Acabnews Bologna

Di ritorno da Roma [comunicati aggiornati]

Contributi sul #15ottobre da TimeOut, #occupybologna, Coordinamento migranti e (s)Connessioni precarie, Sergio Spina e Tiziano Loreti, Tpo e Aula C Autogestita, Crash, Cua e Cas, AteneinRivolta, “Cane Sciolte”

19 Ottobre 2011 - 17:34

Riflessioni sul 15 ottobre

Il 15 ottobre va sottratto immediatamente dalle aule giudiziarie e dalle trasversali manipolazioni che ne stanno facendo i media e il sistema dei partiti. Per questa ragione vogliamo contribuire al ricco e variegato dibattito tra i protagonisti di quella giornata di lotta. Anche noi, insieme a tanti altri compagni e compagne, una volta raccolto l’appello del movimento #15m delle accampate spagnole abbiamo iniziato a costruire la giornata di lotta transnazionale del #15O. Per questa ragione abbiamo partecipato attivamente al meeting di Barcellona dello scorso settembre promosso dagli attivisti di “democracia real ya”, e poi siamo corsi a Tunisi per il primo meeting Transnazionale delle lotte per fare eco anche nella sponda sud del Mar Mediterraneo dei discorsi che ormai non vedevano più solo i movimenti europei ma anche altri continenti puntare su un momento comune di mobilitazione. E il 15 Ottobre sul piano globale si è manifestato nella potenza su cui tutti e tutte avevamo scommesso e lavorato.

I meeting di Barcellona e Tunisi che abbiamo costruito collettivamente sono stati per noi spazio eccezionale quanto istruttivo di reciprocità, inchiesta e proposta: Reciprocità perché a Tunisi e a Barcellona il “que se vayan todos” tradotto in tutte le lingue dei movimenti del Mar Mediterraneo si è mostrato per quello che è: un programma politico comune.
Inchiesta perché centrale per noi era ed è comprendere come la Casbah di Tunisi, piazza Tahrir d’Egitto, piazza Syntagma d’Atene, e Puerta del Sol di Madrid siano riusciti a tramutarsi in quei primi embrioni di istituti autonomi comuni a dei movimenti capaci di segnare prime grosse crepe all’individualismo proprietario da una parte e dall’altra ad alludere a prime forme di reale e autonoma alternativa.Proposta perché il 15 era ormai ad un passo e lo spazio aperto dai movimenti da alcuni mesi a questa parte andava attraversato fino infondo per segnare una prima forte risposta di dignità, giustizia sociale e rivolta alla crisi finanziaria e alle manovre dell’austerità imposte dall’1% al 99% globale.

Abbiamo attraversato quegli spazi di dibattito nella nostra parzialità, portando il nostro punto di vista anche sulla prima risposta che i lavoratori del braccio e del cervello in Italia avevano iniziato a sperimentare contro la crisi e contro chi la sta governando nei palazzi di
Roma, il governo Berlusconi. Ma nel confrontarci con le lotte di mezzo mondo l’anomalia italiana iniziava a palesarsi e con questo vogliamo entrare nel merito del “nostro 15 ottobre”. Dove in tutto il mondo il movimento ormai da un anno a questa parte ha sempre puntato nelle sue variegate espressioni verso i palazzi del potere per piantare lì le proprie tende e costruire l’autogestione del proprio discorso politico, in Italia invece alcuni “organizzatori” accettavano il diktat della questura di Roma allestendo in Piazza San Giovanni uno spazio per comizi. Che scelta scellerata! Come era possibile immaginare che la piazza romana potesse trovare soddisfazione dei propri bisogni e desideri politici di lotta contro la crisi nella forma di una manifestazione la cui vittoria si sarebbe misurata nel contarsi e nell’ascolto di qualche portavoce? In totale e palese discontinuità con la tendenza dei movimenti globali e
della declinazione italiana per giunta.

La straordinaria lotta del sapere dello scorso anno aveva anche anticipato la tendenza globale lanciando il 14 dicembre un grande corteo che al grido di “que se vayan todos” si avvicinava ai palazzi del potere: la rivolta di Piazza del Popolo già alludeva alla necessità di andare radicalmente oltre “la presa di parola” per influire nell’opinione pubblica, per prendersi lo spazio pubblico e tenerlo a dispetto della cariche della polizia. Questa la ricchezza che si è sviluppata in Italia nella lotta contro la riforma Gelmini, e che potenziandosi in quello sciopero generale del sapere e della precarietà del 30 novembre scorso ha saputo coinvolgere e trascinare le prime manifestazioni di rabbia e indignazione che poi per tutto l’anno fino ad oggi si sono espresse in forme differenti ma segnate tutte da un secco e deciso “no!”, sia questo il no della Val Susa o di Terzigno, della Fiom o dei precari, o di tutti quei soggetti che colpiti dalla crisi stanno raggiungendo i cortei e le mobilitazioni per aggiungervi le proprie ragioni, e la manifestazione del 15 ottobre ha segnato in maniera
inequivocabile che sono\siamo sempre di più.

