Continua la distruzione di posti di lavoro

Inchiesta / Come sarà l’autunno?

LA VICENDA INNSE NON RIMARRA’ ISOLATA
operai FIAT La lotta degli operai milanesi della INNSE di Lambrate (la vecchia ex Innocenti) ha posto all’attenzione di tutto il nostro paese il dramma sociale della perdita del posto di lavoro. La resistenza agostana di quei 5 operai appollaiti a dodici metri d’altezza sopra una gru e delle poche centinaia di persone che hanno espresso a loro una costante solidarietà fuori dai cancelli della fabbrica, ha riavvicinato i lavoratori italiani ai loro fratelli d’oltralpe francesi che, nei mesi passati, avevano aperto gli occhi a tutta l’Europa con forme di lotta radicali e inusuali, rispetto alle pratiche tradizionali del movimento operaio.
Certo, tra gli operai dell’INNSE e i loro compagni transalpini c’è una differenza di obiettivi: in Francia i “sequestri dei manager” erano mirati a spuntare una buona-uscita più consistente, all’INNSE la lotta non è stata per rimpinguare il magro assegno di mobilità, ma per tenere in vita la fabbrica: perché non si voleva, dopo anni di un lavoro manifatturiero con alti contenuti professionali, essere eventualmente “ricollocati” a riaggiornare gli scaffali di un supermercato con scatole di biscotti o pacchi di pasta.
Le giornate di resistenza agostana dei lavoratori dell’INNSE ci hanno poi fatto assistere, in un’epoca di identità “guaste” di stampo leghista, a un sorprendente ritorno di “orgoglio operaio” che, probabilmente, insieme alle “iniezioni di fiducia e ottimismo” del governo Berlusconi riusciranno nell’impresa in cui l’asfittica sinistra italiana ha sbattuto la testa: coniugare il disagio sociale alla ripresa del conflitto sociale.
Di sicuro, la vicenda INNSE non rimarrà isolata. Andrea Fumagalli (uno dei pochi economisti “fuori dal coro”) sostiene che “è fortemente a rischio la tenuta dell’industria italiana nel settore della subfornitura specializzata”, si tratta di realtà produttive a medio-alto contenuto tecnologico e con valore aggiunto più elevato della media manifatturiera. Per Fumagalli “il capitalismo italiano, di natura famigliare e non manageriale, si rileva ancora una volta miope, con orizzonti strategici di breve-brevissimo periodo”. Se l’obiettivo primario è un’attività speculativa da redditività immediata, è evidente che nel contesto attuale, vi è un solo settore che garantisce questi risultati. Si tratta del business immobiliare che, in diverse regioni del Nord, “aiuta” ad accelerare (con la connivenza della classe politica locale e, a volte, delle burocrazie sindacali) lo smantellamento produttivo di quelle attività manifatturiere ancora in buono stato, ma con margini di profitto inferiori a quelli auspicati con la riconversione al mattone e al cemento.
Per quanto riguarda il territorio bolognese, la vicenda delle Fonderie SABIEM è paradigmatica (e in questo caso, la lotta è stata sconfitta, non è arrivato nessun “padrone illuminato”, l’accordo che il sindacato aveva sottoscritto, ma che i lavoratori hanno respinto, sarebbe stato una sorta via libera rispetto alle clausole richieste dagli Enti locali per la “valorizzazione urbanistica” dell’area).

MAÎTRE À PENSER? NO SOLO PRÊT-À-PORTER DEL CAPITALISMO
operai rottamazione In questa situazione, però, c’è ancora chi è più realista del re. Si tratta del prof. Pietro Ichino, probabilmente uno dei rappresentanti più autorevoli della destra economica italiana (e forse per questo, non casualmente, parlamentare del PD), che, a suo modo, è andato contro-corrente, sostenendo che, con lotte come quelle della INNSE, “il sindacato spinge i lavoratori in un vicolo cieco”. Secondo Ichino, si tratterebbe “di riti stanchi, di uno schema logoro, che costringe i lavoratori a rimanere attaccati ad un padrone incapace e inaffidabile”. Ichino, nella sua “ingenuità proto-capitalistica”, si domanda “perché tanto accanimento quando sarebbe facilissimo ricollocare quei 49 lavoratori altrove? Basterebbe accettare i licenziamenti da parte sindacale in cambio di serie politiche di ricollocamento (outplacement) da parte dell’imprenditore”. Dopo il risultato della lotta di resistenza degli operai dell’INNSE, Ichino se avesse una parvenza di coerenza intellettuale, sparirebbe per un po’ dalle prime pagine dei giornali con i suoi editoriali da quattro soldi.
E, invece, il professore/editorialista/parlamentare è stato protagonista in questa estate di lotta operaia, di licenziamenti annunciati, di lavoratori 40/50enni che si ritrovano senza lavoro con scarsissime possibilità di essere ricollocati, di una proposta dal sapore provocatorio: si tratta di un disegno di legge bipartisan e bicamerale (firmato anche da Giuliano Cazzola, ex sindacalista CGIL, oggi parlamentare PDL, da Emma Bonino del Partito Radicale, da altri parlamentari del PD come Treu Morando e Bianco e da Mazzuca del PDL) teso a permettere di lavorare oltre i limiti di età pensionabile con incentivazioni. Ichino l’ha definita una proposta che sfida le “leggi di gravità finanziaria”. Secondo l’illustre esponente PD “dalla prosecuzione del rapporto di lavoro trae vantaggio il lavoratore per un maggior reddito da pensione (quando andrà a riposo) per i contributi versati nell’ultimo periodo; trae vantaggio il datore di lavoro per la riduzione cospicua del costo del lavoro del dipendente anziano; trae vantaggio l’INPS per il dilazionamento del trattamento pensionistico e per i contributi ridotti che vengono versati nel frattempo”. Per Ichino, “se tre lavoratori su dieci optassero per questa scelta, invece che per la pensione di vecchiaia, ci sarebbe un notevole risparmio”.

