Attualità

“E ad un tratto, mi è parso che il bosco cominciasse a camminare…”

Bartleby ripercorre la giornata di lotta in Val di Susa contro la Tav, “con l’intento di voler far sapere a tutti, istituzioni e giornali in primis, che hanno preso un grosso abbaglio”.

06 Luglio 2011 - 22:46

Partiamo da un dato di fatto: quello che abbiamo letto sui giornali il 3 e il 4 luglio non è quello che abbiamo visto in Val Susa. Abbiamo assistito a una mistificazione della realtà che forse non dovrebbe ma ci ha stupiti. Non abbiamo bisogno di ripetere ciò che i comitati No Tav, gli organizzatori della manifestazione, hanno detto per spazzare via ogni dubbio sulla presenza di black bloc, di terroristi, di gruppi di facinorosi. Proviamo a raccontare, con una narrazione corale, cosa è stata per noi la giornata di lotta in Val Susa, con l’intento di voler far sapere a tutti, istituzioni e giornali in primis, che hanno preso un grosso abbaglio (più o meno volontariamente).

Per tutta la giornata abbiamo attraversato strade, paesi, sentieri aggrappati ai fianchi delle montagne, sempre accompagnati dalla presenza di Valsusini sorridenti, determinati e incazzati, che ci spronavano a continuare, che ci indicavano la via verso i sentieri, o la fontanella più vicina. Che ci ringraziavano, anche quando stavamo solo arrivando verso il paese da cui si scendeva alla Maddalena, dove la battaglia era già iniziata.

Mentre ci prepariamo a scendere, una signora del paese rifornisce di maalox chi non ne ha, prepara limoni da portare giù, dà da mangiare a chiunque ne chieda e poi augura buona fortuna, e ringrazia. Un altro signore, settant’anni, un sorriso determinato e un bastone per camminare, che non era di Ramats, ma che conosceva la strada perché c’era già stato il lunedì, parla con un altro, più pratico del luogo, del sentiero da cui saremmo scesi verso le recinzioni del cantiere.

Una lunga fila di persone lungo il sentiero, già molto prima della metà, ci fa capire che là sotto di gente ce n’è davvero tanta. Alcuni stanno risalendo, il viso solcato da lacrime, occhi rossi, limoni in mano. “Là sotto senza maschere non si può stare..”. Tossiscono, e pian piano arriva anche a noi l’odore acre dei lacrimogeni. Decidiamo di scendere comunque, dobbiamo vedere cosa succede, abbiamo l’urgenza di partecipare alla difesa della valle. Veniamo gasati sulla via anche dall’elicottero, ma i vecchi scendono, coprendosi appena il naso e la bocca, sono là quando i fuochi d’artificio fanno capire a tutti noi che chi è davanti è riuscito a forzare il primo sbarramento, e adesso si preme sul secondo. Ci sono ragazzi dell’organizzazione No Tav, con le radioline che permettono loro di comunicare tra tutta la montagna.

Vedo feriti che vengono portati via a braccia. Un ragazzo con il volto coperto di sangue, che continuava a zampillare da sotto il naso. E’ stato colpito da un lacrimogeno, sparato direttamente al volto. Un altro poco dopo, con un dente e il labbro spaccato da una pietra lanciata da un poliziotto, ed un altro ancora con uno squarcio su una guancia.

Per ore, migliaia di persone si danno il cambio nella zona più calda, avanti e indietro per non stare troppo tempo in mezzo al gas. Dopo ore decidiamo di risalire, all’ennesimo lacrimogeno caduto tra i nostri piedi abbiamo bisogno di un po d’aria, di acqua che ormai è finita, e magari di maalox e limoni, finiti anche quelli.

