Culture

Che succede al rap? Parla Picciotto: “Il mainstream è un’occasione, sta a noi instillare domande e riflessioni”

La quinta tappa del ciclo di dialoghi di Zic.it sul rap: l’intervista a Picciotto spazia dai primi sound system nelle manifestazioni di piazza all’attenzione per lo storytelling, tra “musica che resta” in mezzo a tanta “musica fast food”, passando per Genova 2001 e i laboratori nelle scuole.

29 Maggio 2021 - 11:50

Dopo le interviste a Inoki, Kento, Principe e Aban, prosegue lo speciale sulla situazione del rap in Italia: è la volta di Picciotto.

Come ti sei avvicinato alla cultura hip hop? Cosa rappresenta per te?

Ciao a tutt*, mi avvicino al rap e al macromondo dell’HH attraverso le piazze e le manifestazioni. In particolare, fu un vertice G7 tenutosi a Palermo nei primi duemila con il corteo di protesta annesso che mi fece innamorare dello strumento sound system. Ascoltare dalle casse la colonna sonora che rispecchiava le emozioni di un intero movimento di persone per le strade mi ha fatto capire quanto potente possa essere la musica e quanto attraverso questa abbiamo modo di raccontare e raccontarci. Dico spesso che la mia attività musicale è una conseguenza del mio impegno politico e sociale, negli anni sono cambiate tante cose ma le due anime restano ben salde e tuttora sono in
continua sperimentazione dei linguaggi più efficaci per far comprendere meglio (specie ai più giovani) quanto sia importante raccontare l’IO e ricercare il NOI.

Nei tuoi testi l’impegno sociale è sempre presente e non si limita ad un mero rap che ripete slogan di protesta, infatti tendi sempre a dare dei riferimenti precisi sulla realtà che ti circonda, ci viene in mente “Amarcord”, ma anche “La mia casa”, da cosa nasce  questa esigenza, questo bisogno di andare al fondo delle cose senza fermarti alla superficie? Ed il tuo metodo/tecnica di scrittura? Vediamo infatti che cerchi spesso di metterti nei panni di chi lotta o subisce ingiustizie per diventarne voce, è un aspetto abbastanza peculiare considerando i testi di oggi, quali sono state le tue influenze?

Ovviamente le mie influenze partono dall’onda lunga di quello che veniva definito “rap militante” , etichetta che mi è sempre stata stretta così come tutte le etichette in generale. Ho sempre apprezzato chi riusciva ad essere trasversale nella comunicazione e sapeva parlarti di argomenti complessi con una buona dose di leggerezza. Caparezza resta per me l’esempio maggiore in tal senso in questo paese. La mia scrittura continua ad evolversi, dalle metriche raggemuffin del primo disco con acerbe melodie e tanti extrabeat sono passato ad una maggiore consapevolezza degli strumenti voce e penna. E’ come se attraverso la scrittura riconciliassi testa e corpo. In questo mi aiuta molto la tecnica dello storytelling sulla quale mi sono negli anni affinato fino a diventarne “esperto/formatore” in vari progetti che faccio nelle scuole e nei quartieri “difficili” della mia città.

Ad ispirarmi paradossalmente è stata la musica neomelodica. Vedere quanto sia ascoltata in tanti quartieri del sud mi faceva porre delle domande e a modo loro anche i neomelodici fanno storytelling. Parlano spesso di storie di emarginazione, di difficoltà, d’illegalità, e il successo è proporzionato all’immedesimazione nei testi di tantissimi abitanti dei quartieri popolari. Per questo da “storyborderline” in poi ho cominciato ad immedesimarmi nell’attore/regista che vede e racconta (a modo mio ovviamente) ciò che succede tra i marciapiedi che sono i palchi di periferia.

Cosa ne pensi di quanto sta succedendo con il rap, che in Italia da megafono delle proteste dei primi ’90 si è lentamente trasformato nel nuovo pop?

Penso che sia una cosa positiva con un grande rischio di deriva. Il fatto che il rap sia mainstream è un’occasione da sfruttare per tutti, il rapper non è più visto come “lo sfigato che veste strano e che dice yo fratello” ma oggi è preso come status da tantissimi giovani che hanno l’orecchio allenato a certe sonorità molto più di quelli della mia generazione. Vedo una grande evoluzione stilistica e un pò troppo appiattimento culturale nelle tematiche ma credo sia la conseguenza dei tempi di “disimpegno politico” che viviamo. Tocca anche a noi cercare d’instillare domande e riflessioni attraverso i testi nell’ascoltatore continuando ad avere fiducia nel pubblico che metaforicamente significa avere (ancora) fiducia nell’essere umano capace di ascoltare e determinare le scelte nella propria vita. Poi per me il pop, se inteso come popolare, è bello perchè unisce.

Da cosa pensi che derivi questa cultura così machista nei testi rap degli ultimi anni? E cosa pensi del fatto che la cosiddetta scena non prende mai una posizione netta?

Nei miei brani ho sempre preso posizione. Forse anche troppo. È un tratto contraddistinguibile della mia musica conseguenza di una precisa scelta. Vengo dalla mentalità HH dell'”ognuno faccia la sua cosa” e non mi va di passare per quello che deve mettere confini nell’espressività di ognuno che si cimenta al mic. Ovviamente ho dei gusti, ma devo dire grazie alla tanta “musica di merda” che per lavoro ascolto. In mezzo all’iperproduzione rap degli ultimi anni spuntano belle scoperte e il solito “copia/incolla” dei soliti clichè. La cosa che mi tiene ben saldo è la responsabilità che avverto ancora quando impugno la penna e il microfono. A prescindere da quanta gente c’è sotto il palco o in rete mi sento privilegiato ogni volta che qualcuno mi ascolta e il mio obiettivo è proprio quello di lasciarti qualcosa dentro attraverso la musica. Provare a fare “musica che resta” in mezzo a tanta “musica fast food”.