SCUOLA DI “DELOCALIZZAZIONE”
operai in catena Altra questione paradassole è quella dei finanziamenti governativi avuti dalla FIAT per salvaguardare i posti di lavoro e rilanciare le produzioni italiane. Prima abbiamo assistito all’accordo super-osannato con la Chrysler, poi, più recentemente, si scopre come l’azienda automobilistica torinese stia puntando sugli stabilimenti polacchi, per i bassi costi degli stipendi, per i ritmi e i tempi di lavoro.
Mentre in Italia si va in CIG, mentre a Termini Imirese si va verso la chiusura, mentre a Pomigliano si rischia la cessazione delle attività produttive, in Polonia (sono parole dell’amministratore delegato Marchionne) “con un solo stabilimento la FIAT raggiunge la stessa produzione dei cinque stabilimenti italiani messi assieme” (FIAT Polonia – Tychy 5.800 dipendenti per 600 mila vetture l’anno; FIAT Italia – Mirafiori 5.000 addetti all’attività produttiva, Cassino 4.000 addetti, Pomigliano d’Arco 5.000 addetti, Melfi 5.200 addetti, Termini Imerese 1.400 addetti per una produzione di 600 vetture l’anno).
E’ bene ricordare che, nel 2003, con la sottoscrizione di un accordo di programma per Pomigliano d’Arco, la FIAT incassò 2,5 miliardi di euro per il rilancio produttivo del sito in 5 anni (quei soldi equivalgono ai salari di tre generazioni di operai di quell’area). Senza contare che il gruppo torinese ha ricevuto, in diverse altre occasioni, incentivi statali, soldi per le rottamazioni ed altri benefit (è lecito pensare che una parte di questi siano finiti nel gruzzolo “nero” che Gianni Agnelli aveva portato all’estero?).
Ma torniamo a Tychy: lì le catene di montaggio sfornano auto ogni 35 secondi. Si tratta di uno standard produttivo che neanche i giapponesi riescono a sostenere. Costruiti dalla FIAT negli anni Settanta per produrre le “126”, adesso i reparti di Tychy fanno uscire le “nuove 500”.
Gli operai polacchi non hanno salari “europei”, fanno straordinari in grande quantità, in Polonia non ci sono Cassa Integrazione e altri ammortizzatori sociali. Un tempo i vecchi operai di Tychy impararono il mestiere a Cassino, a Melfi o a Mirafiori; adesso quelli della Chrysler andranno a studiare a Tychy.
Se un paio d’anni fa era l’idraulico polacco a far paura ai suoi colleghi europei, oggi è l’operaio polacco a ritrovarsi in quel ruolo.
Ma non è solo nel settore automobilistico che vediamo spostamenti di produzioni nei paesi dove il costo del lavoro è più basso e i diritti dei lavoratori sono quasi inesistenti: nella Milano che si prepara all’EXPO 2015, il Polo delle Comunicazioni di Cinesello Balsamo e Cassina de’ Pecchi è messo in discussione dalla proprietà, la Nokia Siemens Network, e 600 ricercatori rischiano il poso di lavoro.
La ricerca dell’azienda della telefonia mobile (per metà finladese per metà tedesca) sulle teconologie di terza e quarta generazione abbandonerà il Nord Italia per approdare in Asia, a Hangzhou (Cina) e Bangalore (India). Le ragioni sono queste:
- la ricerca del terzo mllennio se vuole stare al passo coi tempi deve essere vicina ai mercati in sviluppo per potere comprendere richieste e mutamenti;
- Cina e India sono le aree in cui i settori commerciali della telefonia pensano di potere sviluppare nell’immediato futuro il mercato;
- i mercati giudicati maturi come quello italiano devono essere gradualmente abbandonati per altri in espansione.
Scelte di questa natura che un tempo riguardavano il settore manifatturiero, le fabbriche tessili e chimiche, oggi interessano anche il settore della ricerca, si tratta di posti di lavoro, considerati fino a ieri “pregiati”, che non ritorneranno più e prenderanno la strada dell’Oriente come negli anni passati fecero i prodotti “poveri” facilmente copiabili. Gli standard di qualità delle università cinesi ormai si equivalgono a quelli degli atenei italiani e, a questo punto, la competizione si gioca solo sui costi (un ricercatore italiano costa alla multinazionale all’incirca 45 euro all’ora, in Cina costa la metà). La multinazionale tedesco-finnica è disponibile a “salvaguardare” le sedi di ricerca in Finlandia e in Germania, ma non ha più nessun interesse per l’Italia. Per i 600 ricercatori milanesi si prospetta un vero e proprio calvario. Hanno sui 40/45 anni e quindi non possono usufruire di prepensionamenti. Chi di loro si è messo alla ricerca di un nuovo lavoro si è visto fare proposte da 1000/1200 euro mensili (contro i circa 2000 guadagnati oggi) per contratti a progetto.
Si sostiene che non siano tipi da bloccare la tangenziale, fino ad ora non sono entrati nell’ottica di organizzare picchetti o manifestazioni eclatanti (hanno organizzato scioperi in bianco o delle “performances teatrali” come il “funerale della ricerca”)… forse sarà meglio che comincino a pensarci…

CRISI, LICENZIAMENTI E DISOCCUPAZIONE
La crisi sta per finire? I governi europei in carica e soprattutto quello italiano fanno a gara a seminare un incosciente ottimismo. I ministri economici blaterano sulla imminente ripresa, dichiarando ai quattro venti che la crisi sta per terminare.
I dati sull’incremento della disoccupazione non lasciano però molti margini a illusioni “facili” e “false”. La distruzione di posti lavoro non è di tipo congiunturale, ma strutturale: questa tendenza non si potrà invertire di fronte ai primi timidi segnali di ripresa.
A meno che non si voglia utilizzare un indicatore molto particolare come quello preso a campione dalla autorevole BBC britannica: un segnale della “svolta” dalla crisi nel Regno Unito starebbe nel rallentamento dei consumi di un tipico bene da bassa congiuntura: i fagioli in scatola.