In continuità e coerentemente al 99% globale dei movimenti anche in Italia a decine e decine di migliaia i manifestanti il 15 ottobre volevamo superare piazza San Giovanni per portare la nostra indignazione e rabbia ad un passo dai palazzi del potere e dell’austerità, come in tutto il mondo. Per questo siamo entrati in condivisione con le reti dello Sciopero Precario il cui obiettivo era quello di costruire una giornata di lotta che rilanciasse con forza la voce delle soggettività del lavoro precario. Le cariche e i caroselli della polizia l’hanno impedito scatenando una rivolta largamente partecipata e raggiunta dai manifestanti che applaudendo o respingendo direttamente la repressione hanno tutti e tutte insieme rilanciato da Roma quel secco “no” alla crisi che grida il 99% in tutte le piazza del mondo.

Durante il corteo si è anche espressa la profonda eterogeneità di questo movimento, specchio dei soggetti che oggi sono nel mirino della crisi e due forme differenti di avanguardismi hanno fatto si che la differenza divenisse ragione di ostilità: da una parte i comizianti imponevano a priori una forma-corteo artificiale ed estranea ai modi di espressione politica della composizione del movimento e dall’altra alcuni con la solita smania di narcisistica auto-rappresentazione e sovradeterminazione incendiavano macchine sul percorso stesso del corteo garantendosi l’ovvia contestazione da parte del resto dei manifestanti che non potevano altro che percepire quel gesto come profondamente ostile.

In entrambi i casi le proposte avanguardistiche, i propri progetti divergenti, non sono stati assunti dal corteo che solo a Piazza San Giovanni ha poi trovato il suo punto alto di espressione, quando ormai era chiaro che non era più possibile raggiungere il centro per contestare la Politica della crisi in Italia.

Dal 15 ottobre torniamo a Bologna più convinti di prima che la “forma movimento” composta molto spesso da ceti politici vecchi, mossi da obiettivi velleitari ed incapaci di divenire strumento di con-ricerca nella composizione sociale delle lotte è andata in crisi insieme alla
rappresentanza istituzionale e che solo tramite l’inchiesta e la sperimentazione di forme di organizzazione delle lotte sia sul piano territoriale che transnazionale si può dare il primo passo da compiere per restituire piena autonomia a quel movimento che si firma in tutto il mondo come #globalrevolution ed esclama #riseup! E vogliamo essere chiari: in questo processo costituente a cui vogliamo contribuire i movimenti non danno spazio a quei soggetti fautori della crisi, e anche dei suoi prossimi governanti Law and Order, che in tutto il mondo vengono contestati duramente dalla piazza. I partiti politici, le loro associazioni giovanili, devono farsene una ragione: “non ci rappresenta nessuno!” vuol dire nessuno! E non è questione di ideologia ma l’indicazione che viene dalle lotte. Mentre la polizia investiva i
manifestanti, mentre erano in atto rastrellamenti, c’era chi auto-nominatosi parte se non portavoce del movimento invitava a fare di più, a continuare con la repressione, fino alle dichiarazioni inaccettabili di un Di Pietro che evocava la Legge Reale. Quanto osano! E
su invito lui e il suo partito avrebbe dovuto sfilare in corteo!

Invece il movimento del #globalchange, il 99% globale oggi dice “liberi tutti e tutte subito”, libero Valerio e tutti i compagni e le compagne in carcere o oggetto del giro di vite orchestrato da Maroni! E’ questo lo slogan che fa risuonare il mare oltre lo spartiacque, uno slogan più forte e deciso di quanto possa fare l’1% di pozzanghere.

Laboratorio Crash! – Cua Bologna – Cas Bologna

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Oltre il 15 ottobre per una rivolta permanente

Il 15 ottobre doveva essere solo l’inizio di una mobilitazione permanente che si opponesse alla crisi globale e alle politiche di austerity che governo italiano e BCE ci stanno imponendo.
In quella giornata si sarebbero dovuti aprire spazi di discussione pubblica e democratica e la grande partecipazione ci avrebbe permesso di iniziare un percorso di opposizione sociale conflittuale che coinvolgesse i soggetti a cui questa crisi viene fatta pagare. Le parole d’ordine “a casa non si torna” e “il loro debito non lo paghiamo” erano diventate patrimonio di una larga parte del movimento ed esprimevano la volontà di accamparsi, seguendo l’esempio di ciò che sta avvenendo nelle altre città d’Europa e del mondo.
La giornata di sabato è stata in realtà qualcosa di diverso: abbiamo mancato questo obiettivo politico e quella piazza che doveva rappresentare l’avvio di un processo di costruzione del conflitto ci è sfuggita di mano.
Non ci interessa il dibattito astratto e mediatico su violenza e non violenza perchè questo ci impedisce di andare oltre il 15 e di provare a rilanciare una mobilitazione permanente. I giudizi moralistici non ci appartengono, non facciamo il gioco di chi sta cercando di strumentalizzare ciò che è accaduto, a noi interessa il dato politico: sabato abbiamo perso un’occasione.
Ora dobbiamo chiederci come ripartire. Sicuramente è necessario uscire dalle logiche identitarie dei sigoli gruppi e organizzazioni e costruire un percorso che sia il più largo, inclusivo e democratico possibile. Allo stesso tempo non riteniamo utili cartelli elettorali o soluzioni di facciata che cambino il volto di chi governa, ma non la sostanza delle politiche messe in atto.
Non vogliamo e non possiamo in questo momento arroccarci su posizioni, pratiche e parole d’ordine precostituite, ma dobbiamo aprire spazi di auto-organizzazione e conflitto davvero nuovi che diano voce ai soggetti e alle lotte presenti sul territorio.
A giugno una presa di parola forte in questo paese c’è stata, la maggioranza assoluta dei cittadini e delle cittadine, attraverso il referendum, si è espressa contro le politiche di privatizzazione e contro la supremazia dei profitti sui diritti, sulla vita e sui beni comuni. Ripartiamo da quello spirito e da quei contenuti. Le manovre economiche dell’estate hanno cercato di azzittire quella voce riprononendo esattamente la stessa logica sconfessata da quel voto.
Le politiche che il governo sotto la direzione della BCE sta portando avanti ripropongono lo strapotere e il ricatto della finanza sulle nostre vite: riprendiamocele. Per questo gridiamo “il loro debito non lo paghiamo”.

