Attualità

Aboliti i voucher, la precarietà resta

In 14 anni si sono trasformati in un alibi per sfruttare manodopera sottopagata. Oggi, mentre gli stessi che li avevano voluti gridano vittoria, l’unica certezza pare la mancanza di tutela dei lavoratori più deboli.

18 Marzo 2017 - 17:46

Il consiglio dei ministri per decreto ha abolito i voucher. Ad avanzare la richiesta di abrogazione degli stessi è stato in primis il ministro del Lavoro e delle politiche sociali Giuliano Poletti. Lo stesso che nel 2015, quando era in carica nel governo Renzi, aveva promosso il Jobs Act e con questo sdoganato il ricorso al lavoro accessorio via scontrino.

Ma questo è solo l’ultimo dei fallimenti delle politiche del lavoro italiano. Dal 2003, anno di istituzione dei buoni lavoro, al 2017, anno della loro eliminazione, governi, istituti di previdenza, commissioni parlamentari, di riforma in riforma non hanno fatto altro che incentivarne l’uso fino a renderli lo strumento di più larga diffusione tra i lavoratori precari.

Quando vennero istituiti per la prima volta con la legge Biagi, dovevano servire solo per le “prestazioni di lavoro accessorio meramente occasionale in riferimento a soggetti a rischio di esclusione sociale”, come i disabili per esempio, e non potevano avere una durata superiore ai 30 giorni. Da quel momento in poi, tutti i governi che si sono succeduti a Chigi, hanno messo mano allo strumento. La prima cosa che hanno fatto è stato escludere l’opportunità per i disabili e abbassare il limite d’età per i lavoratori aumentando indiscriminatamente la platea. Immediatamente dopo hanno ampliato i settori di riferimento dando la possibilità a fabbriche, imprese edili, aziende agricole e anche pubbliche amministrazioni di ingaggiare il lavoratore all’ultimo momento pagandolo con uno scontrino da 10 euro. Ed è così che in breve tempo i voucher, per decreto, sono diventati da strumento per la tutela dei lavoratori in condizioni si svantaggio ad alibi per il lavoro nero e precario a tutti i livelli.

I sindacati confederali, quelli che dopo aver convocato un referendum per l’abolizione dei voucher e che oggi gridano vittoria “per aver ottenuto dal governo quello che chiedevano”, sempre lontani dall’avere una percezione reale del mercato del lavoro, fino al 2015 non avevano la minima idea di cosa fossero questi ticket e quale fosse il loro impatto sui lavoratori.

Gli unici ad accorgersene sono stati i più giovani. I neolaureati, gli studenti lavoratori, gli educatori, gli stagionali del turismo, i camerieri e i baristi, i braccianti, gli artigiani. Insomma quei 60 mila voucheristi che, solo nell’ultimo anno, invece di poter contare su un contratto di lavoro che mette nero su bianco orario, paga e previdenza, hanno avuto tra le mani solo uno scontrino stampato dalle tabaccherie. Per un totale di 130 milioni di ore lavoro somministrate nel solo 2016. E a nulla è servita la correzione della scorsa estate che finalmente ne imponeva una corrispondenza univoca tra ore di lavoro e numero di voucher.

Da oggi, mentre anche chi li aveva sostenuti grida vittoria per l’eliminazione dei voucher, c’è già qualcuno a lavoro per pensare a un nuovo escamotage per sfruttare le fasce di lavoratori più deboli. Uno degli scenari più facili da immaginare nel breve periodo è il ritorno al famigerato e mai sconfitto “lavoro a chiamata”. O forse salterà fuori una nuova formula. Ma rimarrà un’unica certezza: il completo disinteresse nel voler dare tutele ai lavoratori precari.