Del resto, anche a Wall Street, dopo i recuperi delle Borse successivi a lunghe cadute, si usa spesso una battuta: “Anche un gatto morto rimbalza (se lo butti giù dal nono piano)”.
Pur se Obama sfoggia ottimismo per il migliore andamento dell’economia rispetto alle previsioni, il tasso di disoccupazione negli Usa, che nel 2009 è al 9,3 %, per il 2010 è previsto per il 10,1 %.
Come si può parlare di “graduale ripresa” come ha fatto la Banca Centrale Europea se per il prossimo anno la stessa BCE prevede un tasso di disoccupazione al 10,9%?
In Italia, nel mese di luglio è esplosa la “Cassa Integrazione Speciale in deroga”, ben il 278% in più rispetto al mese di giugno, le ore di Cig autorizzate sono state 90,5 milioni, si tratta del 386% in più rispetto allo stesso mese del 2008. Si tratta di centomila cassintegrati in deroga (a 700 euro al mese per un massimo di 6 mesi) che saranno dei potenziali disoccupati. Così come lo sono i cassintegrati ordinari che all’esaurimento dellle 52 settimane disponibili passano alla Cig straordinaria o a quella in deroga.
Questo effetto in autunno comincerà ad essere più forte, soprattutto per le piccole e medie imprese.
In questi mesi centinaia di migliaia di lavoratori precari atipici non hanno avuto i loro contratti di lavoro rinnovati (sono stati di fatto licenziati). Con l’aggravarsi della crisi si allarga il rischio di licenziamento anche ai lavoratori stabilizzati a tempo indeterminato.
Soprattutto dalle province del Nord arrivano anticipazioni su piccole e medie imprese che in autunno avranno problemi molto seri.
Per l’ultima metà del 2009, diversi Centri Studi hanno reso pubblici dati molto preoccupanti per quanto riguarda la disoccupazione nel nostro paese.
La CGIA di Mestre prevede che il numero dei disoccupati arriverà a 2 milioni e 200 mila alla fine del 2009.
Il CNEL, nel mese di luglio, aveva calcolato che circa mezzo milione di lavoratori sarebbe rimasto senza posto entro il 2009 e, allo stesso tempo, dava il tasso di disoccupazione in crescita al 9%.
Più pessimista l’IRES-CGIL: la dinamica negativa del PIL, con un meno 6% nel 2009, ed il passaggio da un tasso di disoccupazione dal 6,3% al 9,4% nel 2009 e al 10,3% nel 2010, comporterà tra gli 800 mila e 1 milione di posti di lavoro a rischio a metà dell’anno prossimo.
Queste stime vengono confermate dai dati di giugno dell’ISTAT: nel primo trimestre 2009 si sono persi 204 mila posti di lavoro, mentre sono aumentate di 221 mila unità le persone in cerca di occupazione.
Secondo diversi economisti i disoccupati cominciano ad essere troppi: per le economie occidentali, se non parte il riassorbimento delle persone rimaste senza lavoro e senza reddito, sarà improbabile avere una ripresa “vera”. In una economia in cui il 75/80 % dipende dai consumi interni, un tasso di disoccupazione che oscilla tra il 9 e il 10% è troppo elevato (l’economista francese Jean-Paul Fitoussi sostiene che questo è il vero problema).
Di politiche di contrasto della disoccupazione e di sostegno ai redditi più deboli, da parte dei vari governi europei, però non se ne sono viste.

IL CROLLO DEI CONSUMI E L’INDEBITAMENTO DELLE FAMIGLIE
Nello scenario tracciato dalla IRES-CGIL, la Federconsumatori e l’Adusbef (l’associazione a difesa di consumatori ed utenti bancari, finanziari ed assicurativi) stimano che per le famiglie a reddito fisso si prostettano minori entrate per circa 14 milioni di euro (980 euro all’anno per nucleo famigliare); questo fatto produrrà un’ulteriore ricaduta in termini di consumi.
Questa previsione è confermata anche dai dati recentemente pubblicati dall’Uffico Studi della Confcommerco: nel 2008 le famiglie italiane hanno ridotto i loro acquisti dell’1%, al termine del 2009 la contrazione sarà dell’1,9%. Certo, i bottegai si lamentano sempre per la diminuzione degli incassi, ma stavolta non stanno esagerando: la caduta dei consumi è uno dei segnali più evidenti sugli effetti della crisi; la gente non spende perché ha meno soldi e perché cerca di risparmiare per tutelarsi nei mesi a venire che appaiono sempre più bui.
Nei circoli capitalisti, in questi mesi, si è accettato un “liberismo annacquato” derivante dai contributi di “aiuto” dello Stato, ma c’è pure la consapevolezza che la la soluzione non può essere quella di pompare liquidità: il sostegno della spesa pubblica ai consumi non potrà durare all’infinito. Mentre i consumatori e le imprese spendono di meno, si continua a scendere con rapidità e non ci vorrà molto ad arrivare al tipo di situazione chiamata “toccare il fondo”. Perché più di così è difficile andare giù.
Per quanto riguarda il livello di indebitamento, invece, secondo studi della CGIA di Mestre, alla fine del 2008 ogni famiglia italiana aveva in media debiti per 15 mila euro (l’incidenza più grossa su questa cifra deriva dai mutui bancari per l’acquisto della casa, ma vi è stato un aumento dei debiti contratti per acquisti voluttuari o per sfuggire al buco nero della povertà).

GLI EFFETTI DELLA CRISI IN EMILIA-ROMAGNA
La crisi in Emilia-Romagna sta facendo registrare un salto di qualità in negativo. Nel comparto metalmeccanico, sempre più spesso, si passa dalla cassa integrazione ordinaria a quella straordinaria e alla mobilità (secondo la FIOM il numero dei cassintegrati è in crescita in tutta la regione:“a fine 2008 erano 20 mila, 40 mila a febbraio 2009 ed oggi sono molti di più. E non si sa a che quota terminerà questa spirale”). Siamo di fronte a un passaggio di fase dove si inaspriscono gli effetti della recessione e si aggiungono ad altri frutti amari della crisi.