AteneinRivolta Bologna

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Comunicato di risposta agli attacchi mediatici subiti dall’Aula C Autogestita dopo il 15 ottobre

Ancora una volta ci troviamo a rispondere ai fantasiosi quanto puntuali attacchi ai danni dell’Aula C autogestita della Facoltà di Scienze Politiche. Premettiamo che siamo sempre stati, e continuiamo ad essere, dell’opinione che a certe imbarazzanti fandonie si dovesse lasciare lo spazio che meritano; eppure stavolta, nel pieno della deriva poliziesca che ha investito il cittadino medio, oltre che una parte del movimento “antagonista”, sentiamo il bisogno di rispondere colpo su colpo alle illazioni dei soliti (noti) professionisti del panico a orologeria, che ormai da quasi un anno, per fomentare i momenti di tensione non trovano argomenti migliori che screditare…una stanza! Già, confessiamo che è difficile trovare le parole per smarcare un luogo, 4 mura e un tetto, dalle accuse di chi da sempre si guadagna il piatto seminando terrore, da questi campioni di professionalità che pretendono di smascherare presunte occulte connivenze di un individuo sulla base delle amicizie che ha su facebook. Riportiamo, quindi, il testo condiviso, meno di un mese fa, da questi temibili “assidui frequentatori”:

L’Aula C è un esperimento di autogestione all’interno dell’università di Bologna fin dal 1989. Permette a chi la attraversa di costruire autonomamente la propria cultura, condividere esperienze e conoscenze, costruire percorsi di lotta senza per questo poter essere ricondotta ad una definita area di appartenenza, pur mantenendo una consolidata identità antifascista, antisessista, antirazzista, antiautoritaria.

l’Aula C è un divano a cui affidare un momento di relax o una lettura non necessariamente commissionata dal prof di turno, un tavolo su cui studiare senza l impersonalità degli spazi messi a disposizione dalla facoltà, una caffettiera da condividere con chi capita, un forno per allestire un pranzo in compagnia, una biblioteca che si muove nella direzione della libera (e economica!) condivisione dei saperi, un laboratorio per realizzare idee e progetti di varia natura.

Non esiste un collettivo politico: l’Aula C va avanti grazie all’impegno quotidiano di chi lo vive e lo attraversa e attraverso un’assemblea di gestione -aperta e orizzontale- che si riunisce ogni venerdì alle ore 17. Lo spazio è aperto alle iniziative di tutti i singoli e le realtà che si riconoscano nei suoi valori, e che volessero arricchirlo con i propri contenuti.

 Enjoy Aula C Autogestita

Come promesso, rispondiamo colpo su colpo alle infamate mediatiche: il famoso “bersaglio” a sagoma di celerino, era, come ha scritto una testata nazionale, un ricordo di una manifestazione contro la brutalità poliziesca, e quindi di certo non un “auspicio” per quelle nuove: tuttavia, nostro malgrado, la violenza delle “forze dell’ordine” si ripresenta puntuale. Ricordiamo, a onor di cronaca, che la stessa sagoma ha assunto nell’arco di meno di un anno ben tre diversi significati secondo la stampa, nel contesto di tre diversi articoli.

Passando ad argomenti più significativi: si continua a parlare di “collettivo aula c”, un’invenzione ad hoc della questura, già usata, tra le altre cose, per affibbiare fogli di via, circa un mese fa, a due compagni che frequentano l’Aula C, a cui ribadiamo la nostra solidarietà.

Si continua ad affermare che l’occupazione di Scienze Politiche del dicembre 2010, decisa unanimemente da un’assemblea di facoltà in un’aula magna gremita, dopo un corteo spontaneo di circa trecento persone, fosse pilotata dal fantomatico “collettivo aula c”: la verità è che l’Aula era anch’essa occupata, e le decisioni venivano prese da assemblee giornaliere di facoltà. Queste infamate offendono tutte e tutti coloro, e sono tanti, che hanno partecipato a quelle assemblee, la maggior parte dei quali non avevano mai frequentato l’Aula in precedenza.

Sottolineiamo nuovamente con forza il carattere antirazzista dello spazio, il quale esclude che chicchessia debba, o possa, essere allontanato a causa del proprio orientamento politico quando esso rispetti i valori dello spazio, o men che meno a causa delle illazioni e dei teoremi della stampa che troppo spesso, tentando in modo tragicomico di surfare l’onda della tensione diffusa, si improvvisa detective con questi desolanti risultati.