Stiamo vivendo un’era dove tutti si parlano addosso ma nessuno ha più voglia di ascoltare davvero, quindi i testi dove si ostentano sessismo, denaro ed ogni forma di potere sono una conseguenza di chi fa “la scelta di comodo”, la cosa più “facile” o la provocazione più sterile. Sono consapevole del danno che da questo può scaturire ma voglio vedere anche l’altra faccia della medaglia come l’opportunità di confronto che un testo dal quale mi dissocio può darmi. Il confronto, se sano, così come il conflitto è sempre costruttivo.

Hai seguito cosa sta succedendo in Spagna con Pablo Hasel o anche in Italia con Bakis Beks, o per passare al writing con Geco, che opinione hai in merito?

Anche in questo caso c’entra molto la politica. Quella con la P maiuscola però. Tantissima arte è prodotta dal basso, col cuore. Spesso viene sussunta dal capitalismo che la trasforma in moda rendendola sterile. I casi sopracitati sono casi “fastidiosi” nel senso che pungono lo status quo e che quindi si tende a reprimere per non creare precedenti di consapevolezza. E’ come quando la polizia nelle manifestazioni viene indirizzata a picchiare appositamente i più giovani. Sperano di ottenere l’effetto che “la prossima volta ti stai a casa”. Non considerano però l’effetto contrario ovvero “la prossima volta torno più incazzato e consapevole” e magari l’esempio di chi non si arrende può tramandare ancora ispirazione anche alle generazioni future. Con me è successo così.

In Usa il dibattito sulla violenza della polizia è centrale, eppure qui buona parte della stampa e dei commentatori politici sembra non affrontare mai il tema nonostante la barbara uccisione di Aldrovandi e di Cucchi, e molti altri casi ancora aperti, per assurdo se ne sono occupati molto di più i rapper, tu hai scritto un bellissimo pezzo sul tema, da cosa deriva quest’esigenza?

Anche in questo caso per me è una conseguenza naturale. Conosco bene certe dinamiche e so fin dove può arrivare l’abuso di potere. Fin quando avrò un fil di voce continuerò a metterla a disposizione di chi ne ha meno di me, di chi subisce ingiustizie affinché non siano liquidati come “casi isolati”. È una strategia ben precisa quella delle repressione. “Noi siamo morti a Genova” (cit. 99Posse) e al contempo siamo figli di quegli anni. Sono passati 20 anni esatti da quando un proiettile partito da un defender della Polizia uccideva un giovane di 20 anni in piena piazza. Alcuni Tg dicevano che era stato un sasso ad ucciderlo. Ricordare serve ma la memoria può essere fine a se stessa se non viene contestualizzata al presente e proiettata verso un domani collettivo. In questo la musica può aiutare tantissimo.

Quali sono i tuoi progetti futuri? Fai ancora laboratori di scrittura creativa?

Il termine “futuro” un pò mi spaventa. Siamo in una fase sospesa. Ho cominciato a scrivere un nuovo disco un anno e mezzo fa, l’ho riscritto in piena pandemia, poi pensavo di averlo chiuso, poi l’ho riaperto. Oggi sono contento di non averlo fatto ancora uscire. Non m’interessa pubblicare dei brani e svilire tutto il lavoro che c’è dietro una creazione per avere 48h di hype sui social e venire ingurgitato da un mercato sempre più tendente a bruciare in fretta gli artisti e sostituirli col prossimo. Mi sto prendendo il mio tempo combattendo la mia ansia, voglio ragionare bene sull’intero progetto “Picciotto” per avere un upgrade artistico completo e questo non può che passare anche e soprattutto dai live. Se non avremo certezza di quando potremmo tornare sui palchi, per quelli come me, non ha molto senso pubblicare. E’ sul palco che vogliamo stare. E poi per strada, ed è proprio grazie ai laboratori di scrittura che continuo ad essere presente in tanti territori della mia città. Usciranno a breve un paio di videoclip con delle krew di adolescenti di Borgo Vecchio (quartiere di Palermo col più alto tasso di dispersione scolastica) frutto di mesi di laboratorio di rap con adolescenti. Uscirà un brano corale che mi ha visto protagonista di un laboratorio di storytelling (su Zoom!) con quasi 50 iscritti, sono in finale al premio letterario InediTo come autore, infatti mi sto cimentando da un pò nella scrittura per altri interpreti ed infine ho appena presentato un brano inedito sui diritti umani al contest di Amnesty International.

Continuo a fare scouting attraverso “Palermo Suona” (piattaforma creata con Enrico Cantaro) dove abbiamo dato voce a centinaia di artisti emergenti durante quest’ultimo anno di assenza sui palchi e continuo a ricevere quotidianamente provini di giovani artisti che mi fanno constatare quanto talento e bisogno di esprimerlo ci sia nella mia città. Spero un giorno di poter creare professionalmente un movimento che unisca le persone prima dei personaggi e che attraverso la musica consenta di mettere un riflettore ben puntato su Palermo che non ha niente da invidiare al resto d’Italia ma che purtroppo non è il posto migliore attualmente dove pensare di lavorare con la musica. Insomma, fermo non ci riesco a stare e,come diceva qualcuno, “avrei voluto una rivoluzione, per il momento, faccio movimento per il movimento!”.