L’aggravarsi della situazione delle fabbriche viene confermata anche dai dati dell'osservatorio dell'Assessorato Regionale alle Attività Produttive. Sono le imprese artigiane quelle più in difficoltà: i dati dei licenziamenti in Emilia-Romagna riguardano per i due terzi aziende con meno di 15 dipendenti.
Anna Maria Artoni, presidente degli industriali dell’Emilia-Romagna, in un’intervista nel mese di agosto, ha detto: “Il nostro ‘provincialismo’ ci ha fatto soffrire di meno. Noi siamo entrati in ritardo in questa crisi, ma ne usciremo dopo ed anche a una velocità più bassa rispetto agli altri. Abbiamo avuto un crollo dei fatturati del 40-50%, sarà molto difficile che tutte le imprese ce la facciano. C’è il rischio che a settembre non ci siano le risorse finanziarie per molte piccole aziende, per riprendere l’attività. Infatti, il fatturato da scontare sarà ai livelli di un mese come agosto (cioè basso) e le uscite per pagare i fornitori saranno ai livelli di maggio/giugno. In queste condizioni sarà molto difficile ottenere il credito dalle banche per la moratoria sui prestiti, al dilà dell’accordo con l’ABI”.
La FIOM di Bologna ha presentato il 22 luglio 2009 un rapporto in cui si afferma che da aprile a luglio si sono persi 1015 posti di lavoro. A settembre ne sono previsti come a rischio altri 700. L’allarme arriva da 159 aziende che hanno chiesto la Cassa Integrazione in deroga, in quanto, in autunno, quando la crisi si accentuerà, rischiano di aver finito le ore disponibili per la Cig ordinaria.
A settembre del 2008 le aziende che avevano fatto ricorso agli ammortizzatori sociali erano 59; a gennaio 2009 erano 273; ad aprile 2009 erano 548; a luglio 2009 sono arrivate a 607. Molte di queste aziende ricorrono anche agli ammortizzatori previsti dalla Regione Emilia-Romagna (sono stati oltre 40 gli accordi sottoscritti ai Tavoli della Regione e degli Enti locali per processi di ristrutturazione con l’utilizzo della cassa integrazione).
A questi dati vanno aggiunti i fallimenti di aziende che non ce la fanno più. Fabbriche che danno lavoro a 40-50 operai costrette a chiudere perché indebitate, con la banche che chiedono il rientro dei prestiti, mentre le commesse crollano del 40-50 per cento. Sono le fabbriche satellite con poche decine di operai che lavorano per un´azienda madre. Oltre alla crisi dei mercati e al drastico calo delle commesse queste imprese medio-piccole devono fronteggiare anche la concorrenza dell´azienda madre che tende a fare all´interno ciò che prima delegava all´indotto. Tutto questo si va ad aggiungere un’altra situazione, quella delle aziende artigiane che o chiudono o sospendono i lavoratori senza stipendio, perché l’azienda madre se prima pagava entro un certo periodo, ora non paga più i fornitori.
Questo, a livello occupazionale vuol dire che, a Bologna, su 50 mila dipendenti del settore metalmeccanico almeno 21.000 sono in cassa integrazione, 1500 precari sono già saltati, altri mille "fissi" stanno per perdere il lavoro definitivamente. Senza contare i 600 dipendenti di aziende artigiane che hanno esaurito gli ammortizzatori e sono a casa senza stipendio. Va ricordato anche che i precari a cui non viene più rinnovato il contratto scaduto, rischiano in prospettiva di non avere nemmeno un lavoro da precario.
Il caso più eclatante di questa situazione è quello del comune di Sasso Marconi, ormai chiamato il “paese cassintegrato”. Sono 1800 i lavoratori in Cig nel territorio del comune appenninico e forse non rappresentano ancora il tetto della parabola. E’ per metà settembre che si aspetta l’arrivo “dell’onda d’urto”, anche se i dati attuali della crisi sono già drammatici: nel settore meccanico, le aziende coinvolte in cassa integrazione sono 31 (l’Arcotronis ha 350 cassintegrati, 240 la Ravaioli, 20 la El Control, 23 la Rivetteria Bolognese, un centinaio la ATS Microfusione, 40 la Bierrebi e 34 la CAT Corsini - queste due aziende hanno aperto il “Tavolo di crisi”). Nel settore chimico, la CIBA è in crisi, così come le tre aziende grafiche del territorio comunale e la Microgomma. Oltre a queste ci sono altre piccole aziende con meno di dieci dipendenti.
Gli effetti della crisi hanno modificato anche le caratteristiche del “mercato del lavoro illegale”. Un episodio che dovrebbe far riflettere è quello che si è verificato ai Lidi Ferraresi lo scorso 25 luglio. In seguito ad un blitz effettuato dalla Guardia di Finanza, nei pressi di una piccola tendopoli sulla spiaggia di Lido delle Nazioni, gli agenti hanno scoperto una tendopoli di giovani senegalesi (tra i 25 e i 35 anni), con il permesso di soggiorno regolare: si trattava di lavoratori in cassa interazione o in mobilità da fabbriche del Nord Ovest (Brescia, Bergamo, Milano, Varese). Molti di loro erano stati assunti da agenzie di lavoro interinale o erano ex dipendenti di aziende artigiane. Perduto il posto di lavoro si erano messi a vendere borse, vestiti, ciabatte, occhiali sulle spiagge dei lidi ferraresi.