Riteniamo doveroso a questo punto, segnalare che chi ci attacca oggi, come ieri, sono ancora una volta i soliti ciarlatani. Gli stessi ciarlatani che a ridosso della strage fascista di Marzabotto si affannavano a sentenziare che non vi era stato alcun coinvolgimento di donne e bambini; nessun accanimento su innocenti era stato compiuto dalle misericordiose SS durante la “nobile operazione” finalizzata a recidere “una pericolosa cellula di banditi”, e che chiunque avesse sostenuto il contrario fosse un infame delatore e che come tale doveva essere trattato dai bravi cittadini collaborazionisti (Il Resto del Carlino, 11 Ottobre 1944).

Crediamo, in ogni caso, sia d’obbligo fermarsi a riflettere su quello che è stata la giornata del 15 Ottobre: riteniamo che praticare conflitto non significhi abbandonarsi allo sfascio indiscriminato senza valutarne le ripercussioni. Senza l’intento di criminalizzare nessuno, non vediamo sbocchi positivi in alcune delle pratiche che hanno caratterizzato il corteo. Tuttavia sentiamo il bisogno di esprimere la nostra totale condanna alla avvilente deriva giustizialista cui stiamo assistendo in questi giorni. Si sta imponendo una visione generalizzata, forzata, falsa e diffamatoria della realtà, un tentativo di ricacciare ognuno dietro il proprio pc invitandolo a pubblicare chissà quale “materiale sensibile”, a illuderlo di partecipare a chissà quale fantomatica nobile crociata in nome della democrazia. Riteniamo che nessun confronto virtuale, né alcun articolo di giornale, possa sostituirsi all’esperienza pratica e al confronto personale, nel tentativo di analizzare e valutare politicamente l’ampissimo universo di intenti e idee che sabato scorso hanno infiammato piazza San Giovanni, chiamandola a resistere con forza, per ore, ai testacoda indiscriminati dei blindati, alla pioggia di lacrimogeni e agli idranti.

Esprimiamo la nostra piena solidarietà a tutti gli arrestati del 15 Ottobre, i perquisiti nei giorni successivi e a tutte le realtà e gli spazi sotto attacco.

È infantile l’atteggiamento di chi, nella situazione attuale, non coglie l’enorme importanza di una piazza attaccata dalla polizia e riconquistata dai manifestanti, e rigetta tutto ciò che non capisce, o che per interesse o immaturità politica non vuole capire, arrivando agli schifosi livelli di denunciare tutto e tutti.

In fin dei conti, niente di nuovo sotto il sole…

“Se non state attenti, i media vi faranno odiare le persone che vengono oppresse e amare quelle che opprimono” – Malcolm X. ‎

Assemblea di gestione dell’Aula C Autogestita

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L’alternativa è un bene prezioso

Desideriamo condividere con voi tutte/i alcune riflessioni scaturite dopo assemblea pubblica che si è svolta lunedì 17 ottobre al Tpo.

Riteniamo che l’assemblea abbia avuto due caratteristiche su tutte: da una parte è stato un momento di discussione vera, nulla di preconfezionato, dove ognuno ha espresso criticità differenti rispetto alla giornata vissuta a Roma il 15 ottobre, dall’altra ci si è interrogati sulle prospettive del movimento, su come affrontare insieme i nodi della crisi che attraversa tutti gli aspetti economici, sociali, ambientali, etici della nostra vita e delle nostre biografie.

E’ stata una discussione tra tante/i e diverse/i particolarmente importante perché a nostro avviso è stato un primo confronto non solo su cose che abbiamo vissuto insieme a Roma, ma ha anche provato a ricercare un terreno comune, rifiutando l’idea di essere minoranza, parte incompresa ed impotente della società. I grandi numeri del corteo di sabato hanno chiarito che c’è una disponibilità enorme a partecipare in prima persona per stabilire un nuovo discorso su partecipazione e democrazia.

Dopo lo scorso sabato, a maggior ragione, siamo convinti che sia urgente sperimentare forme di “alternativa” a questa crisi, per un miglioramento della nostra vita, per un avanzamento nella ricerca di maggiore libertà, e non vice-versa rischiare un arretramento degli spazi di libertà conquistati dalle lotte sociali e dal movimento degli ultimi decenni.

Vi proponiamo allora di vederci per sviluppare una discussione su alcuni nodi che ci sembrano centrali dopo l’esito della manifestazione di sabato 15:

– una mobilitazione democratica contro la strumentalizzazione di quello che è successo per garantire ancora spazi di dissenso e di partecipazione

– la capacità di autodeterminare e difendere i propri percorsi di lotta e di partecipazione, perché lo spazio pubblico del dissenso e dell’alternativa è un bene comune, e difenderlo è un problema di tutte/i

– continuare ad interrogarsi su cosa voglia dire costruire alternativa partendo dalle nostre esperienze e dai percorsi di sottrazione e lotta alle misure anticrisi

Pensiamo che sia necessario continuare a costruire, anche in città, uno spazio pubblico e politico a sinistra fatto di soggettività e biografie diverse che si confrontino su come dentro ad una crisi globale e nuova sia possibile costruire laboratori di ridistribuzione del reddito anziché di concentrazione della ricchezza, di allargamento dei diritti e delle libertà anziché di gerarchizzazione di privilegi, di tutela dei beni comuni anziché di privatizzazione e devastazione (o di opere inutili come il People Mover), di forme nuove di welfare contro lo smantellamento dei servizi e delle politiche sociali, di dignità nel lavoro contro la precarizzazione, di una cittadinanza inclusiva e non sempre più perimetrata.

