inutilizzati. Le parole di Papa Francesco a questo proposito erano state molto chiare, come mai sono rimaste lettera morta?

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Occupazione viale Aldini 116 – © Michele Lapini

Per quanto riguarda il Comune, basta solo confrontare il dato delle liste d’attesa per le case popolari della fine degli anni novanta (4000 in graduatoria ERP) e quello attuale che è più del doppio. Si fa presto a capire come una media di 400/500 alloggi che ACER riesce ad assegnare annualmente sia irrisoria e inadeguata. Poi ci sono quelli che in graduatoria ERP non sono ammessi, perché senza reddito e per loro non c’è nemmeno un’attesa infinita.

Interventi per quanto riguarda gli immobili di altri enti pubblici, le migliaia di alloggi privati sfitti, la piaga degli affitti in nero, se ne sono visti col lumicino. Molti annunci, tanta fuffa, pochissimi problemi risolti.

In questi giorni, insieme all‘occupazione della palazzina Telecom di via Fioravanti, promossa da Social Log, ha avuto risalto su Repubblica la notizia del fine lavori, dopo tanti anni, di una palazzina Acer di via Rimesse e la disponibilità di 55 appartamenti Erp. L’articolo evidenziava uno dei tanti casi dei “cantieri infiniti” che caratterizzano le ristrutturazioni di alloggi pubblici: gare d’appalto vinte da ditte che a metà dell’opera chiudono i battenti e abbandonano i lavori, variazioni burocratiche, ricorsi in tribunale, problemi tecnico-amministrativi, questioni con le Sovrintendenze, progetti rifatti, lievitazione dei costi. Sul perché lo sconcio di questi tempi eterni non sia mai cessato l’amministrazione comunale non ha mai fatto autocritica. Ma nemmeno si sono visti molti magistrati a dare un occhio a queste vicende.

La spada della legalità con cui spesso si sono colpiti i più deboli, in questi casi è rimasta a lungo riposta nel fodero.

Ma quella palazzina di via Rimesse ci fa venire in mente anche una grande occupazione avvenuta nella stessa area. La mattina dell’8 novembre del 1998, più di 120 tra donne, uomini e bambini, quasi tutti migranti, aiutati dal Collettivo Senza Frontiere, entrarono in uno stabile IACP vuoto da anni, perché in attesa di ristrutturazione. Dopo tre giorni ci fu l’intervento della polizia e il palazzo venne sgomberato. Fu l’inizio di una lunga giornata di rabbia e di sconforto. Gli uomini, le donne e i bambini, buttati sulla strada, sfilarono in corteo per le vie del centro, fino a piazza Maggiore. In Comune gli assessori e il sindaco non vollero sentire ragioni e, allora, gli sfollati trovarono rifugio in San Petronio, occupando la Basilica. La notizia ebbe un’eco nazionale e, pure allora, non mancarono le reazioni scandalizzate di esponenti politici e religiosi, che, a dire la verità non furono molto diverse da quelle di questi giorni.

Sull’occupazione di San Petronio, Michele Serra, allora era noto per essere stato il direttore del settimanale satirico Cuore, scrisse su Repubblica del 14 novembre ’98, un mini-editoriale dal titolo: «La difficile ricerca della misura», come si trattasse di uno scontro tra “sceriffi e banditi” in una improbabile città del west. Da uno che aveva diretto un “settimanale di resistenza umana” ci si sarebbe aspettati qualcosa di diverso.

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Occupazione via De Maria – © Michele Lapini

Per fortuna, ci fu Stefano Benni che disse la sua: “I veri squatters a Bologna non sono quelli che occupano le case, ma la gente con un sacco di miliardi che si sta comprando Bologna pezzo dopo pezzo. Un tempo le chiese erano luoghi dove venivano accolti i viandanti, i pellegrini, dove si rifugiavano i poveri. Quindi, io non vedo nessuna profanazione. Sono cinque anni che questa città va avanti a sgomberi ed occupazioni, è una città ricca che potrebbe risolvere i suoi problemi, perché le case sfitte ci sono. Non capisco perché ci sia tanta indifferenza rispetto al problema abitativo. Sì, Bologna è razzista come tante altre città d’Italia. E’ diventata razzista perché ha avuto degli esempi di politica che non sono andati in senso contrario. Noi dovremmo avere il coraggio di stracciare l’immagine da cartolina illustrata che Bologna aveva un tempo, perché non è più così. I gesti eclatanti continueranno finché questa Bologna continuerà ad avere cittadini di serie A serie B e serie C”.

Ci sembrano parole che ancora oggi hanno una straordinaria attualità.