LICENZIAMENTI, CASSA INTEGRAZIONE E MERCATO DEL LAVORO NELLA PROVINCIA DI BOLOGNA
Diego New Holland Quando Diego, il fuoriclasse brasiliano della Juventus, ha battutto il pugno sul petto dopo i gol fatti alla Roma in molti hanno potuto scorgere sulla sua maglia la scritta “New Holland”; sicuramente quasi nessuno vedendo quel logo (che fa parte del “FIAT Group”) avrà pensato a Guido l’operaio 51enne, dipendente da nove anni della CNH (Case New Holland) di Imola, in sciopero della fame davanti ai cancelli dello stabilimento che produce trattori e macchine per il movimento terra. Guido New Holland Questa “protesta estrema” (che ha fatto arricciare il naso all’ex analista di tempi & metodi Sergio Cofferati “facendo così si danneggia il sindacato”) è stata messa in atto perché da quando, lo scorso 23 giugno, la casa madre torinese ha annunciato che tra due anni chiuderà la fabbrica di Imola, il presidio tenuto giorno e notte dai lavoratori non ha sortito nessuna apertura di trattative. I 454 dipendenti della CNH sono stati messi prima in cassa integrazione ordinaria, poi, dopo il 31 agosto, si è passati alla cassa Integrazione Speciale. La CNH passerà successivamente a misure più drastiche come la mobilità, per arrivare alla chiusura dello stabilimento. Le produzioni di Imola saranno trasferite negli altri due stabilimenti CNH di San Mauro (Torino) e Lecce. La decisione sarebbe dovuta al calo del 50% in Europa del mercato delle macchine per le costruzioni.

(Il 9 settembre si è arrivati a un accordo tra Gruppo Fiat e sindacati, per cui i lavoratori della CNH verranno messi in cassa integrazione speciale per un anno, ma nella richiesta degli ammortizzatori sociali non ci sarà scritto "per chiusura dello stabilimento". Nel frattempo verrà costituito un tavolo che non è ben chiaro cosa debba fare).


Sempre per restare in casa Fiat, per far fronte al calo delle commesse che coinvolge tutto il settore dell’auto e conseguentemente della componentistica ad esso collegata, da maggio, alla Magneti Marelli di Crevalcore è iniziata la cassa integrazione ordinaria. In più, nei mesi scorsi, non sono stati rinnovati i contratti di 27 lavoratori interinali, su 75 presenti, e gli altri perderanno il posto nei prossimi mesi. Dopo otto settimane di Cig, anche per i 120 lavoratori a tempo indeterminato non si vedono prospettive, una parte di loro è a forte rischio di mobilità. Sono in molti a sostenere che lo stabilimento sparisca dallo scacchiere Fiat.
Per quanto riguarda la Harris di Pianoro (della multinazionale americana Lincoln), la proprietà deciso di trasferire tutta la produzione in Polonia, mantenendo in Italia forse la sola parte commerciale. Lo scorso i padroni della Harris avevano garantito il mantenimento del sito produttivo, qualche mese fa hanno aperto la “procedura di cessazione di attività” (l’organico era composto da 77 dipendenti). I lavoratori intanto sono in presidio permanente davanti ai cancelli dello stabilimento. Secondo la FIOM, "questa non è una crisi aziendale, è solo una delocalizzazione”.
Per la Fini Compressori di Zola Predosa c’è un piano di fallimento extragiudiziale che prevede la chiusura di due dei tre capannoni dell'azienda, il taglio di 116 posti di lavoro, su un organico attuale di 236 lavoratori, molti dei quali già interessati a provvedimenti di cassa integrazione a rotazione. I lavoratori pensano che la Fini voglia sfruttare l'occasione per chiudere l'attività in Italia e concentrarla nello stabilimento cinese di cui è proprietaria.
A questa specie di bollettino di guerra, si è aggiunta da poco la Marconi di Grizzana Morandi che sta per licenziare 44 dei 47 dipendenti (cassa integrazione straordinaria finalizzata alla liquidazione).
I settori più in crisi? Moto e auto, innanzitutto, con la cassa integrazione che ha raggiunto anche aziende leader come la Ducati Motor (l’ultima settimana di agosto è ritornata la Cig). La Moto Morini ha messo in cassa integrazione 65 lavoratori, motivazione ufficiale “crisi finanziaria”, altrettanto ha fatto la Paioli, azienda di forcelle. Anche la Minarelli, azienda motociclistica di proprietà giapponese, vede arrivare gli “elementi negativi della internazionalizzazione” (50/60% di taglio delle commesse). Alla Lamborghini auto, su 800 dipendenti, 500 operai sono in cassa integrazione a rotazione; molti contratti di lavoratori atipici e precari nei primi sei mesi del 2009 non sono stati rinnovati
In crisi anche la componentistica degli elettrodomestici: nel settore macchine per lavasecco c’è la Amalind (44 lavoratori in Cig) e la Firbimatic (250 lavoratori a rischio).
In Appennino le aziende vanno a scartamento ridotto: oltre a Saeco (recentemente acquistata dalla Philips), in cassa integrazione c´è anche la Demm di Porretta. Della Arcotronics, abbiamo parlato prima nell’ambito della grave situazione occupazionale di Sasso Marconi.
Nel settore del Packaging, è in difficoltà l’azienda Morara (30 operai in Cig), fornitrice dell’indotto GD: la casa madre ha interrotto la richiesta di commesse.
Anche la Cesa ha visto un taglio delle commesse del 50-60%. In tutta la provincia ci sono aziende metalmeccaniche che rischiano di perdere posti di lavoro. E’ un elenco lunghissimo che compone questo “settembre nero” dell’industria bolognese: la Res&Dev (50), la Ox Valsetta (30), la MGM it store (70), la Bini (50), l’Elettronica BS (30), la Gigant (20), la Pastelli (70).
Fuori dal comparto metalmeccanico, un’altra vicenda che avuto le prime pagine dei giornali è quella dei lavoratori di Disco Verde, Disco Verde servizi e Full Security che il 31 agosto hanno occupato la sede aziendale di Zola Predosa. Gli 80 dipendenti di questo raggruppamento di aziende da quattro mesi non ricevono gli stipendi e rischiano tutti il posto di lavoro (l’attività sarebbe stata spostata in Romania).