Per questo vi invitiamo a discuterne al TPO lunedì 24 ottobre alle ore 21, insieme alle tante e i tanti che a Roma c’erano, con cui abbiamo organizzato i pullman, così come con quelle/i che non c’erano ma oggi s’interrogano e non accettano che altri decidano, con le loro azioni, di disperdere quella straordinaria ricchezza che si è manifestata a Roma il 15 ottobre.

 Tpo

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Di ritorno da Roma, diamo voce alle lotte sociali!

ASSEMBLEA GIOVEDI 20 OTTOBRE ORE 21, VIA ZAMBONI 38

Il 15 ottobre è passato. Milioni di persone sono scese in piazza all’unisono contro la violenza delle banche e dei governi del neoliberismo in crisi.

Da questo nuovo movimento globale bisogna ripartire, ogni scuola, ogni ateneo, ogni piazza dovrà essere invasa dall’energia sprigionata da quella giornata.

E’ il momento ora di ragionare su cosa Roma significherà per i movimenti, di capire quali forme di rilancio costruire sui nostri territori.

Per questo motivo lanciamo un’assemblea pubblica in università, ribadendo ancora una volta la necessità che tutto il mondo della precarietà torni a fare sentire la propria voce.

La voce dei collettivi studenteschi, di chi fa lotta per la casa, di chi difende i propri territori e di chi, come a Livorno, subito dopo Roma non ha esitato a riprendersi pezzi di libertà.

Collegamenti skype con:

Coordinamento Collettivi Studenteschi – Milano
Movimento No Tav – Val Susa
Studentato Occupato Anomalia – Palermo
Ex Caserma Occupata “Del Fante” – Livorno
Progetto Prendocasa – Pisa

#occupybologna

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La misura della rabbia. Considerazioni prima e dopo il 15 ottobre

Il 15 ottobre come moltissimi altri abbiamo colto l’occasione offerta dalla giornata globale contro le politiche di austerity: l’occasione per amplificare le voci disparate di uomini e donne, precarie, migranti, operai, che ogni giorno fanno esperienza della crisi come di una precarizzazione sempre più sfrenata del lavoro e dell’esistenza, e che rifiutano la precarietà come forma selettiva e gerarchica di coazione al lavoro. Connettere queste voci è stata la nostra scommessa attraverso il 15 ottobre, e lo abbiamo fatto condividendo il percorso aperto dagli Stati Generali della precarietà e lo spezzone del precariato sociale che sabato ha coinvolto migliaia di uomini e donne.

Non ci interessa giudicare i fatti del 15 ottobre a partire dalla contrapposizione, fin troppo angusta e fin troppo nota, tra violenza e non violenza, o fra i pochi e i tanti separati dalle pratiche messe in scena a Roma. Si tratta di una contrapposizione che non riesce a cogliere la complessità di ciò che ha avuto luogo, l’intreccio tra azioni organizzate e un’opposizione più ampia alla risposta delle forze dell’ordine, tra l’azione collettiva pianificata di alcuni segmenti del corteo e l’espressione di massa di un disagio individuale esasperato. La repressione con la quale si vuole rispondere a questa complessità è inaccettabile: chi oggi, nelle vesti di deputato del popolo, ripropone la legge Reale, è il commissario e il magistrato di ieri. Sappiamo fin troppo bene che le operazioni di polizia, mentre pretendono di consegnare alla forca dell’opinione pubblica e dei tribunali i presunti colpevoli, si preparano a estendere la repressione a tutte le lotte sociali. Rispetto a tutto questo, troviamo risibile e intollerabile lo spreco mediatico che pretende di negare il contenuto politico dello spezzone del precariato, millantando una ‘regia occulta’ dietro agli scontri.

Anche di fronte alla repressione, però, il dovere della solidarietà non può riprodurre in forma rovesciata la coazione dell’emergenza, impedendo ogni critica. Mentre c’è chi organizza e orchestra gli inviti alla delazione, noi riconosciamo che esiste e cresce una rabbia enorme che deve essere presa sul serio, non solo in piazza e dentro i grandi eventi di massa, ma tutti i giorni dell’anno. I migranti sanno perfettamente che questo non è un paese per loro. La loro rabbia vive tutti i giorni senza aspettare l’evento di piazza. Questa rabbia è spesso l’unico antidoto alla disperazione. I migranti, però, si sono anche accorti che quella del 15 non era una manifestazione per loro, quando molti sono stati costretti ad abbandonare la piazza, inseguiti prima che dalla polizia dal contratto di soggiorno per lavoro e dalla legge Bossi-Fini. Con loro ha abbandonato la piazza quella sua dimensione transnazionale che, prima di essere a Barcellona o a New York o a piazza Tahir, è propria dei migranti che vivono e lottano in Italia da decenni. Non era quella la manifestazione alla quale avevano deciso di partecipare. E questo vale anche per molti precari venuti a Roma. Facciamo perciò fatica a considerare la rabbia esplosa a Roma come una sorta di espressione pura dell’insorgenza, come un grado superiore di coscienza che il precario medio, il migrante medio o l’operaio medio non avrebbero ancora raggiunto. Noi non facciamo gerarchie della rabbia, non sostituiamo alla lista dei buoni e dei cattivi quella dei più o meno arrabbiati. Ci interessa una misura politica dei comportamenti.

