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Culture / Storie di “Tosti e giusti”, storie di coraggio e di antifascismo

Le racconta il libro che Valerio Monteventi presenterà venerdì a Vag61, tra le iniziative “Cirenaica antifascista” verso il corteo del 25 aprile. Storie di ribelli che “dimostrarono che nella vita si può e si deve osare”.

11 Aprile 2018 - 12:03

Storie di coraggio, storie di antifascismo. E allora: storie di Resistenza. Le gesta di Tempesta e Terremoto, i ragazzi terribili della squadra “Temporale” della 7^ Gap. O la liberazione dei detenuti del carcere di San Giovanni in Monte e gli assalti alla Komandantur tedesca all’Hotel Baglioni e alla polveriera di Villa Contri. Lo sciopero dell’1 marzo ’44 alla Ducati e il contributo fondamentale delle operaie staffette partigiane. E poi le battaglie di Porta Lame, della Bolognina e dell’Università. La notte del 21 aprile ’45, la stampa clandestina e le infermerie partigiane. Storie di “Tosti e giusti”, quelle raccontate dal libro di Valerio Monteventi (edizioni Pendragon) che sarà presentato venerdì 13 aprile a Vag61, in via Paolo Fabbri 110, nel cuore di un rione – la Cirenaica – che nel volume trova spazio attraverso le vite dei tanti partigiani che danno il nome alle sue strade. La presentazione del libro, inserita nell’ambito delle iniziative “Cirenaica antifascista” e del percorso di avvicinamento al corteo cittadino del 25 aprile, sarà accompagnata da letture e canzoni partigiane con il contributo di Chiara Di Stefano, Marco e Riccardo Tabilio, Erika Cavina, Claudia Grazioli e Sergio Deggiovanni. “Le storie raccontate in questo libro non sono tutte le storie delle Resistenza e, spesso, non sono quelle più ‘importanti’. Sono le storie- scrive l’autore nell’introduzione- che ho sentito a casa mia da piccolo o che mi hanno raccontato uomini e donne che, negli anni quaranta, erano dei bambini. Le ho messe insieme alle vicende dei combattenti della libertà a cui sono state intitolate strade di un rione di Bologna, il cui toponimo, Cirenaica, evoca le imprese del colonialismo italiano. Una contrada, però, che, nel Dopoguerra, ha visto i nomi delle vie che celebravano l’espansionismo italiano dei primi del novecento cambiati con quelli di tanti caduti antifascisti”.

Ancora dall’introduzione: “Questi ragazzi erano ‘tosti’ e ‘giusti’, lottatori per la giustizia sociale e per la libertà, il loro antifascismo era una cosa semplice e schietta. Con le loro gesta dimostrarono che nella vita si può e si deve osare, anche quando tutto sembra perduto. Erano ribelli dotati pure di una certa fantasia: le loro azioni erano diverse una dall’altra, a seconda che si trattasse di liberare dei detenuti o far saltare una polveriera, di mettere scompiglio tra le truppe tedesche o far pagare ai fascisti un prezzo alto per il loro tradimento. Potevano sembrare attori alle prime armi costretti a ‘recitare’ parti inconsuete per delle trame molto impegnative. In realtà, erano muniti di un ardore e di uno slancio straordinari e, di fronte alla situazione drammatica prodotta dall’occupazione nazista, riuscirono a prendere in mano il loro destino. Molti dei giovani che andarono in montagna o che scelsero la strada della clandestinità in città non avevano preparazione politica e avevano pure studiato poco. Ma l’impulso di libertà che li pervadeva li rese allergici, fin da subito, alla dittatura e li portò a combattere uniti contro il fascismo. Molti gappisti erano operai e pure tante staffette partigiane erano operaie. Fu la fabbrica la loro scuola, il luogo dove impararono a lottare e a organizzarsi contro le ingiustizie. Fu lo sciopero del 1° marzo del ’44 il ‘battesimo del fuoco’ che rinsaldò la loro adesione alle forze della Resistenza. Se si parla di fabbriche e di partigiani, va evidenziata pure una storia piuttosto singolare, quella dei tornitori meccanici. Nei gruppi gappisti di città ce n’erano un sacco e tutti erano audaci e coraggiosi, determinati e un po’ guasconi. Su questo fatto, quanto meno un po’ bizzarro, ho interpellato un vecchio compagno operaio, grande lottatore col gusto dell’arte della meccanica, e lui mi ha proposto una sua originale chiave di lettura: «I tornitori di una volta erano istrionici, usavano la macchina in modo conflittuale. Dovevano guidare gli utensili del tornio all’aggressione dell’acciaio, mirando dritti al centro del pezzo. Le loro mani, che prendevano ordini solo dal cuore, sembrava che parlassero. Ma la manualità non bastava, ci volevano anche estro e passione per fare uscire matasse di truciolo e ottenere il particolare meccanico desiderato. Le stesse cose di cui necessitava la guerriglia partigiana. Identici requisiti sarebbe molto più difficile trovarli in un fresatore. La sua caratteristica principale è la precisione, la meticolosità, il controllo costante degli avanzamenti, l’attenzione alle tolleranze. Lavorando con la fresa all’asportazione di parti del pezzo non tonde è richiesta molta meno fantasia. Un fresatore lo vedrei bene nell’organizzazione di una base e nel controllo certosino delle regole della lotta clandestina, meno nella battaglia di strada. Un lavoro forse più umile, più oscuro, ma sicuramente necessario». Sentendo queste parole verrebbe da azzardare che la Resistenza riuscì a vincere anche per l’inestimabile patrimonio di ‘sapienza manuale’ che i partigiani possedevano. Quei metalmeccanici prestati alla guerriglia usarono le loro mani come ‘attrezzi’ per dotare la lotta clandestina della strumentazione più adeguata”.