Per quanto riguarda il mercato del lavoro, secondo i dati dei Centri per l’Impiego della Provincia di Bologna, le caratteristiche della disoccupazione, nel corso del 2007, hanno subito diversi cambiamenti:
- I disoccupati sono aumentati di circa 4.600 unità (da 42.000 a 46.600)
- Nel numero complessivo degli occupati è diminuito il peso delle donne (dal 59,8% al 57,7%);
- Sono aumentati i lavoratori immigrati (dal 23,4% al 25,4%);
- Si è arrestato lo spostamento verso le classi di età più mature (gli iscritti con più di 44 anni diminuiscono dal 29,2% al 28,5%);
- E aumentato il numero di coloro che possiedono un titolo di studio superiore (dal 39,1% al 41,9%).
Il saldo tra avviamenti e cessazioni lavorative si è deteriorato: se nel primo trimestre del 2008 c’era un “+ 20.821”, nello stesso periodo del 2009 si arriva solo a un “+ 9.539”. Ma è confrontando i dati del secondo trimestre 2008 (dove si riscontra un + 4.367) col secondo trimestre 2009 si comprende lo stravolgimento della situazione in negativo (un – 7.508)
La diminuzione degli avviamenti è stata più intensa nelle zone dove ci sono più insediamenti industriali. Al tempo stesso è progressivamente diminuita la durata del periodo di lavoro connesso a ciascun avviamento. La durata media di un avviamento a Tempo Determinato è passata da 53 giorni (nel periodo gennaio 2005- marzo 2009) a 35 giorni (nel periodo gennaio 2008- marzo 2009).
In questa situazione di crisi generale del sistema economico, nella prospettiva di una stagnazione prolungata, hanno svolto un ruolo di salvaguardia sociale i pochi elementi residui di “rigidità” del mercato del lavoro e il sistema degli ammortizzatori sociali (circa 8.500 lavoratori equivalenti in Cassa Integrazione nel mese di giugno).
Tra le conseguenze più gravi della crisi ci sono un’accresciuta disuguaglianza dei redditi e un aumento della fascia di persone cadute in povertà.
- Per quanto riguarda la disuguaglianza della distribuzione dei redditi in Italia tra il 1995 e il 2005 c’è stato un aumento molto forte: l’indice di Gini-Lorenz è cresciuto di 6 punti percentuali dal 29% al 35% (dati OCSE 2008). Tra le cause, l’OCSE mette in evidenza il contributo del diffondersi del lavoro “non standard”. Tra le regioni del Centro-Nord, l’Emilia-Romagna (2006) presenta uno dei valori più elevati (0,31).
- Per quanto riguarda le persone cadute in povertà occorre considerare: la crescita della diffusione del disagio sociale ed economico che viene segnalato dai servizi sociali (pubblici e delle associozioni di volontariato), la crescita dei lavoratori “precari” in età matura (45 anni e oltre), l’esame “oggettivo” dei dati riguardanti le retribuzioni dei lavoratori dipendenti, ricavati dagli avviamenti.

COSA FARE E COSA PROPORRE
operai INNSE In primo luogo non è il caso di continuare, con modalità ormai stantie, una vecchia diatriba tra chi (di impostazione sindacale/lavorista) parla “solo” di difesa del posto di lavoro e chi (di impostazione movimentista) agita da anni la questione del reddito garantito.
Questa crisi è la dimostrazione del fallimento del liberismo. E’ il capitalismo globale che è entrato in una crisi strutturale che distrugge posti di lavoro creando disoccupazione, che massacra redditi già esangui di lavoratori e precari producendo miseria.
Un primo obiettivo “necessario” era, dunque, che nessuno perdesse il posto di lavoro: i processi di espulsione dalle fabbriche andavano bloccati. Purtroppo, in questi mesi, su questo fronte, i risultati sono stati scarsi.
Dopo tanto tempo, si è ricominciato a parlare di sostegno dei redditti più bassi a fronte degli evidenti problemi di redistribuzione del reddito che sono stati “tollerati” in questi anni. Per fortuna la “rigidità del salario” ritorna come concetto-base a garanzia della vita dei lavoratori. Ma bisogna essere consapevoli che oggi è ancora la BCE che orienta le poltiche dei governi europei su scelte restrittive per cui i salari e i consumi dovrebbero restare fermi, riproponendo di fatto la già conosciuta “politica dei due tempi” aggiornata alla fase attuale: “prima i sacrifici per rientrare del debito (che nel frattempo è aumentato) e poi la ripresa…”
Quasi nessuno, a parte Pietro Ichino, oggi ha il coraggio di affermare che la flessibilità crea opportunità lavorative. Gli effetti che la frantumazione del lavoro ha prodotto corrispondono ai processi di frantumazione dell’esistenza. Anche il più stolto degli stolti (se in buona fede) si è accorto che si mirava solo alla riduzione dei costi. Oggi la condizione di lavoro è tragica. Per ripartire, l’obiettivo deve essere chiaro: liquidare la precarietà.
Chi timimidamente, in questi mesi, aveva arrischiato una fiduciosa provocazione culturale “la crisi potrebbe essere un’occasione di cambiamento”, ha ritirato in fretta l’azzardo. Di questi tempi sono altre le parole che rappresentano un radicato sentimento comune: “catastrofe”, “scoramento”, “disatrosa sconfitta”.
Poi, all’improvviso, c’è stata l’innaspettata “arrampicata sociale” degli operai dell’INNSE, dall’alto di quella gru hanno tracciato un nuovo orizzonte di speranza, riattivando la solidarietà e la conflittualità operaia. Nelle settimane successive sono partite altre arrampicate sui cornicioni, sulle terrazze, sui tetti di aziende e uffici pubblici, ci sono state occupazioni, scioperi della fame e incatenamenti. Forse è la disperazione che ha fatto scattare questo spirito di emoluzione, ma forse è vera anche un’altra cosa: queste “inusuali” proteste stanno a significare che la forma di lotta sindacale tradizionale (lo sciopero) ha perso la sua efficacia, quando sono i padroni a chiudere i reparti e a fermare la produzione; che le manifestazioni sindacali classiche non sono riuscite a rompere il muro di omertà che i media avevano costruito nei confronti del dramma che stanno vivendo i lavoratori.