Abbiamo finora scelto il processo di costruzione dello sciopero precario per dare una risposta politica alla rabbia diffusa che vediamo crescere giorno dopo giorno. Non pretendiamo di rappresentare l’identità insorgente di precarie, migranti, operai. Quello che ci interessa è tenere aperto lo spazio di una comunicazione e connessione tra le diverse figure del lavoro, consapevoli della nostra parzialità e delle molte differenze. Quello che ci interessa è inventare e praticare modalità di sciopero e di scontro sociale all’altezza della sfida posta dalla precarietà, capaci di colpire i profitti. Quello che ci interessa è una misura politica delle pratiche, anche di piazza, e pensiamo perciò che si debba avere il coraggio di dire che un bancomat non è una banca e che una banca non è il capitalismo. Non giudichiamo i colpi inferti ai simboli reali o presunti del sistema capitalistico a partire dal generico consenso che sono o non sono in grado di produrre, ma alla luce delle concrete e costanti connessioni tra precarie, operai, migranti che sono in grado di sedimentare. Se la misura è questa, restiamo convinti che il processo di costruzione dello sciopero precario non possa passare in secondo piano di fronte allo spettacolo dell’insorgenza. Al contrario, uno sciopero precario, proprio perché coinvolge la precarietà in tutte le sue forme, può produrre elementi di radicalità persino maggiori di quella che senza dubbio ha attraversato le piazze romane sabato scorso. La nostra scommessa non è cominciata il 15 ottobre. E non è finita lì.

Coordinamento migranti Bologna e provincia
(s)Connessioni precarie

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Solidarietà alle e ai manifestanti e alle realtà sotto attacco dopo il 15 ottobre

Esprimiamo la nostra piena solidarietà a tutte le compagne e i compagni arrestati a seguito di quanto avvenuto a Roma sabato scorso 15 ottobre, e reclamiamo a gran voce la loro immediata liberazione. Siamo altresì solidali con tutte le decine di persone colpite da perquisizioni (per altro in gran parte negative) e sotto indagine.
Mai chiameremo criminale chi difende un corteo da un brutale e spregiudicato attacco delle polizie e da chi per preservare dalla loro violenza fisica e chimica il proprio corpo si dota di minimi strumenti di protezione. Perché questo abbiamo visto in Piazza S.Giovanni, un’aggressione feroce ad una piazza autorizzata, e migliaia di persone che non hanno agito che a difesa del proprio diritto a manifestare.
La nostra solidarietà va anche ai collettivi e agli spazi sociali che in questi giorni vedono minacciato il loro percorso di autogestione da liste di proscrizione e pubblici anatemi.
Questi sono per noi punti fermi, che nulla c’entrano con il giusto e necessario dibattito su quanto è successo sabato e quanto fosse auspicabile che avvenisse, attorno al quale già abbiamo detto e scritto [vai al comunicato].

Qui la petizione on line per la liberazione degli arrestati:

Ricordiamo, inoltre, l’appuntamento di venerdì 21, ore 21, a Bartleby in via San Petronio Vecchio 30/a

TimeOut Bologna
(Bartleby, Vag61, Coll. Utòpia, Antagonismogay, Laboratorio Smaschieramenti)

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Safety, autogestione e resistenza: una comunicazione femminista sul 15 ottobre

Siamo femministe e antifasciste, il desiderio d’esprimerci sull’esperienza del 15 ottobre parte da una serie di sommovimenti interni ai nostri corpi, più che da un’esigenza di far parte della tempesta di “comunicati”. Un comunicato è un participio passato, noi speriamo di metterci in comunicazione.

Il crampo allo stomaco nasce dal fatto che pur essendo in testa al corteo, non abbiamo capito cosa stesse succedendo davvero, dove e come. Non c’è stata una pronta comunicazione, non c’è stato nessun segno, nessuna voce che sapesse informarci del nostro stesso posizionamento. Questo ci porta a chiedere di “ripensare” strutture che già in passato, nelle nostre azioni, avevamo messo in discussione.

Cosa è una “testa” del corteo? Cosa è uno”spezzone”? Quale è la differenza tra creare “safety” invece che richiedere ordine e sicurezza? Soprattutto come si organizza un corteo? Chi decide? La “decisione” come prende forma? Come accade che vi siano “scazzi” tra gli stessi organizzatori del corteo rispetto alle azioni e alla modalità di gestione? E soprattutto, dati gli “scazzi”, come si dovrebbe procedere se si sceglie di esserci e di esprimersi in un corteo i cui contenuti “contano” ?

Quello che crediamo è che la forma e i nostri corpi contino quanto i contenuti.

Crediamo che la forma idonea a combattere quell’ordine patriarcale che vogliamo lasciarci alle spalle sia l’orizzontalità. L’orizzontalità è qualcosa che si pratica, si sperimenta, nel modo in cui ci si mette in relazione personalmente, all’interno di un collettivo e nella creazione di alleanze e reti. Gli scazzi e l’arbitrarietà da “accordi del giorno prima” sulle pratiche di garanzia della “safety” non funzionano come “pillola del giorno dopo”.