Scrive poi Monteventi: “Certo, quando gli anni passano (come nel mio caso), è facile diventare più loquaci nel raccontare le storie dei tempi che furono. Ma quando, nel farsele venire in mente, si incrociano episodi di grande dignità esistenziale o battaglie capaci di generare riscatto sociale è tassativo che la memoria ritorni ‘lunga’. Oggi, che il virus del fascismo è di nuovo in libera uscita, che si riaffacciano sulla scena raggruppamenti che si ispirano al ventennio e al nazismo, la memoria ‘corta’ è un lusso che non possiamo permetterci. Bisogna ricordare cosa furono le Leggi Razziali volute da Mussolini, quando, marciando sulle peggiori pulsioni della popolazione, prendono spazio retoriche populiste, fondate sulla xenofobia, sull’antisemitismo, sulla discriminazione delle minoranze etniche, religiose e sessuali, sulla guerra alla società multiculturale, sull’identità di razza e sul nazionalismo estremo. Poi ci sono altre cose impossibili da sopportare. Sono quei processi di cancellazione che mandano in frantumi la memoria e la storia. E’ da un po’ di anni che, periodicamente, rispuntano letture ‘revisionistiche’ tese a descrivere la guerra di liberazione come un sanguinoso ma ‘normale’ conflitto tra due fazioni politiche opposte (i partigiani e i ‘ragazzi di Salò’), con un numero imprecisato di vittime da entrambe le parti. Hanno provato a inzupparci come biscotti nella cosiddetta ‘pacificazione’, come se la grande rivolta popolare che nel ’45 sconfisse gli invasori tedeschi e i loro reggicoda in camicia nera fosse una battaglia tra soldatini di piombo. Tutto questo l’hanno chiamato ‘memoria condivisa’, anche se nessuno ci ha spiegato chi sarebbe che la condivide. Ci vorrebbero abituare alla storia come se fosse una specie di dermatite, sì un’infiammazione della pelle, conseguenza di un’irritazione o di un’allergia. Le cause possono essere le più svariate e tutti ne possono rimanere vittime: chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Ci vorrebbero convincere che la storia è fatalità e dalla fatalità tutto e tutti possono rimanere travolti… per cui vale la pena rimuovere”.

Continua l’introduzione: “Gli esercizi di rimozione della storia non sono come quelli di ‘bella calligrafia’. Se la scrittura elegante può giovare alla salute del corpo e della mente, l’indifferenza nei confronti di una memoria comune è un peso morto. Nel periodo politico e culturale che stiamo vivendo l’immaginario collettivo viene sottomesso a molteplici sentimenti di paura. E’ un immaginario poco libero, colonizzato, eterocostruito, arroccato nei confronti del ‘diverso’ e dell’altro. La politica è precipitata in una di parodia mediatica che lascia ben poco spazio a movimenti duraturi, a conquiste solide, a interventi che non siano di facciata. Perfino i sogni e i desideri di massa vengono manipolati. Con tutto questo dobbiamo farci i conti e uno dei modi per farlo, soprattutto per chi è della mia età, è quello di lasciare piccole tracce di memoria storica. Può essere un’operazione impegnativa, ma questo ‘peso della storia’ non ci dovrebbe spaventare e non andrebbe aggirato appiattendoci illusoriamente sul presente. Scrisse Piero Calamandrei: «E’ la nostra vita che può dare un significato e una ragione rasserenatrice e consolante al sacrificio di coloro che hanno combattuto per la Libertà, e dipende da noi farli vivere o farli morire per sempre… Cercare cosa fu la Resistenza vuol dire indagare dentro di noi che cosa è rimasto di vivo della Resistenza nelle nostre coscienze; che cosa si è tramandato in noi di durevole e quotidiano da quel tempo che già pare leggendario, e cosa ci sentiamo ancora capaci di tramandare di quel tempo a coloro che verranno dopo di noi». Verrebbe da dire: la nostra memoria è fatta dalle storie delle generazioni che hanno cercato di cambiare il mondo, che guardano al loro passato di lotta con orgoglio essendo consapevoli del prezzo alto che hanno pagato. Ed è per questo ci tornano in mente le parole che un giovane scapestrato digrignava tra i denti nel lontano febbraio del 1917: «Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti». Quel giovane si chiamava Antonio Gramsci”.