Che ci sia una crisi della rappresentanza, anche nella forma sindacale, non è una novità. Gli operai non si sentono più classe, ma individui che nel giro di pochi mesi si sono visti la vita stravolta dagli effetti della crisi. L’identità di classe che un tempo era quella cosa che faceva scattare la molla della partecipazione alle lotte, oggi deve essere “stimolata” da un qualche elemento di “drammatizzazione” che faccia vedere a tutti cos’è la solitudine che prova un cassintegrato o una persona che ha perso il posto di lavoro o una precaria a cui non è stato rinnovato il contratto.
Quindi chi ripropone ancora la questione “violenza – nonviolenza” (alla INNSE hanno vinto perché sono stati gandhiani, mentre gli operai francesi hanno perso perché hanno “sequestrato” i manager”) o chi, come contraltare, declama lo slogan “la lotta dura paga”, ha capito molto poco di questo inconscio bisogno di efficacia che queste nuove pratiche di lotta esprimono di fronte alla difficoltà di tenere insieme i tanti drammi sociali e le ribellioni che producono.
Con moltà umiltà, bisogna sostenere concretamente tutte queste battaglie che i lavoratori portano avanti, ma in questi momenti è necessario anche alzare lo sguardo oltre la contingenza.

“CERCASI PADRONI BUONI DISPERATAMENTE”… NON AVENDOLI TROVATI MOLTO MEGLIO L’AUTOGESTIONE
potere operaio Se c’è un pericolo che non bisogna correre è quello che, nelle lotte contro i licenziamenti e la chiusura delle fabbriche, si sviluppi una condizione psicologica da “Sindrome di Stoccolma” degli operai nei confronti dei loro padroni. Non è vero, come dice la Lega Nord, che proprietari, manager e dipendenti sono tutti sulla stessa barca e bisogna remare insieme per non farla affondare. Non è assolutamente sano identificarsi nei problemi di chi ti ha “tenuto in ostaggio” per tutto il tempo che hai lavorato per lui. E’ meglio aver chiaro che di cav. Attilio Camozzi non ce n’è uno dietro ad ogni angolo, in attesa di essere “sensibilizzato” da una lotta operaia come quella dell’INNSE. Quindi per non trovarsi di fronte a degli striscioni del tipo “cercasi padroni buoni disperatamente” è molto meglio cominciare a prepararne con su scritto: “la fabbrica la possiamo gestire da soli, non c’è bisogno dei padroni”.
Nelle lotte, nei processi di trasformazione, nei movimenti che prefigurano “un altro mondo possibile” anche il cosa e il come produrre devono essere elementi importanti per il cambiamento dell’esistente.
In questi ultimi tempi, qualcuno ha ripescato la parola d’ordine della “nazionalizzazione delle fabbriche”. Al di là che sul piano politico, in un paese come l’Italia, risulta essere abbastanza irrealistica, ci viene da pensare che avrebbe, quasi esclusivamente, l’effetto della bandiera piantata come testimonianza ideologica. Semmai si riuscissero ad avviare dei processi di “pubblicizzazione” questi potrebbero essere adatti per i grandi gruppi industriali, ma la proposta non sarebbe molto praticabile rispetto a un modello produttivo di piccole e medie aziende come quello del nostro paese.
Il pubblico deve mantenere un ruolo nel definire strategie e politiche industriali (altrimenti come si possono sviluppare processi di riconversione produttiva utili alla collettività come, per esempio, la greeen economy), deve decidere sugli investimenti da dedicare a domande sociali inevase (attorno a questi bisogni si possono organizzare attività economiche), ma oggi, in epoca di “Stato minimo”, invece della statalizzazione (reintrodurre di nuovo le “Partecipazioni Statali”?) ci sembra più “realistico”, anche come elemento di rottura, porre la questione dell’autogestione.
Dal 2001 ad oggi, in Argentina, è stata sperimentata un’eccezionale stagione di dibattito e mobilitazione che ha dato vita all’esperienza delle fabbriche recuperate. In un paese dove il liberismo aveva causato una gravissima crisi economica (con il 60% della popolazione trascinata sotto la soglia di povertà), l’avvio di esperienze di autogestione da parte dei lavoratori ha eliminato le vecchie gerarchie, ha dato una svolta alla forma organizzativa e alla conduzione dell'impresa, ha permesso agli operai di ricavare salario e dignità, attribuendo un valore sociale al lavoro in un paese dilaniato dalla disuguaglianza sociale, ha posto la questione della realizzazione di opere pubbliche a favore della comunità e, infine, ha rafforzato la lotta dei movimenti collettivi nei processi di cambiamento.
In un’intervista rilasciata al manifesto, durante una sua visita in Italia José Abelli, presidente del MNNER (Movimiento Nacional de Empresas Recuperadas che coordina l'attività di 200 fabbriche, medie o piccole) dichiarò: “Recuperare una fabbrica fallita significa che gli operai prendono in mano la gestione della loro attività. È una forma di autogestione nuova, dettata dal momento storico in cui si produce e dalla contrapposizione al modello neoliberista. Noi diciamo che per generare ricchezza non è necessario lo sfruttamento, il lavoro minorile, il lavoro nero, il taglio sistematico del costo del lavoro. La ricchezza che genera un'attività può trovare forme di distribuzione diverse da quelle attuali. L'esperienza argentina dimostra che sì, è necessario ridurre i costi: ma non il costo del lavoro - quello degli imprenditori”.
Nella strategia di un movimento (politico, sindacale) che vuole tutelare fino in fondo gli interessi dei lavoratori ci può stare anche il recupero e l’autogestione di aziende in crisi, il sostegno di imprese sociali di giovani lavoratori e precari o la riattivazione di imprese abbandonate da speculatori e affaristi? Noi crediamo di sì.
