Opinioni

Culture / Della necessità del DIS/ordine

Si chiamano 0882, sono in quattro e si fanno in quattro per far girare la loro musica nei difficili percorsi dell’autoproduzione. E “parlano della terradisud, che batte sempre nel petto”.

03 Giugno 2018 - 15:45

di Simona de Nicola

Ci sono le forze dell’ordine, che ricordano i doveri, i limiti, le sanzioni.

E poi ci sono quelle del disordine, che invitano a guardare alle stelle, alla fuga, alla festa.

Ci sono quelli che ti spingono a dare sempre il meglio, ad AVERE successo.
E poi ci sono quelli che ti ricordano come è importante ESSERE te stesso, anche se fallirai.

Ci sono le città funzionali, veloci, produttive. Le città-vetrina.
E ci sono le città imprevedibili, dal ritmo sincopato. Le città-gioco.

Quasi sempre, queste due città sono una sola.
Io amo la strada, che tiene insieme tutte le facce della città.

Bologna, a Parigi, a Istanbul, a Buenos Aires, a Bogotà, al Defectuoso, a New Delhi, a Tokio, a Praga, a Sarajevo, ad Addis Abbeba, a Beruit, a Gerusalemme.
Nelle New York di tutto il mondo, i rapper – i cani randagi – fanno sentire la voce della strada.

Cantano coi suoni delle macchine che sfrecciano, con gli sbuffi e gli sfrigolii delle parti meccaniche della città.
Suonano come il metallo e il cemento dei lunghi falansteri, a rincorrersi per metri e metri nei quartieri popolari.
Hanno la parola battente, il beat puro, che dice della musica universale, della bellezza di quello che non puoi controllare, gentrificare, monetizzare.

Si fanno re della strada come i bambini, con una guerra di segni – sui muri, sui vagoni, su tutto ciò che sta lì fermo e che può essere tracciato.

Rappano nel quartiere, rappano nelle case, rappano negli studi di registrazione.

Ballano e si contorcono, come per espiare un demone che non sappia far altro che danzare.

“Fate che arte e musica siano le vostre armi”, così a ritmo di hip hop i ragazzi di Sulukule a Instanbul, nel documentario del 2013 dell’artista turco Halil Altindere, Wonderland, sulla distruzione di uno dei più antichi insediamenti rom al mondo

I nostri governanti vorrebbero sempre che la rappresentazione del mondo e dei nostri desideri nell’arte fosse nella stessa direzione dell’ideologia dello stato.

Ma così non è – mi scapperebbe di dire – così non è mai stato – se la memoria non mi inganna – così non sarà mai – mi verrebbe da sperare.

A lato di queste riflessioni sulla necessità dell’arte randagia, che nessuno mai vorrebbe nel suo salotto di casa, io ascoltavo la mia musica.
Come sempre, a palla nelle orecchie, in bici, a casa, a lavoro, sul bus.
E mentre le mie orecchie maledicevano e insieme amavano il volume che un giorno mi renderà sorda, ho fatto una bellissima scoperta.

Sono giovanissimi – e la loro musica non suona per niente come Fedez o Marracash.
Vengono dalla mia città – ed è un piccolo orgasmo per il campanilismo da terroni emigrati.
Vivono nella mia città – e questa è invece una conferma della salute, della vitalità di Bologna.
Cantano in dialetto – una gioia per le mie orecchie semiologhe.

Si chiamano 0882, sono in 4 e si fanno in 4 per far girare la loro musica nei difficili percorsi dell’autoproduzione. La formazione prevede:

Ponda  – rap, beat e graffiti
Melino – rap
Promo – rap
Dj Piesun- scratch e graffiti

In questi giorni esce il loro album d’esordio, che si chiama “Da ‘ndanne”. In copertina c’è la madonna più beyonceana della storia – a madonn u succurz, patrona di San Severo – pelle ebano e boccoli d’oro. Per l’occasione non regge soltanto il discusso bambinello (che nella statua originale è bianco!) ma gli strumenti della 10° arte, l’hip hop.

Partiamo dal dialetto, dal titolo.

Il disco si chiama “Da ‘ndanne”, che tradotto significa l’esclamazione entusiasta o irritata di chi finalmente ottiene qualcosa. Tipo, “finalmente”, o “era ora”.

Molti dei loro testi sono in dialetto, ma “in realtà non è stata una scelta stilistica, è una cosa istintiva, un parla come mangi, parlare semplice per la gente semplice. C’è chi pensa che rappare in dialetto sia una sorta di imitazione, invece per noi il dialetto è qualcosa di potente, che racchiude interi concetti. Siamo fieri di possedere un tale repertorio lessicale e di tramandare in qualche modo termini e genuinità passate”.

Registrano e fanno beat in casa, per poi passare le tracce a gente che si occupa di mix e master. Per i beat si privilegia la maniera “alla vecchia”, campionando da vinile e lavorando su campionatore. Ma non disprezzano i cambiamenti portati nel turntablism dai sistemi timecode in vinile, a cui anche i puristi più affezionati al microsolco si sono affidati negli anni.

Parlano della terradisud, che batte sempre nel petto.

Terra da cui si fugge – per necessità o per desiderio –  e a cui sempre si pensa, per tutta la vita, come alla propria Itaca a cui tornare.

“Il rap è probabilmente la musica più diretta che esista al mondo e il dialetto si presta perfettamente a questo. Il sanseverese esprime il nostro essere – chi conosce un sanseverese sa di cosa parlo. Solo nel 2018 esce un disco tutto nostro. Un disco dovuto alla gente che ci conosce, vogliamo far sentire che pure dalle parti nostre si muove qualcosa. Anni per farlo, anni in cui soprattutto per motivi lavoro abbiamo cambiato città, stanze, posti letto, ma in ogni luogo che abbiamo attraversato abbiamo lasciato una traccia del nostro passaggio. Con della vernice, con delle rime, con le nuove connessioni nate con gente conosciuta a giro, lontana km ma con cui ti puoi sentire a casa”.

Io sì, capisco che cosa intendono quando dicono “se conosci un sanseverese sai di cosa parlo”. È terra difficile, è terra magica, è terra di Andrea Pazienza, di delinquenti sciolti, di gitani diventati sedentari. È terra di ulivi e vigneti, col mare che la chiama dall’orizzonte.

A San Severo un detto dice:
“A sanzvìr s kjov’n tarall mang wùn và ndèrr”.

È la saggezza popolare che parla dei cornuti, “gente che non merita, gente che non sa, gente che crede di avere la verità in tasca ma in reltà è sòl nu crnùt”.

E comunque, come dice il Uaglione del rap italiano, “se non capisci le parole puoi sentire il funk”.
Se ti perdi nel significato, resta il beat, aggrappati a quello.

> Link: 0882fam.bandcamp.com