Riteniamo che la condivisione sia un passo imprescindibile per ogni grande manifestazione. Per condivisione ci riferiamo anche alla comunicazione degli “scazzi” stessi, che, evidentemente non c’è stata a livello nazionale, ma si è autocensurata internamente a geografie autoreferenziali, se non…quasi-elitiste di gestione dello spazio pubblico. L’esperienza della manifestazione contro la violenza maschile sulle donne del 2007, le nostre esperienze indecorose e libere, hanno portato i nostri corpi in relazione, attraverso settimanali assemblee locali e mensili assemblee nazionali a Roma. L’esperienza della Val di Susa ci insegna che la trasparenza degli intenti porta alla rivolta legittima e unita: i media hanno provato a dividerci in buon* e cattiv*, ma non ha funzionato perché l’unità delle differenze non è stata messa in discussione dal movimento stesso: c’era un percorso, e ci sarà.

Portiamo una felpa nera quando vogliamo, a volte indossiamo il pink.

La non-violenza non è tra I nostri valori, come donne che lottano contro la violenza patriarcale, degli uomini e dello stato.

Il “riot” è una pratica che condividiamo, ma rimandiamo alla capacità di autogestione come coscienza della responsabilità e dell’intenzionalità dei nostri riots. L’autogestione è una dialettica tra l'”io” e il “noi”: il personale è politico ci guida ancora nella riflessione. L’autogestione è pratica orizzontale che non esula dallo “spontaneismo”. Quello che richiede è la capacità preventiva di “immaginazione” degli eventi e “creatività” rispetto all’orizzonte delle azioni, resistenze, modalità di autodifesa e gestione della “safety” possibili.

Crediamo che sia necessaria una riflessione sulla gestione della Piazza. Perché la scelta, il “sentirsela” o “non sentirsela”, ha finito per essere “costretta” e “imposta” dal contesto? Legittim@ chi attacca la violenza dello stato, legittim@ chi decide di non farsi “normare” dal contrattacco come pratica di guerriglia urbana, non precedentemente concordata o “immaginata” e poco “aperta” all’idea di “safety” delle/gli “altr@”, che diventano “altr@” perché il contesto, non scelto da loro, lo impone.

La data del 15 ottobre costringe il movimento tutto a riportare l’attenzione sulle questioni dell’orizzontalità, della safety, dell’autogestione. Ma non ci stiamo a “partire da capo”. Veniamo da esperienze di orizzontalità e anche da esperienze di scontri. Serve una consapevolezza dell’autogestione come responsabilità politica, come accordo. Un accordo è un’armonia, non una dissonanza. Non si possono ignorare le critiche interne ed esterne, limitandosi a mantenere rigide posizioni minoritarie di “rivendicazione”. Ma non possiamo nemmeno ragionare sentendoci ostaggio della distorsione dei media e tanto meno dell’approccio individualista da “sfogo emotivo da faccialibro”.

In Piazza, a resistere, eravamo in tant@. La favolosità della resistenza, il numero (migliaia) di compagn@ in Piazza, e l’ “indignazione” contro la polizia è un prodotto di decine di anni di accumulazione di rabbia contro l’uso di armi illegittime, contro anni di torture e repressione assassina. La stessa che i giornali, e certe proposte stile ’75, propagandano come luogo sicuro, a cui “serenamente” consegnare donne e uomini di quella Piazza. La delazione non ha bisogno di commenti, fa il gioco del regime.

A differenza delle azioni che hanno messo in pericolo i nostri corpi durante il corteo, con una pratica alla “appicco il fuoco e mi barrico dietro la gonna di mamma/folla”, nello scontro con la polizia in Piazza S.Giovanni, nella resistenza alle cariche indiscriminate, si è espressa la politicità della rabbia, il diritto all’autodifesa.

Non sono i colori a normarci, non sono i compagni maschi, non è la nostra uterina irrazionalità, che pare ancora tabù, visto lo shock massmediatico alla visione di “donne black block”. Le quali, Repubblica aggiunge, quasi a tranquilizzarci, dopo aver lanciato un sanpietrino corrono a baciare i fidanzati (stessa “azione” che le “buone manifestanti” avrebbero voluto fare in piazza, stando a ciò che la stampa racconta: un bel bacio eterosessuale a coppie, per un po’ di pepe, e per rassicurare l’ordine patriarcale e la struttura famigliare). Chiediamo a chi ci legge di uscire da queste dinamiche stigmatizzanti. Il feticismo da “black bra” lo lasciamo a Repubblica, chiediamo invece attenzione alle rivendicazioni di donne, femministe e lesbiche che in quel corteo c’erano e che continueranno a parlare per sé.

CANE SCIOLTE

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Una insurrezione di ottobre

Ma che è successo ieri, sabato 15 Ottobre 2011, a Roma?

Non vorremmo esercitarci in correzioni ai resoconti altrui: noi ieri eravamo a Roma e abbiamo potuto seguire tutta la manifestazione, vivere, sentire, respirare, osservare partecipi e convinti una manifestazione di un movimento che pone questioni, domande e tentativi di risposta.

Abbiamo vissuto, prima che osservato, una cosa semplice: la materializzazione della rottura che frantuma la società italiana e tutte le società capitalistiche e neocapitalistiche dell’occidente evoluto (e forse non solo).

Un intera porzione della nostra società è stata precipitata in una precarietà senza fine, abbandonata a fronteggiare come può – e non può – la crisi determinata dall’arricchimento di un pugno di spietati padroni, accompagnati da una corte di satrapi, protetta da un immenso apparato poliziesco e militare.