Si può recuperare, aggiornandolo ai giorni nostri, il mutualismo dei cooperatori dei primi del ‘900, delle società operaie di mutuo soccorso, delle leghe contadine delle nostre terre e dimostrare che la strada “capitalistica” imboccata dalla Legacoop non è l’unica percorribile.

REDDITO DI CITTADINANZA, SE NON ORA QUANDO?
Già nel 1966, negli USA, un economista neo-keynesiano e non marxista come il premio Nobel per l’Economia James Tobin (diventato famoso nel movimento no-global per la cosiddetta “Tobin Tax”), aveva iniziato a porre la questione: “Assicurare ad ogni famiglia un livello di vita decente a prescindere dalle sue capacità di guadagno (…) sia che essa abbia o meno al momento la possibilità di garantirsi tale livello di vita attraverso il mercato del lavoro”.
In diversi paesi dell’Unione Europea, dagli anni ’60 in poi, sono state introdotte varie forme di salario garantito come diritto soggettivo esigibile:
- in Norvegia (si chiama reddito di esistenza) 500 euro mensili che si sommano a contributi per le spese di alloggio e di elettricità;
- in Danimarca 1153 euro mensili;
- in Inghilterra 170 sterline settimanali;
- in Belgio 740 euro mensili;
- in Olanda si chiama beinstand ed è un contributo individuale, accompagnato al sostegno per l’affitto e per i trasporti per gli studenti (esiste anche un sussidio per artisti, chiamato wik, di 500 euro mensili);
- in Lussemburgo 1100 euro mensili.
In Italia, invece, nelle stagioni più calde di lotte operaie vennero strappati i cosiddetti “ammortizzatori sociali” (cassa integrazione ordinaria, cassa integrazione speciale, assegno di mobilità), provvedimenti che non possono essere goduti, però, dagli operai delle piccole aziende, dai precari e dai disoccupati.
I partiti politici italiani hanno sempre avversato qualsiasi forma di accesso al reddito garantito, nascondendosi dietro i “rischi di parassitismo insiti nel sussidio di disoccupazione”, hanno invece preferito (soprattutto nelle regioni del Sud) favorire una commistione di interessi (politici e imprenditoriali), questa sì parassitaria, in cui l’accesso al mondo del lavoro si basa su un sistema clientelare, utile a perpetrare il loro potere.
Oltre a questo, quante volte la FIAT e altri grandi gruppi industriali hanno usato la minaccia dei licenziamenti come arma di ricatto nei confronti delle Istituzioni per estorcere altri finanziamenti?
Nel Meridione questa strategia ha prodotto un drenaggio infinito di risorse pubbliche, ha prodotto cattedrali nel deserto che si sono trasformate in poco tempo in ecomostri: capannoni che rimangono vuoti, immensi magazzini e piazzali che si riempiono di auto o di altre merci che saranno acquistate sempre di meno perché i redditi da salari e pensioni in questi anni sono stati massacrati.
Su queste questioni il silenzio della “sinistra lavorista” è stato assordante. La parola d’ordine della “piena occupazione” è diventata sempre più un miraggio, non supportato nemmeno da politiche coerenti per raggiungere obiettivi in tal senso. Che fine ha fatto, per esempio, il “lavorare meno lavorare tutti” che nella seconda metà degli anni ’80 produsse risultati concreti per quanto riguarda la riduzione d’orario in diversi paesi europei, mentre in Italia fu solo agitato timidamente?
Non è un paradosso, nei paesi dove esistono forme di garanzia del reddito, dove si sono attuate riduzioni dell’orario di lavoro, si è prodotto meno lavoro nero e meno disoccupazione che in Italia.
L’aver subito, invece, l’aggancio dei salari alla produttività, la flessibilità e la precarietà del mercato del lavoro, e, al tempo stesso, l’innalzamento dell’età pensionabile, in nome di una competitività che avrebbe prodotto nuovi sbocchi occupazionali ha lasciato campo libero al liberismo imperante, cioè a chi ha causato la catastrofe economico-finanziaria le cui conseguenze cadono sulle spalle di lavoratori, precari, disoccupati, giovani in cerca di un primo impiego.
Va lanciata una campagna per il reddito di cittadinanza che coinvolga diversi soggetti sociali. Bisogna affrontare il tema del reddito e non solo quello del lavoro. Iniziamo a chiedere soldi non solo occupazione.
Concretamente una campagna per il reddito di cittadinanza fa dei passi in avanti, anche attraverso lotte e vertenze per l’allargamento delle forme del cosiddetto “salario sociale”. L’Italia, secondo i dati di Eurostat, spende per il sostegno alle famiglie e alla casa, circa il 4,4% del complessivo della spesa sociale, contro il 15% di Danimarca e Irlanda, il 13% della Germania, l’11% della Gran Bretagna, il 6,3% della Spagna. Per questo gli Enti locali vanno sollecitati costantemente per quanto riguarda gli interventi e le risorse per fare fronte alle situazioni di criticità causate dall’impoverimento di nuove fasce di popolazione colpite dalla crisi. Vanno rivendicati accessi “tutelati” al lavoro per i soggetti più deboli. Le amministrazioni comunali possono contribuire alla difesa del potere di acquisto dei salari, con adeguate politiche di agevolazioni tariffarie sui servizi pubblici per i soggetti colpiti da provvedimenti di cassa integrazione o che hanno perso il posto di lavoro o che vivono situazioni di disoccupazione, di con politiche di calmieramento dei prezzi (aumentando le giornate di apertura al pubblico del mercati tipo CAAB, favorendo la formazione e lo sviluppo dei Gruppi d’Acquisto Solidale, attivando convenzioni con negozi e supermercati per sconti su un “paniere di prodotti”).
Tutto questo è assolutamente necessario per creare “spazi di vita” liberi dallo sfruttamento salariato, dalla precarietà selvaggia, dal caporalato legalizzato, dal parassitismo sociale.
Discorso difficile da affrontare davanti ai cancelli di una fabbrica che ha cessato l’attività, ma è arrivato il momento di cominciare a farlo.

Questa inchiesta è stata terminata il 3 settembre 2009