L’aria fresca e dei panini preparati dai Valsusini ci attendono nel paese, ma dopo nemmeno mezz’ora arriva la voce che alcuni blindati stanno risalendo da Exilles. Riprendiamo gli zaini e iniziamo a raggrupparci, ma prima di poter anche solo cominciare a parlamentare, quelli iniziano a caricare nelle strade del paese, prendendosela con chiunque resti lì. Manganellate violente e gratuite per chi voleva tornarsene semplicemente a casa dopo chilometri nelle gambe. Picchiano forte, iniziamo a correre tra le stradine di Ramats verso i boschi, dietro i consigli dei valligiani sempre così complici. “Prendete quel sentiero lassù, è lungo ma non vi beccano”. Io rimango giù, nelle strade di Ramats, non ho ancora raggiunto gli altri sul sentiero. La rabbia mi lascia davanti a loro che intanto aumentano. Arriva un altro plotone e penso ai miei compagni giù. Una signora sui cinquant’anni li riprende con il cellulare. Una manganellata in faccia e la buttano a terra: il marito, io ed un altro compagno ci mettiamo davanti, ci pigliamo qualche manganellata e corriamo via portando con noi la donna in lacrime per la rabbia. Tutto questo non ha avuto senso, bastardi. Raggiungiamo gli altri nel sentiero. Hanno militarizzato anche Ramats.

…si è saputo di pietre che si sono mosse e di alberi che hanno parlato…

Il lunedì leggo sulla Repubblica “per fortuna non c’è stata in Val di Susa una replica dei fatti di Genova di dieci anni fa…a differenza di allora la risposte delle forze dell’ordine è stata ferma ma professionale”; leggo e ho il puzzo del cs addosso che mi attorciglia lo stomaco; leggo ed ho passato ore a correre nei boschi come un animale inseguito, con un elicottero che scendeva così vicino alla mia testa che la sensazione di essere sotto tiro toglieva la lucidità.

E così capita che dopo aver scampato un pericolo ti senti ancora prigioniero, senza voce e impotente di fronte ai teoremi ignobili che vengono enunciati con voce ferma dagli esponenti del Partito Democratico e di ministrucoli spietati. Appare evidente che tolto di mezzo Berlusconi non vi è alcuna differenza di approccio alla politica: il dissenso, per quanto di una moltitudine eterogenea, se confligge con gli interessi delle aziende o dei partiti deve essere respinto con le ruspe, letteralmente.

Si guardino allo specchio questi signori che hanno cavalcato la vittoria dei referendum (strumentalmente a dir poco) e hanno scaricato in cinque minuti “il popolo”, quello del vento del cambiamento, perché non più compatibile, e si sono schierati compatti contro un’intera popolazione e molto di più. Da Napolitano a Bersani da Vendola a Beppe Grillo si sono schierati contro gli stessi che solo pochi mesi fa appoggiavano: siamo gli stessi del 14 dicembre, gli stessi del movimento universitario e delle scuole, gli stessi che denunciano la gestione mafiosa della ricostruzione dell’Aquila e che si sono battuti per i referendum sui beni comuni, gli stessi che hanno sostenuto la lotta dei lavoratori della Fiom. Siamo gli stessi e saremo di più.

Eravamo decine di migliaia in Val Susa, parliamo le nostre lingue, i nostri dialetti d’origine e parliamo anche inglese, spagnolo, tedesco, arabo e francese. Di tutte le retoriche disgustose messe in campo dal PD e da Repubblica, la più odiosa è quella “territorialista”, fiumi di inchiostro spesi per dire che i manifestanti, i violenti, non sono della Val Susa, non c’entrano nulla. Come se invece i duemila poliziotti fossero tutti valligiani. E soprattutto, come se a combattere quella che è una battaglia di civiltà, per un paese migliore, dovessero essere solo gli abitanti della zona. Eppure ogni lotta ce l’ha insegnato: libertà, diritti e sogni, sono di tutti. La lotta No Tav non è una lotta territoriale, non è semplicemente una lotta ambientalista, è una lotta contro la gestione mafiosa degli appalti pubblici, contro la collusione tra interessi delle aziende e interessi di amministratori pubblici, contro la prevaricazione della finanza sulle nostre vite, è una lotta di democrazia che esattamente come nelle università e all’Aquila dice: noi vogliamo prendere parte alle decisioni collettive e per farlo non ci basta mettere una X su una scheda elettorale una volta ogni cinque anni.