Un intero mondo che non ha collocazione e cui viene imposto di sanare il fallimento altrui, di essere – semplicemente e quietamente – sacrificabile e sacrificata alla ricchezza immensa di un pugno di sfruttatori.

Un mondo cui non resta altro che rompere -oggi rivoltandosi- lo schema economico, politico e sociale che lo opprime e annichilisce.

Non esiste un programma politico classicamente inteso, forse – ancora – nemmeno un’idea di programma politico: esiste  però la coscienza, che si fa strada a gradi e con tempi differenti, della propria condizione drammatica, c’è una risposta a questa condizione.

E’ una necessità, prima che un compito, aprire dentro al movimento la discussione sul che fare: esistono idee, qualche proposta; non esiste ricetta e ostinarsi a proporre la propria come la migliore, significa non aver capito la gravità e novità della crisi, la insopportabilità della condizione di cui stiamo ragionando e la qualità tutta nuova di questo movimento.

Qui sta un’altra fondamentale questione cui ci mette di fronte ciò che è successo ieri:

non la sterile, inutile, vecchia e provocatoria disputa violenza-non violenza: è la questione della rappresentazione dei fatti connessa a quella della rappresentanza politica, altro problema del nostro tempo. Partiamo dalla rappresentazione dei fatti.

I giornali e i giornalisti borghesi – quelli prezzolati dalla borghesia “nera” come quelli della borghesia “grigia” o di quella stinta – non possono tollerare la rivolta di piazza.

I padroni e i banchieri altrettanto, a meno che non si tratti di quella “fiscale” che praticano costantemente e il cui carattere dannoso per le vite e le tasche del popolo non passa mai alla tv.

I partiti politici borghesi – neri, grigi e stinti – odiano la rivolta.

Ma tutti costoro odiano, più ancora della rivolta, le donne e gli uomini che ne sono protagonisti; quando poi sono giovani, l’odio si fa sconfinato.

E’ un odio che passa per l’insulto, per la distorsione della realtà e l’uso sistematico della menzogna, per la repressione poliziesca e la richiesta di galera senza limiti, di misure e poteri di polizia senza limiti.
L’occhio delle telecamere rende un’angolazione della realtà, oppure molteplici angolazioni: ma è la voce narrante che determina la “cronistoria”.

Per narrare la giornata di ieri non bastava essere vicini o dentro il corteo, presenti a Piazza S. Giovanni o appena oltre le Mura in Piazzale Appio. Era, è necessario voler osservare e raccontare  il vero dei fatti, la loro durezza e la loro scomodità,  facendo i conti con la propria sorpresa e con le novità che essi hanno rappresentato, così come con quelle che tutta la giornata ha squadernato. Per questo motivo, con questa intenzione abbiamo deciso di scrivere questo contributo: una lettura non di fatti altrui bensì  di fatti che ci riguardano e che abbiamo contribuito a determinare insieme a migliaia di altri e altre che ritengono questo mondo impossibile. Non a caso pensiamo che proprio a questo punto si ponga l’altra questione, quella della rappresentanza.

Uno dei concetti centrali che in tanti – donne e uomini, ragazze e ragazzi soprattutto – abbiamo espresso cento e cento volte durante il corteo, era quello della rappresentanza politica: imposto che partiti e sindacati non si avvicinassero con le loro bandiere perché niente e nessuno rappresenta – quindi parla e tantomeno decide a nome di –  questo movimento; perché chi sta in questo movimento si rappresenta da sé e si auto-organizza e non riconosce alleanze e mediazioni, salvo quelle, stabilite di tempo in tempo, con i soggetti sociali affini.

Questo è un dato reale, piaccia o non piaccia a chi già ha una qualche struttura che si misura e aspira ad accedere nel teatro remunerativo della casta: sia esso partito o partitino, sia esso sindacato concertativo, sia esso centro sociale o network di centri sociali.

Pensare di risolvere questa, come tutte le altre questioni cui ci troviamo di fronte, a colpi di servizi d’ordine o di regolamenti di conti interni al movimento non porterà da nessuna parte.

Questo potrebbe essere invece il tempo di costruire una forza di sinistra nuova, indipendente, allargata, in completa rottura con tutto ciò che fa parte di quelle satrapie di cui prima dicevamo, capace di riaggregare la frammentazione politica e sociale determinata da un istituzionalismo che ha cancellato la vocazione al cambiamento radicale.

Si deve avere il coraggio, la forza e la creatività affinché non si disperda  la voce di questo movimento, di tutto quel mondo che non può e non intende subire oltre precarietà, perdita di futuro e miseria.

Dopo la giornata di ieri forse si può fraternamente rispondere ai movimenti di Grecia, Spagna, del mondo chiedendo “stavolta, ci avete sentiti?”

E’ nostra convinzione che questa situazione-dalle condizioni di vita che oggi ci vengono imposte e che sono il modello che si perfezionera’nel prossimo periodo e che saranno definite dall’assenza di un futuro dignitoso per le prossime generazioni-si uscira’ solo attraverso uno scontro sociale di popolo e senza mediazioni possibili.

Per questa ragione se sara’ questo e noi pensiamo che sara’,e’ imprescindibile attrezzarsi e organizzarsi.

Tiziano Loreti
Sergio Spina