Opinioni

Culture / Mi disegni quello lì?

Una dichiarazione d’amore per un uomo morto d’amore (e un invito a vedere un bellissimo spettacolo a lui dedicato – Mi chiamo Andrea e faccio fumetti).

16 Dicembre 2018 - 16:10

di Simona de Nicola

Sono esigente – anzi sono intransigente – su poche cose.
Lo sono soprattutto sulla scrittura, sulla musica e sul disegno.

Credo ad esempio che nessuno potrà replicare con un altro segno quello della scrittura di Calvino, così vicina all’osso, all’essenza.
Che nessuno potrà appendere le parole alla musica con la leggerezza di Lucio Dalla – nessuno in quello spazio dove vola lui, vicino vicino alla strada e poi lontano lontano, tra le stelle.
Che nessuno troverà mai la linea perfetta che separa la poesia dal disegno come l’ha fatto Andrea Pazienza, col suo inchiostro imperfetto e le sue parole piene d’amore.
Nessuno, almeno in Italia.

Ma cambio idea spesso e per fortuna ricordo la massima “conosci il disordine, rompi gli schemi, contraddici te stessa, guarda l’altrove, svolta, svolta, scappa”.
Purtroppo non ricordo di chi fosse il consiglio, ma lo ricordo, sempre.

Ieri mi sono ricordata anche di un’altra cosa: quando avevo cinque o forse sei anni, avevo da poco iniziato le elementari e conoscevo per la prima volta la magia del segno – della parola, del di-segno.

Alla sera chiedevo a mio padre sempre la stessa cosa – chissà quando ho smesso.
Gli facevo “Papà mi disegni quello lì?”.
Lui mi sorrideva, col sorriso storto che ho poi amato in tutti gli uomini che ho incrociato.
Prendeva carta e penna e iniziava, lentamente.
Partiva dal nasone, poi la bocca stretta, la sigaretta incastrata e il ciuffo spavaldo in cima.
Mi faceva un sacco ridere, mi faceva un po’ paura “quello lì”.

 

Non sapevo chi fosse, ma ora so che mio padre – forse senza volerlo – aveva ricevuto il microbo contagioso del segno e delle storie di Andrea Pazienza. Un’intera generazione contagiata dal suo segno, dalle sue storie.

Quello lì era il Cattivo, il tosto, il tipo che faceva ridere e innamorare tutti.
Quello lì era Zanardi.

Mio padre disegnava il profilo di Zanardi – che ai miei occhi di bambina era qualcosa di divertente e pauroso – e senza saperlo aveva iniziato l’assurda storia d’amore con questo ragazzo bellissimo, mai conosciuto, perfettamente conosciuto.

Ci sono persone che ti mancano senza averle mai conosciute. Così è per me con Paz.
Non so disegnare, non ho mai studiato, non ci ho mai provato. Però disegno benissimo le stelle, perché da bambina ho imparato da Andrea.
Quando rido col cuore, quando piango con le ossa, io spesso penso a Paz.
Sono sicura che ci saremmo innamorati, mi consolo così della sua assenza.

Andrea Pazienza

Ho letto i fumetti di Andrea prima di quelli di Topolino – su cui anche Paz aveva ragionato: è necessario passare per i miti, soprattutto quelli che non si amano, fosse anche solo per distruggerli e trovare le ragioni per inventarne di nuovi. Per distruggere i baloons, le vignette, le griglie, gli schemi, lo spazio chiuso. Per esplodere, risorgere (“ma vuoi mettere, Risorgere?”).

Andrea è nato a San Benedetto del Tronto ma è cresciuto a San Severo – Sun Severo, la città del sole e non “la città del mio pensiero dove prospera la vite e l’inverno è alquanto mite” (tutti attribuiscono questa frase a Perenza, ma no, era la réclame di una pubblicità che il vecchio Perenzachenonsbagliamaiallapartenza aveva rimasticato e risputato colla sua grazia maledetta.)
Sun se è vero è anche la mia città, Andrea faceva le elementari col padre di cui sopra, e a San Sepolcro non hai scampo: se vuoi sopravvivere, se vuoi volare, devi crescere in fretta.
A Sun Severo comandano i randagi e il mare è una tentazione sempre troppo vicina, un invito a salpare, andare lontano. Andrea lo sapeva e arrivò a Bologna, dove incontrò il ’77, i giovani in rivolta, il sogno di un mondo migliore, Francesco Lorusso, l’eroina, le Brigate Rosse, l’amore.

“Forse la giovinezza è solo questo perenne amare i sensi e non pentirsi”, diceva Sandro Penna, uno dei poeti più amati da Andrea e forse è per questo che Andrea resterà sempre giovane, sempre amato dai giovani, da chi non si pente.
Da chi non torna indietro, “nemmeno per prendere la ricorsa”.

E insomma era con questo carico d’amore enorme che sono andata a teatro ieri, a vedere chi erano questi quattro arroganti che pensavano di poter raccontare tutto questo amore.
E per fortuna che mi ricordo della massima “contraddici te stesso”.

Mi chiamo Andrea, faccio fumetti è una storia d’amore, il tentativo – riuscito – di non tradire, di non provarci nemmeno a tradurre Pazienza con un altro segno.
Santonastaso mette sul palcoscenico un pezzetto della storia di Paz con rispetto, col rispetto che si deve a un samurai, al samurai più bello.

Non è vero che non ti sei perso niente Vecchio Paz, io ti vedo passeggiare sul mare con Astarte – avresti avuto un cane e l’avresti chiamato così.
Ti vedo perderti nella linea che separa il mare dal cielo e sorridere, pensando che – in fondo, vicino vicino all’osso – non c’è niente da fare.

Che è già tutto lì, maledetto, e che non c’è niente di più sublime di ciò che è semplice.

 

 

 

Mi chiamo Andrea, faccio fumetti 

Uno spettacolo del Teatro dell’Argine
di Christian Poli
con Andrea Santonastaso
regia Nicola Bonazzi