Capita anche che dopo essere stati presi per ore a sassate e fumogeni sparati come proiettili e dopo aver visto che Fabiano, un manifestante, è stato torturato dagli agenti, si debba leggere la solidarietà bipartisan alle forze dell’ordine e la condanna verso i manifestanti. Quella condanna, che cerca di dividere il movimento, è in realtà un attacco a tutti coloro che per anni hanno manifestato in modo dialogante in Val Susa ma che non hanno mai ricevuto alcun ascolto. E quella condanna ci fa pensare a due cose: da una parte che viviamo in un paese profondamente antidemocratico, dove a dieci anni da Genova la polizia (che non è mai stata veramente punita per i fatti del 2001) può, ancora, impunemente compiere ogni violenza e ricevere la solidarietà di tutti i partiti; dall’altra parte capiamo ancora di più che in Val Susa si è consumata l’ennesima frattura profondissima fra chi fa politica attivamente e chi siede in parlamento, tra la politica e il politico. Una frattura enorme e insanabile ormai tra chi gioca all’antiberlusconismo e chi si batte non solo perché Berlusconi se ne vada, ma per affermare nuovi modi di partecipazione alla decisione collettiva. Un frattura tra chi ha deciso di abbandonare le piazze e chi invece crede che proprio ora più di prima queste debbano essere invase e vissute intensamente. Una frattura tra chi crede che un riformismo non sia più possibile e chi invece continua a vedere nella “alternativa” al governo Berlusconi il suo orizzonte politico.

In tanti in questi giorni abbiamo pensato a Genova. Non solo perché sono passati dieci anni dai fatti del G8, ma anche perché abbiamo provato la stessa sensazione di profonda rabbia verso uno Stato violento che non ha alcun rispetto per chi vuole partecipare alla vita politica in forme e modi diversi da quelli parlamentari, per chi non si accontenta di votare e delegare la decisione ad altri ma vuole poter decidere del proprio futuro, sentirsi vivo e non passivo di fronte allo sfascio che stiamo vivendo. E se Genova è stato il momento più brutto che abbiamo vissuto, abbiamo continuato a vedere ogni volta le forze dello Stato essere usate ciecamente contro ogni tipo di protesta ci sia stata in questo paese negli ultimi dieci anni: dagli studenti ai terremotati dell’Aquila, dal movimento No dal Molin fino ai cittadini di Chiaiano e a quelli della Val Susa.

Domenica in Val Susa abbiamo visto una comunità che è nata, cresciuta e si è autorganizzata attorno al presidio No Tav, ma non una parola abbiamo letto sui giornali riguardo la resistenza di questi uomini e queste donne che sono rimasti accampati per anni, non una parola abbiamo letto sulle modalità con cui ci hanno accolto senza domande guardandoci in faccia e riconoscendo qualcosa nel fondo di comune: la voglia di non guardare al mondo con rassegnazione. Nelle forme della lotta di domenica abbiamo riconosciuto un’organizzazione e un sentire simile a quello che abbiamo conosciuto tra gli indignados di Plaça Catalunya: la denuncia degli intrecci profondi e inestricabili tra amministrazione pubblica e interessi privati, il costruirsi di nuove forme di partecipazione e di decisione politica, il crescere di ciò che chiamiamo “comune”. In Val Susa come in Plaça Catalunya persone di generazioni, estrazione sociale e luoghi diversi si sono trovate a lottare esattamente per lo stesso motivo: la possibilità di decidere del proprio presente e del proprio futuro, oltre la gestione della democrazia statale.

“Ciao ragazzi, venite da Ramats? Com’era là?” Da una macchina che si muove a passo d’uomo, incolonnata con chissà quante altre macchine mentre aspettano di superare un posto di blocco, a fine giornata, un valligiano sorridente si rivolge a noi: stanchi, sporchi di maalox e polvere, qualcuno con un casco appeso al braccio. “I miei tre fratelli sono stati a Giaglione. Erano là a combattere da stamattina, sono risaliti solo mezz’ora fa”.

Ci salutiamo, col valligiano, la fila scorre un po’ più veloce, ma prima di andarsene ci tiene a ringraziarci. Un ringraziamento e dei sorrisi sentiti, di cuore. “Non finirà qui!”, dice.

A tutti quelli che ci dicevano grazie, ve lo scrivo perché un groppo in gola non mi permetteva di rispondere, ci avete fatto vedere che resistere è possibile tutti insieme.

Noi torneremo tutte le volte che ce lo chiederete perché nella vostra bella valle ci avete fatto sentire a casa e ci avete regalato il senso della vostra lotta che ora possiamo dire senza riserve nostra.

Bartleby – Bologna